Urge autoriforma
di Piero Vietti
Un team di accademici chiede all’Ipcc meno dogmatismo e più voci libere
Nel giorno in cui il famoso scienziato e “ambientalista scettico” Bjørn Lomborg stupiva seguaci e critici con un imprevedibile testacoda dicendo al Guardian che servono “cento miliardi di dollari l’anno per combattere il global warming”, un importante gruppo di inchiesta composto da scienziati di tutto il mondo, l’InterAcademy Council criticava duramente i metodi di lavoro dell’Ipcc, il panel di esperti che per conto dell’Onu studia l’impatto delle attività umane sul clima. Questo non fa che dimostrare ancora una volta ciò che il Foglio (e con lui voci più autorevoli) va ripetendo da tempo: la scienza che studia il clima è quanto di più vago ci possa essere, il dogmatismo scientista non porta da nessuna parte e il pensiero unico ambientalista – in fondo contro l’uomo – che ha riempito le pagine dei giornali negli ultimi anni provoca più danni che vantaggi.
Nel suo documento di 113 pagine l’Iac chiede che l’Ipcc venga riformato per ridurre la presenza di errori e pregiudizi che possono falsare i report. Non bisogna avere paura della verità, anche quando questa veste le tinte fosche dell’incertezza: quando nel 2007 l’Ipcc vinse il Nobel per la Pace assieme ad Al Gore ci dissero che la climatologia era “settled”, che non c’erano più dubbi sull’impatto disastroso che le attività umane hanno sul clima. Poi, passando per il fallimento dei negoziati di Copenaghen e lo scandalo del climategate, è arrivata questa autorevole critica che chiede anche di rinforzare certe procedure e di assicurarsi che i report riflettano le “controversie genuine” tra scienziati del clima. Secondo l’Iac, l’Ipcc dovrebbe insediare un comitato esecutivo che includa anche persone esterne alla comunità dei climatologi e limitare la durata della carica del suo presidente a un termine più breve. “L’attuale durata di dodici anni è troppo lunga”, dice l’Iac.
Il documento ha avuto eco soprattutto in America e Inghilterra, dove il climategate ha segnato di più l’opinione pubblica: il Wall Street Journal ieri sottolineava soprattutto l’abbandono del dogmatismo, spiegando come per il gruppo di esperti che ha lavorato al documento si debba “evidenziare meglio l’incertezza su alcuni aspetti della climatologia”. Ciò che più ha inficiato il lavoro del panel onusiano è stata la politicizzazione delle conclusioni a cui le ricerche sono giunte: pur di influenzare le politiche degli stati e dimostrare che la propria ipotesi era corretta, l’Ipcc si è anche affidato a fonti scadenti o di parte (come quando ha usato un documento del Wwf per predire lo scioglimento dell’Himalaya). L’Iac chiede la fine di tutto questo (riconoscendo che il lavoro fatto è stato “tutto sommato buono”), chiede maggiore controllo delle fonti e di lasciare spazio a “visioni alternative”. E’ palese che la scienza sarebbe la prima a guadagnarci da questa riforma. Al momento però l’Ipcc minimizza (“non è successo niente”, è il commento semiufficiale sul blog Real Climate) e il presidente Rajendra Pachauri ha fatto sapere che fino al 2014 non si muoverà.
Nel suo documento di 113 pagine l’Iac chiede che l’Ipcc venga riformato per ridurre la presenza di errori e pregiudizi che possono falsare i report. Non bisogna avere paura della verità, anche quando questa veste le tinte fosche dell’incertezza: quando nel 2007 l’Ipcc vinse il Nobel per la Pace assieme ad Al Gore ci dissero che la climatologia era “settled”, che non c’erano più dubbi sull’impatto disastroso che le attività umane hanno sul clima. Poi, passando per il fallimento dei negoziati di Copenaghen e lo scandalo del climategate, è arrivata questa autorevole critica che chiede anche di rinforzare certe procedure e di assicurarsi che i report riflettano le “controversie genuine” tra scienziati del clima. Secondo l’Iac, l’Ipcc dovrebbe insediare un comitato esecutivo che includa anche persone esterne alla comunità dei climatologi e limitare la durata della carica del suo presidente a un termine più breve. “L’attuale durata di dodici anni è troppo lunga”, dice l’Iac.
Il documento ha avuto eco soprattutto in America e Inghilterra, dove il climategate ha segnato di più l’opinione pubblica: il Wall Street Journal ieri sottolineava soprattutto l’abbandono del dogmatismo, spiegando come per il gruppo di esperti che ha lavorato al documento si debba “evidenziare meglio l’incertezza su alcuni aspetti della climatologia”. Ciò che più ha inficiato il lavoro del panel onusiano è stata la politicizzazione delle conclusioni a cui le ricerche sono giunte: pur di influenzare le politiche degli stati e dimostrare che la propria ipotesi era corretta, l’Ipcc si è anche affidato a fonti scadenti o di parte (come quando ha usato un documento del Wwf per predire lo scioglimento dell’Himalaya). L’Iac chiede la fine di tutto questo (riconoscendo che il lavoro fatto è stato “tutto sommato buono”), chiede maggiore controllo delle fonti e di lasciare spazio a “visioni alternative”. E’ palese che la scienza sarebbe la prima a guadagnarci da questa riforma. Al momento però l’Ipcc minimizza (“non è successo niente”, è il commento semiufficiale sul blog Real Climate) e il presidente Rajendra Pachauri ha fatto sapere che fino al 2014 non si muoverà.
«Il Foglio» del 1 settembre 2010
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