Cuba e America Latina
di Mario Vargas Llosa
Ho provato una sensazione di rabbia e disgusto, quando ho visto il ridente presidente Lula del Brasile abbracciare affettuosamente Fidel e Raúl Castro, nello stesso istante in cui gli sbirri della dittatura cubana si avventavano contro i dissidenti e li seppellivano in cella per impedirgli di assistere alla cerimonia funebre di Orlando Zapata Tamayo, il muratore pacifista oppositore di 42 anni, appartenente al Gruppo dei 75, che la satrapia castrista ha lasciato morire dopo 85 giorni di sciopero della fame. Chiunque non abbia perso la decenza e abbia un minimo di informazione su ciò che accade a Cuba, si aspetta dal regime castrista che si comporti esattamente come ha fatto. C’è una coerenza assoluta tra la condizione di dittatura totalitaria di Cuba e una politica terrorista di persecuzione contro ogni forma di dissidenza e di critica, la violazione sistematica dei più elementari diritti umani, processi falsati per sotterrare gli oppositori in carceri immonde e sottoporli a vessazioni fino a farli impazzire, a ucciderli o spingerli al suicidio. I fratelli Castro praticano questa politica da 51 anni. Ma da Luiz Inacio Lula da Silva, governante eletto con legittime elezioni, presidente costituzionale di un Paese democratico come il Brasile, ci si aspetterebbe, perlomeno, un atteggiamento un po’più degno e coerente con la cultura democratica che in teoria rappresenta. Invece si pavoneggia, tra sorrisi e complicità, con gli assassini virtuali di un dissidente democratico, legittimando con la sua presenza e condotta la caccia agli oppositori scatenata dal regime, nello stesso momento in cui si faceva fotografare abbracciando i giustizieri di Orlando Zapata Tamayo. Il presidente Lula sapeva perfettamente ciò che faceva. Prima che partisse per Cuba, cinquanta dissidenti cubani gli avevano chiesto un’udienza durante il suo soggiorno all’Avana, e di intercedere con le autorità dell’isola per la liberazione dei prigionieri politici martoriati come Zapata nelle gattabuie cubane. Lui si è negato ad entrambe le cose. D’altra parte, questo comportamento del presidente brasiliano ha caratterizzato tutto il suo mandato. È da anni che la sua politica estera smentisce sistematicamente la politica interna, dove rispetta le regole dello Stato di diritto e, in economia, invece delle ricette marxiste che proponeva quando era sindacalista e candidato - dirigismo economico, nazionalizzazioni, rifiuto degli investimenti stranieri, eccetera -, promuove un’economia di mercato e di libera impresa come qualsiasi statista socialdemocratico europeo. Ma quando si tratta delle relazioni estere, il presidente Lula si spoglia degli orpelli democratici e abbraccia il comandante Chávez, Evo Morales, il comandante Ortega, ossia il peggio dell’America Latina, e senza il minimo scrupolo apre le porte diplomatiche ed economiche del Brasile alla tirannia teocratica dell’Iran. Tutto questo significa, ahimè, che Lula è un tipico presidente «democratico» latinoamericano. Quasi tutti sono fatti della stessa pasta e quasi tutti, chi più chi meno, pur praticando la democrazia in casa propria - quando non hanno altra scelta -, all’estero corteggiano senza pudore dittatori e demagoghi come Chávez o Castro, perché credono, poveretti, che grazie a quella vicinanza potranno godere del titolo di «progressisti» e che questo li redimerà da scioperi, rivoluzioni e intimidazioni contro i giornalisti, e dalle campagne internazionali che li accusano di violare i diritti umani. Il volto di uno qualunque dei presidenti latinoamericani avrebbe potuto sostituire quello di Luiz Inacio Lula da Silva mentre abbracciava i fratelli Castro, nella foto che mi ha fatto rivoltare lo stomaco mentre leggevo i giornali. Quei volti non rappresentano la libertà e la pulizia morale in America Latina. Questi valori sono incarnati da figure come Orlando Zapata Tamayo, le Dame in bianco, Oswaldo Payá, Elizardo Sánchez, la blogger Yoani Sánchez e gli altri cubani e cubane che continuano a sfidare la tirannide castrista. E sono incarnati anche dalle centinaia di prigionieri politici e, in particolare, dal giornalista indipendente Guillermo Fariñas il quale, mentre scrivo questo articolo, è già da otto giorni in sciopero della fame a Cuba, per protestare contro la morte di Zapata e chiedere la liberazione dei prigionieri politici. Curioso e terribile paradosso: che sia in seno ad uno dei regimi più disumani e crudeli mai conosciuti dal continente che oggi si trovano i più degni politici dell’America Latina.
(traduzione di Francesca Buffo) © El País
«Corriere della Sera» dell'8 marzo 2010
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