di Christian Raimo
Domenica scorsa apro il domenicale e vedo qualcosa di inedito: articoli di Luzzatto, Pedullà, Pacifico, De Majo, Ricuperati, Lagioia. Sono persone con cui ho condiviso dei percorsi, sono intellettuali (storici, critici, scrittori, giornalisti, politici della cultura...) che per anni hanno cercato un terreno di confronto comune che non si è quasi mai dato; trovarli tutti insieme per la prima volta dopo tanto mi ha suscitato una reazione ambivalente. Perché, mi sono chiesto, questa non è la normalità da tempo?
Ma soprattutto: perché, da questo e da pochi altri piccoli esempi che si riconoscono in giro, non si potrebbe finalmente cominciare a rimodellare la forma di uno spazio di dibattito pubblico che sia al tempo stesso politico e culturale, e che non avvenga, come al solito, all'interno di nicchie autocompiaciute o autoconsolatorie?
Sarebbe una questione ovvia, se non fosse che in Italia – difficile non accorgersene – siamo invasi da un vuoto. Sono anni che sento i migliori giornalisti, i più interessanti intellettuali italiani, le persone che hanno a cuore il futuro politico di questo paese dar voce a un'unica geremiade che può assumere di volta in volta forme diverse ma ricorsive: non mi riconosco in un partito che non riesce a trasmettermi uno straccio di senso comunitario, scrivo per questo giornale di cui non condivido il progetto editoriale figuriamoci la linea culturale, lavoro per la rivista x perché almeno mi paga due lire, ho messo su un blog come forma di minima resistenza...
Il vuoto è il disagio, la frustrazione, la mancanza di riconoscimento, l'impossibilità del conflitto, gli anni che passano, una generazione immobile. È l'aver a che fare con un meccanismo che potrebbe essere descritto in questi termini: la scelta che oggi si pone a uno scrittore, a un giornalista, a un intellettuale, a un semplice cittadino è questa: come posso vivere, fare esperienza, produrre arte, agire politicamente, ribellarmi, senza che tutto ciò si esaurisca in un gesto ininfluente? Come posso far sì che la mia attitudine critica, l'impegno civile, l'esperienza politica non sia una forma di intrattenimento, di mero consumo culturale, un passatempo come un altro? È il paradosso di Winston in 1984 di Orwell: come posso agire in modo che il mio intervento in una società che controlla la stessa parametrazione della verità sia credibile prima di tutto a me stesso? Quali parole userò, di quale retorica mi posso fidare? Quale pratica sociale avrà una sua efficacia per me e per gli altri?
Cominciate a riconoscervi? Metteteci anche che c'è un (non)modello relazionale che si è parallelamente imposto: e il paesaggio intorno a noi si è desertificato anche per la mancanza di rapporti personali. Al confronto, si è sostituita l'anti-politica, l'anti-intellettualismo, l'anti-elitismo di varia foggia, le crociate indiscriminate contro vecchi, professori, istituzioni...
E proprio mentre questa grande bolla anossica occupava l'intero orizzonte culturale trasformandolo in un immaginario collettivo nutrito solo di barzellette e recriminazioni, perdevano di corpo anche le ultime strutture residuali dell'umanismo novecentesco: le potenzialità della politica attiva, la credibilità della chiesa, la forza dell'impegno sociale, l'autorevolezza della scuola e delle università, il ruolo in generale di quello che da tre secoli in qua è stata l'opinione pubblica...
Come fare a resistere, ci si chiede. Così: al massimo si prova a occupare di volta in volta un pezzettino di questo vuoto. Scrittori a cui si chiede un'autorevolezza da statisti, case editrici indipendenti che si fanno succedanee nel ruolo che avevano i partiti (come è accaduto per il decreto intercettazioni o per il sostegno pubblico alla cultura), festival della letteratura o del diritto che provano a fare le veci di un'università allo sbando: tentativi apprezzabili, accidentati percorsi collettivi e prometeici sforzi individuali.
Ma, proprio perché estemporanei e isolati, destinati ad avere semplicemente un valore di rifugio; compensatorio, quindi fragile. Fare politica si riduce a cliccare su Facebook per salvare la vita a Sakineh. Per studiare biologia marina può bastare un abbonamento a «Focus». Per farsi finanziare un'inchiesta sulla guerra in Somalia bisogna prima scrivere una decina di servizi sulle sfilate di moda a Addis Abeba...
