Le scelte di Cameron, la via italiana
di Maurizio Ferrera
Nel mondo anglosassone è in corso un ambizioso esperimento politico volto a ridisegnare i confini fra pubblico e privato. Meno Stato, più società: questa è la formula che ha ispirato il programma di Obama e soprattutto quello di Cameron. Il leader britannico ha vinto le elezioni promettendo di delegare poteri e responsabilità dal centro alla periferia e dalla pubblica amministrazione ai corpi intermedi della società. Scuola, sanità, servizi sociali saranno il primo e più importante terreno di questa doppia devoluzione.
L’idea di creare una «Big Society» e limitare l’intervento dello Stato nella sfera sociale non è certo nuova e affonda anzi le sue radici in quell’esprit d’association già decantato da Tocqueville quasi due secoli fa. Le strategie di Obama e di Cameron costituiscono però un punto di rottura importante rispetto al conservatorismo reaganiano e thatcheriano. Ricordiamo che la Lady di ferro ripeteva spesso che «la società non esiste».
Concretamente, promuovere la «Big Society» significa dar respiro alle comunità locali, alle associazioni e ai movimenti di varia natura, alla filantropia, alle imprese senza fini di lucro. Significa incoraggiare risposte innovative ai bisogni, più in linea con le caratteristiche dei territori e capaci di mobilitarne capacità e risorse. E significa anche alleggerire (o quanto meno non appesantire ulteriormente) il bilancio pubblico, già in forte difficoltà.
Secondo l’Economist il progetto di Cameron è destinato a imporsi come riferimento obbligato per gli altri Paesi europei. Sia Sarkozy che la Merkel si sono già detti molto interessati e in un’intervista a questo giornale (Corriere, 30 agosto) anche il ministro Sacconi ha dichiarato di sentirsi in sintonia con il progetto della «Big Society», che in Italia dovrebbe realizzarsi attraverso federalismo e sussidiarietà.
Pur riconoscendo i meriti e le promesse del progetto, è bene tuttavia non lasciarsi prendere dall’entusiasmo. Per essere efficace, la delega di poteri e responsabilità alla società civile presuppone infatti tre condizioni che gli inglesi danno per scontate, ma che tali non sono in altri Paesi, soprattutto nel nostro. La prima condizione è la disponibilità di una cultura politica e di un capitale sociale caratterizzati da elevato «civismo»: diffuso rispetto delle regole, fiducia intersoggettiva, attivismo associativo e così via. La seconda condizione è la presenza di organizzazioni intermedie orientate alla risoluzione dei problemi collettivi e non solo interessate alla «cattura» di vantaggi corporativi. La terza condizione è la presenza di uno Stato efficiente e «capacitatore». La creazione di una società civile ben funzionante non dipende (solo) da scelte filosofico-antropologiche sulla natura delle persone e della società, ma da un’agenda puntuale di riforme istituzionali che deve essere elaborata e attuata dal governo. A soli tre mesi dal suo insediamento, Cameron sta per creare una «Big Society Bank» con una dotazione iniziale di 300 milioni di euro, al fine di «accendere la miccia» e incanalare l’associazionismo nelle giusta direzione.
Tracciare nuovi confini fra Stato e società è un compito urgente anche per il nostro Paese, soprattutto dopo la crisi. Ma abbiamo capacità e strumenti adatti per questo compito? Gli attori sociali sono davvero interessati? E, soprattutto, la politica è pronta a farsi indietro, limitandosi a regolare e «capacitare»? Senza risposte chiare e affermative a questi interrogativi, la «Big Society» è destinata in Italia a restare tema da convegno o semplice slogan comunicativo.
L’idea di creare una «Big Society» e limitare l’intervento dello Stato nella sfera sociale non è certo nuova e affonda anzi le sue radici in quell’esprit d’association già decantato da Tocqueville quasi due secoli fa. Le strategie di Obama e di Cameron costituiscono però un punto di rottura importante rispetto al conservatorismo reaganiano e thatcheriano. Ricordiamo che la Lady di ferro ripeteva spesso che «la società non esiste».
Concretamente, promuovere la «Big Society» significa dar respiro alle comunità locali, alle associazioni e ai movimenti di varia natura, alla filantropia, alle imprese senza fini di lucro. Significa incoraggiare risposte innovative ai bisogni, più in linea con le caratteristiche dei territori e capaci di mobilitarne capacità e risorse. E significa anche alleggerire (o quanto meno non appesantire ulteriormente) il bilancio pubblico, già in forte difficoltà.
Secondo l’Economist il progetto di Cameron è destinato a imporsi come riferimento obbligato per gli altri Paesi europei. Sia Sarkozy che la Merkel si sono già detti molto interessati e in un’intervista a questo giornale (Corriere, 30 agosto) anche il ministro Sacconi ha dichiarato di sentirsi in sintonia con il progetto della «Big Society», che in Italia dovrebbe realizzarsi attraverso federalismo e sussidiarietà.
Pur riconoscendo i meriti e le promesse del progetto, è bene tuttavia non lasciarsi prendere dall’entusiasmo. Per essere efficace, la delega di poteri e responsabilità alla società civile presuppone infatti tre condizioni che gli inglesi danno per scontate, ma che tali non sono in altri Paesi, soprattutto nel nostro. La prima condizione è la disponibilità di una cultura politica e di un capitale sociale caratterizzati da elevato «civismo»: diffuso rispetto delle regole, fiducia intersoggettiva, attivismo associativo e così via. La seconda condizione è la presenza di organizzazioni intermedie orientate alla risoluzione dei problemi collettivi e non solo interessate alla «cattura» di vantaggi corporativi. La terza condizione è la presenza di uno Stato efficiente e «capacitatore». La creazione di una società civile ben funzionante non dipende (solo) da scelte filosofico-antropologiche sulla natura delle persone e della società, ma da un’agenda puntuale di riforme istituzionali che deve essere elaborata e attuata dal governo. A soli tre mesi dal suo insediamento, Cameron sta per creare una «Big Society Bank» con una dotazione iniziale di 300 milioni di euro, al fine di «accendere la miccia» e incanalare l’associazionismo nelle giusta direzione.
Tracciare nuovi confini fra Stato e società è un compito urgente anche per il nostro Paese, soprattutto dopo la crisi. Ma abbiamo capacità e strumenti adatti per questo compito? Gli attori sociali sono davvero interessati? E, soprattutto, la politica è pronta a farsi indietro, limitandosi a regolare e «capacitare»? Senza risposte chiare e affermative a questi interrogativi, la «Big Society» è destinata in Italia a restare tema da convegno o semplice slogan comunicativo.
«Corriere della Sera» del 3 settembre 2010
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