Dopo la notiza della morte di Sarah in diretta tivù
di Annalena Benini
La madre di Sarah ha capito che non avrebbe rivisto mai più la figlia di quindici anni quando Federica Sciarelli, a telecamere accese e in diretta davanti ai nostri divani, le ha letto un’agenzia di stampa, forse senza rendersi conto immediatamente delle frasi che le uscivano di bocca: “Concetta, dice il quotidiano di Puglia che lo zio avrebbe confessato, in questi minuti i carabinieri starebbero cercando il corpo”. La madre di Sarah era seduta lì, nel soggiorno dell’assassino, con le vetrinette piene di ceramiche decorate, e non riusciva nemmeno a muovere gli occhi. Pietrificata.
Sarah, uccisa, lo zio, il corpo, cercare, campagna, si vedevano le parole galleggiarle intorno, nella nuova frontiera dell’omicidio, in cui tutti (tre milioni e mezzo di persone, quindici per cento di share) eravamo nella casa di uno zio che ha strangolato nel garage, denudato, forse violentato, trasportato in macchina e buttato in un buco una ragazzina bionda (“la mia figlietta piccola”, come diceva piangendo durante le interviste), la figlia della sorella di sua moglie, l’amica del cuore di sua figlia, sua nipote scomparsa più di un mese fa. La madre aveva condiviso con il mondo la sparizione di Sarah, chiedeva aiuto e sperava che la televisione potesse servire a ritrovarla (“Chi l’ha visto” è fatto a volte di storie a lieto fine), ma è stata la televisione a dirle: è finita. Ha condiviso con il mondo anche il momento dell’annuncio della morte, con le frasi incompiute sul ritrovamento del cadavere, sulla posizione esatta, “cercano sulla provinciale di Avetrano”.
Non si potevano più staccare gli occhi dalla casa, dall’ingresso di mattoni in cui per quaranta giorni è stato custodito un segreto mostruoso, e non si poteva evitare di guardare l’intervista, che “Chi l’ha visto” ha immediatamente rimandato in onda, allo zio di Sarah che piange, si copre gli occhi azzurri con le mani sporche di terra, mostra tutti i movimenti che l’hanno portato a ritrovare nel campo il cellulare della ragazzina, mostra il percorso, la cenere, le foglie, l’auto, gli alberi, il cacciavite. “Ho visto una cosa d’argento che brillava, era un telefonino, pensavo che fosse del mio collega, ma poi ho visto i due ciondoli e ho telefonato subito a casa, ho capito”, frasi ripetute anche sull’uscio di casa, con in testa un cappello da pescatore, e di nuovo al Tg1, “Che rapporti aveva con Sarah?”, “Normali, di famiglia, nemmeno il numero del cellulare avevo”. Guardarlo recitare così bene nel momento esatto in cui viene data la notizia della confessione era terribile e ipnotico, era un crudele gioco di ruolo.
Non è la televisione cinica, non è il reality show della morte (e non è il giornalista televisivo brasiliano che commissionava omicidi per arrivare prima della polizia sul luogo del delitto e aumentare lo share), è che la televisione è tutto ed è dappertutto. In televisione si esiste, ci si difende, si spiega, si chiede, si cerca, si piange, ci si muove come in un tinello qualunque. Una madre cerca la propria figlia, ha bisogno della televisione, un assassino deve deviare i sospetti (oppure gridare: aiuto, sono stato io, lo vedete che non sono sincero, guardate che non ho lacrime, venitemi a prendere), quindi va in televisione. Non c’è nient’altro che abbia la stessa forza. E non c’è nessuno che, davanti alla morte partecipativa, riesca a distogliere lo sguardo.
Sarah, uccisa, lo zio, il corpo, cercare, campagna, si vedevano le parole galleggiarle intorno, nella nuova frontiera dell’omicidio, in cui tutti (tre milioni e mezzo di persone, quindici per cento di share) eravamo nella casa di uno zio che ha strangolato nel garage, denudato, forse violentato, trasportato in macchina e buttato in un buco una ragazzina bionda (“la mia figlietta piccola”, come diceva piangendo durante le interviste), la figlia della sorella di sua moglie, l’amica del cuore di sua figlia, sua nipote scomparsa più di un mese fa. La madre aveva condiviso con il mondo la sparizione di Sarah, chiedeva aiuto e sperava che la televisione potesse servire a ritrovarla (“Chi l’ha visto” è fatto a volte di storie a lieto fine), ma è stata la televisione a dirle: è finita. Ha condiviso con il mondo anche il momento dell’annuncio della morte, con le frasi incompiute sul ritrovamento del cadavere, sulla posizione esatta, “cercano sulla provinciale di Avetrano”.
Non si potevano più staccare gli occhi dalla casa, dall’ingresso di mattoni in cui per quaranta giorni è stato custodito un segreto mostruoso, e non si poteva evitare di guardare l’intervista, che “Chi l’ha visto” ha immediatamente rimandato in onda, allo zio di Sarah che piange, si copre gli occhi azzurri con le mani sporche di terra, mostra tutti i movimenti che l’hanno portato a ritrovare nel campo il cellulare della ragazzina, mostra il percorso, la cenere, le foglie, l’auto, gli alberi, il cacciavite. “Ho visto una cosa d’argento che brillava, era un telefonino, pensavo che fosse del mio collega, ma poi ho visto i due ciondoli e ho telefonato subito a casa, ho capito”, frasi ripetute anche sull’uscio di casa, con in testa un cappello da pescatore, e di nuovo al Tg1, “Che rapporti aveva con Sarah?”, “Normali, di famiglia, nemmeno il numero del cellulare avevo”. Guardarlo recitare così bene nel momento esatto in cui viene data la notizia della confessione era terribile e ipnotico, era un crudele gioco di ruolo.
Non è la televisione cinica, non è il reality show della morte (e non è il giornalista televisivo brasiliano che commissionava omicidi per arrivare prima della polizia sul luogo del delitto e aumentare lo share), è che la televisione è tutto ed è dappertutto. In televisione si esiste, ci si difende, si spiega, si chiede, si cerca, si piange, ci si muove come in un tinello qualunque. Una madre cerca la propria figlia, ha bisogno della televisione, un assassino deve deviare i sospetti (oppure gridare: aiuto, sono stato io, lo vedete che non sono sincero, guardate che non ho lacrime, venitemi a prendere), quindi va in televisione. Non c’è nient’altro che abbia la stessa forza. E non c’è nessuno che, davanti alla morte partecipativa, riesca a distogliere lo sguardo.
«Il Foglio» dell'8 ottobre 2010
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