Dopo la scomparsa di Edoardo Sanguineti e di Luciano Erba, poche voci hanno ancora la forza per imporsi nel dibattito civile
di Franco Cordelli
Poco prima di Luciano Erba, scomparso l’altro ieri, era morto a Genova Edoardo Sanguineti. Sembravano, tutti e due, immortali: Sanguineti per la sua vigoria intellettuale, indefessa, inarrendevole; Erba per il suo essersi fissato in una qualche effigie preistorica, antica moneta o antico animale, come quell’ippopotamo cui dedicò il titolo di un suo libro. L’anno scorso era scomparso un altro immortale, ben più giovane, Nico Orengo: Orengo era eterna giovinezza, leggerezza suprema: come può la leggerezza diventare all’improvviso pesante e la giovinezza, in un colpo solo, da se stessa abdicare? Questi grandi doni, vigoria, preistoria, volatilità, sono, guardando le opere da lontano e nel loro insieme, le eredità che ci lasciano i poeti. Con una punta di smarrimento, ci si chiede allora: quali altre eredità ci lascia la poesia? Cosa ne resta? È uno dei capitoli dolorosi della nostra storia letteraria recente. Vien fatto di dire: gli stessi giornali, noi che ci scriviamo, quando parliamo di poesia? Ne parliamo ancora? Ma non è colpa dei giornali, naturalmente. È tutto un sistema di riferimenti, di ipotesi, di figure che si sta sfaldando poco a poco. Che non tocca più l’immaginario della comunità. Un’apparizione mitologica come quella di Ungaretti in televisione, in prima serata, è ormai impensabile: e non tanto perché di Ungaretti ce n’è uno solo, ma proprio perché l’ultimo ad apparirvi, a offrire il proprio corpo, o la propria immagine, al pubblico, è stato Dario Bellezza: vent’anni fa. Lo fece in un modo in cui la dissacrazione di se stesso, ovvero del poeta, aveva già superato i limiti di una credibilità da incrementare o da restituire. Ed ecco, allora, che la stessa, robusta radice di una tradizione, quella editoriale, si va per prima disseccando. Tra i grandi editori, a pubblicare libri di poesia non ne restano che tre: Einaudi, Garzanti e Mondadori. (Negli ultimi tempi Guanda sembra più avaro di sé). Vi appaiono alcuni tra i poeti migliori: dei più accreditati resta qualche traccia. Ma dei più giovani chi più si accorge? A questi, ai più giovani, o ai meno giovani che da tempo non trovano collocazione, vengono in aiuto collane di piccoli editori: Passigli, Marcos y Marcos, Donzelli, Crocetti, Transeuropa, Scheiwiller, Le Lettere, Sossella: ma anche qui non sarà un caso che alcuni stiano per desistere, o abbiano già desistito. In quanto a loro, in quanto ai poeti, chi resta? O, per meglio dire, di chi la voce è ancora autorevole presso un pubblico non di soli poeti? Penso che a due estremi espressivi, come pilastri di tradizioni opposte, si collochino Andrea Zanzotto e Giovanni Giudici. Zanzotto è sempre l’incantato/disincantato scrutatore, fibrillante, di un paesaggio veneto e veneto-morale - messo sottosopra non solo dai suoi abitanti ma anche da un poeta che sa piegare, come nessun altro, la lingua alle nuove/antiche priorità. Giudici da molti anni non interviene sulla scena pubblica. Pure, ne avvertiamo la presenza. Ci sembra di captare i suoi pensieri in prosa, ma possiamo cogliere il momento in cui essi si rovesciano in poesia, in quell’ironica musica senza troppi suoni, senza sfarfallio, senza gioco di prestigio. La città resta il suo regno, con tutti i suoi intoppi, con tutti i suoi problemi di civile convivenza. Ma della Linea lombarda - cui Erba era stato ascritto con quel suo usare il silenzio come antitesi critica della noia (la noia come vizio) - non fa parte anche l’altrettanto laconico ma più candido Giorgio Orelli? E della tradizione dell’avanguardia, ovvero della neo-avanguardia, dei Novissimi, non è parte problematica, irruenta, controllatissima, virulenta, straziante Elio Pagliarani, il poeta de La ragazza Carla e di Lezione di fisica? Ci sono poi da ricordare, tra i nati negli anni Venti (come i narratori, anche i poeti nati in quel decennio sono la spina dorsale della letteratura del Novecento), almeno altri tre poeti, silenti, appartati, consapevoli della difficoltà di riscatto sia della poesia, sia della lingua con cui si esprimono. Mi riferisco ai milanesi Giampiero Neri e Nelo Risi: scabrosissimo, quasi di sé avaro, il primo; epigrammatico e dolcemente sferzante il secondo. E mi riferisco al bolognese Roberto Roversi, che per quanto appartato come tutti i poeti, è sempre in campo, non so se per continuare la lotta o, semplicemente, per resistere.
«Corriere della Sera» del 5 agosto 2010
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