Il dibattito sulla nuova narrativa
di Giulio Ferroni
Discutendo dell’affollata generazione dei narratori under quaranta, Franco Cordelli e Alfonso Berardinelli sul «Corriere della Sera» hanno messo l’accento, pur se in modo diverso, sulla costipazione dei numeri, sulla plateale impossibilità, per la critica, di fare davvero il punto della situazione, di «leggere tutto» per dare giudizi motivati, per stilare classifiche e definire canoni. Di fronte alla loro riflessione certe indicazioni critiche (come quelle della recente inchiesta del «Sole 24 ore») appaiono inevitabilmente inaffidabili, sorte da incontri, rapporti, occasioni di lettura, e non certo da una adeguata (e impossibile) cognizione dell’intero panorama. Ed è vero che l’elefantiasi della produzione uccide la critica, la condanna all’«angoscia della quantità» (formula semplice e in fondo banale, che mi è capitato di proporre già in un libro del 1996, Dopo la fine, ora ripubblicato da Donzelli).
La cosa però non riguarda solo la narrativa e la critica che dovrebbe occuparsene, ma l’intero sistema della cultura e della comunicazione, l’accumulo sterminato di messaggi entro cui siamo presi: tutti pretenderebbero di catturare la nostra attenzione, ma finiscono per perdersi nell’evanescenza e nella velocità dei media che li veicolano, nella frenesia inarrestabile della nostra vita quotidiana. Viene il capogiro se si pensa a tutto ciò che è scritto e detto in questo momento nel mondo, a tutti gli archivi di memoria che attendono di essere interrogati, a tutta la virtualità che attende di essere attualizzata, a tutte le forme di comunicazione che percorrono le reti molteplici dell’universo e che sollecitano uno zapping illimitato.
Le difficoltà in cui sono prese quasi tutte le attività intellettuali trovano qui una delle loro ragioni. Ma non si tratta di cedere all’angoscia, né di ignorarla per tentare l’impossibile, né di rinunciare alla critica e al giudizio: piuttosto c’è bisogno di una critica (e di una teoria della comunicazione) che sappia confrontarsi con questa costipazione, che ne scavi fino in fondo le ragioni e le condizioni. Insomma si tratta di comprendere fino in fondo (pochi ci aiutano a farlo) la novità rappresentata dall’eccesso in cui siamo presi: eccesso che vanifica l’esperienza, che rischia di rendere vano lo stesso processo della lettura. Solo nella piena coscienza di questa nuova condizione si potrà avere il coraggio di discriminare, di cercare testardamente l’emergere di parole e scritture davvero essenziali.
Per la letteratura e per la narrativa non è certo questione di generazioni: chiediamoci piuttosto come sottrarre i libri alla condizione di meri oggetti di consumo, come condurre battaglie per lo «stile» (che non significa «bello stile»), per un linguaggio della responsabilità, capace di interrogare il nostro destino (un destino che è anche inscritto nel nostro passato, in una tradizione dell’antico e del moderno che oggi è troppo spesso disinvoltamente dimenticata). Esiste oggi una critica capace di farlo? Non succede che i giudizi correnti (e gli stessi canoni proposti) siano basati su schemi e modalità di gusto e di lettura spesso degnissimi, ma che non tengono più?
La cosa però non riguarda solo la narrativa e la critica che dovrebbe occuparsene, ma l’intero sistema della cultura e della comunicazione, l’accumulo sterminato di messaggi entro cui siamo presi: tutti pretenderebbero di catturare la nostra attenzione, ma finiscono per perdersi nell’evanescenza e nella velocità dei media che li veicolano, nella frenesia inarrestabile della nostra vita quotidiana. Viene il capogiro se si pensa a tutto ciò che è scritto e detto in questo momento nel mondo, a tutti gli archivi di memoria che attendono di essere interrogati, a tutta la virtualità che attende di essere attualizzata, a tutte le forme di comunicazione che percorrono le reti molteplici dell’universo e che sollecitano uno zapping illimitato.
Le difficoltà in cui sono prese quasi tutte le attività intellettuali trovano qui una delle loro ragioni. Ma non si tratta di cedere all’angoscia, né di ignorarla per tentare l’impossibile, né di rinunciare alla critica e al giudizio: piuttosto c’è bisogno di una critica (e di una teoria della comunicazione) che sappia confrontarsi con questa costipazione, che ne scavi fino in fondo le ragioni e le condizioni. Insomma si tratta di comprendere fino in fondo (pochi ci aiutano a farlo) la novità rappresentata dall’eccesso in cui siamo presi: eccesso che vanifica l’esperienza, che rischia di rendere vano lo stesso processo della lettura. Solo nella piena coscienza di questa nuova condizione si potrà avere il coraggio di discriminare, di cercare testardamente l’emergere di parole e scritture davvero essenziali.
Per la letteratura e per la narrativa non è certo questione di generazioni: chiediamoci piuttosto come sottrarre i libri alla condizione di meri oggetti di consumo, come condurre battaglie per lo «stile» (che non significa «bello stile»), per un linguaggio della responsabilità, capace di interrogare il nostro destino (un destino che è anche inscritto nel nostro passato, in una tradizione dell’antico e del moderno che oggi è troppo spesso disinvoltamente dimenticata). Esiste oggi una critica capace di farlo? Non succede che i giudizi correnti (e gli stessi canoni proposti) siano basati su schemi e modalità di gusto e di lettura spesso degnissimi, ma che non tengono più?
«Corriere della Sera» del 19 agosto 2010
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