Che dite? Possiamo finirla di contemplare questo deserto in una sorta di fascinazione apocalissofila e cominciare a pensare a come ricostruire una piccola civiltà culturale? Possiamo raddensare queste energie disperse iniziando a farle circuitare, e poi esplodere? Vi va di dismettere quell'espressione di disincanto che vi si legge negli occhi?
Ma soprattutto: perché, da questo e da pochi altri piccoli esempi che si riconoscono in giro, non si potrebbe finalmente cominciare a rimodellare la forma di uno spazio di dibattito pubblico che sia al tempo stesso politico e culturale, e che non avvenga, come al solito, all'interno di nicchie autocompiaciute o autoconsolatorie?
Sarebbe una questione ovvia, se non fosse che in Italia – difficile non accorgersene – siamo invasi da un vuoto. Sono anni che sento i migliori giornalisti, i più interessanti intellettuali italiani, le persone che hanno a cuore il futuro politico di questo paese dar voce a un'unica geremiade che può assumere di volta in volta forme diverse ma ricorsive: non mi riconosco in un partito che non riesce a trasmettermi uno straccio di senso comunitario, scrivo per questo giornale di cui non condivido il progetto editoriale figuriamoci la linea culturale, lavoro per la rivista x perché almeno mi paga due lire, ho messo su un blog come forma di minima resistenza...
Il vuoto è il disagio, la frustrazione, la mancanza di riconoscimento, l'impossibilità del conflitto, gli anni che passano, una generazione immobile. È l'aver a che fare con un meccanismo che potrebbe essere descritto in questi termini: la scelta che oggi si pone a uno scrittore, a un giornalista, a un intellettuale, a un semplice cittadino è questa: come posso vivere, fare esperienza, produrre arte, agire politicamente, ribellarmi, senza che tutto ciò si esaurisca in un gesto ininfluente? Come posso far sì che la mia attitudine critica, l'impegno civile, l'esperienza politica non sia una forma di intrattenimento, di mero consumo culturale, un passatempo come un altro? È il paradosso di Winston in 1984 di Orwell: come posso agire in modo che il mio intervento in una società che controlla la stessa parametrazione della verità sia credibile prima di tutto a me stesso? Quali parole userò, di quale retorica mi posso fidare? Quale pratica sociale avrà una sua efficacia per me e per gli altri?
Cominciate a riconoscervi? Metteteci anche che c'è un (non)modello relazionale che si è parallelamente imposto: e il paesaggio intorno a noi si è desertificato anche per la mancanza di rapporti personali. Al confronto, si è sostituita l'anti-politica, l'anti-intellettualismo, l'anti-elitismo di varia foggia, le crociate indiscriminate contro vecchi, professori, istituzioni...
E proprio mentre questa grande bolla anossica occupava l'intero orizzonte culturale trasformandolo in un immaginario collettivo nutrito solo di barzellette e recriminazioni, perdevano di corpo anche le ultime strutture residuali dell'umanismo novecentesco: le potenzialità della politica attiva, la credibilità della chiesa, la forza dell'impegno sociale, l'autorevolezza della scuola e delle università, il ruolo in generale di quello che da tre secoli in qua è stata l'opinione pubblica...
Come fare a resistere, ci si chiede. Così: al massimo si prova a occupare di volta in volta un pezzettino di questo vuoto. Scrittori a cui si chiede un'autorevolezza da statisti, case editrici indipendenti che si fanno succedanee nel ruolo che avevano i partiti (come è accaduto per il decreto intercettazioni o per il sostegno pubblico alla cultura), festival della letteratura o del diritto che provano a fare le veci di un'università allo sbando: tentativi apprezzabili, accidentati percorsi collettivi e prometeici sforzi individuali.
Ma, proprio perché estemporanei e isolati, destinati ad avere semplicemente un valore di rifugio; compensatorio, quindi fragile. Fare politica si riduce a cliccare su Facebook per salvare la vita a Sakineh. Per studiare biologia marina può bastare un abbonamento a «Focus». Per farsi finanziare un'inchiesta sulla guerra in Somalia bisogna prima scrivere una decina di servizi sulle sfilate di moda a Addis Abeba...
Che dite? Possiamo finirla di contemplare questo deserto in una sorta di fascinazione apocalissofila e cominciare a pensare a come ricostruire una piccola civiltà culturale? Possiamo raddensare queste energie disperse iniziando a farle circuitare, e poi esplodere? Vi va di dismettere quell'espressione di disincanto che vi si legge negli occhi?
«Il Sole 24 Ore» del 3 ottobre 2010
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Facciamo un gioco sul senso del vuoto per la letteratura, per la cultura e per noi
di Cristina Battocletti
Facciamo un gioco sul senso del vuoto per la letteratura, per la cultura e per noi
di Cristina Battocletti
Che cos'è il vuoto politico e culturale di cui Christian Raimo parla sulle pagine del domenicale del Sole 24 Ore? Il vuoto è solo nocivo o come la noia può essere una fase di stasi necessaria prima della creatività? Tonino Guerra e Michelangelo Antonioni, quando lavoravano alla sceneggiatura di "La notte" e incappavano in un vuoto di scrittura, si mettevano a giocare seduti nel corridoio della casa romana di Antonioni. Stavano ore sul pavimento di marmo bianco a strisce oblique bianche e nere facendo scivolare un sasso che doveva raggiungere la striscia nera che ciascuno aveva accanto.
Giocando era nata la sceneggiatura. Che cosa c'è di vero nella tesi secondo cui il bisogno fortifica la determinazione delle persone? Come già scrisse Remo Bodei sul domenicale il doppio ideogramma cinese «wei» e «ji», pericolo e rinascita, ricalca l'ambiguità del greco «krisis». L'Italia del Cinquecento saccheggiata dagli eserciti stranieri, raggiunse i vertici della cultura e dell'arte con il Rinascimento. In questo momento storico sono i popoli dell'est e del terzo mondo che lavorano più duramente per creare un futuro per i propri figli. Il vuoto a rendere è uno scambio positivo, economico e ecosostenibile. Sotto vuoto il cibo si conserva. Per Aristotele il vuoto non esisteva "perché la natura aborre il vuoto".
Ecco come la parola vuoto ricorre nella recente letteratura, cinema e arte in generale
Letteratura: "Vuoto d'amore" di Alda Merini (1991). La raccolta di sei poesie dell'artista scomparsa di recente, altro non è che una protesta per lo stato di solitudibe e una richiesta di attenzione e di amore
Musica: Il vuoto di Franco Battiato (2007). Il paroliere siciliano canta: "Inseguo il nostro tempo vuoto di senso, senso di vuoto
E persone quante tante persone un mare di gente nel vuoto"
Cinema: Sguardo nel Vuoto (2007) è un film di Scott Frank, un trhiller sulla memoria, di come il cervello si ribelli al dolore dimenticando.
Giocando era nata la sceneggiatura. Che cosa c'è di vero nella tesi secondo cui il bisogno fortifica la determinazione delle persone? Come già scrisse Remo Bodei sul domenicale il doppio ideogramma cinese «wei» e «ji», pericolo e rinascita, ricalca l'ambiguità del greco «krisis». L'Italia del Cinquecento saccheggiata dagli eserciti stranieri, raggiunse i vertici della cultura e dell'arte con il Rinascimento. In questo momento storico sono i popoli dell'est e del terzo mondo che lavorano più duramente per creare un futuro per i propri figli. Il vuoto a rendere è uno scambio positivo, economico e ecosostenibile. Sotto vuoto il cibo si conserva. Per Aristotele il vuoto non esisteva "perché la natura aborre il vuoto".
Ecco come la parola vuoto ricorre nella recente letteratura, cinema e arte in generale
Letteratura: "Vuoto d'amore" di Alda Merini (1991). La raccolta di sei poesie dell'artista scomparsa di recente, altro non è che una protesta per lo stato di solitudibe e una richiesta di attenzione e di amore
Musica: Il vuoto di Franco Battiato (2007). Il paroliere siciliano canta: "Inseguo il nostro tempo vuoto di senso, senso di vuoto
E persone quante tante persone un mare di gente nel vuoto"
Cinema: Sguardo nel Vuoto (2007) è un film di Scott Frank, un trhiller sulla memoria, di come il cervello si ribelli al dolore dimenticando.
«Il Sole 24 Ore» del 7 ottobre 2010
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