In Spagna lezioni aggiuntive per i ragazzi più dotati. Polemiche a sinistra proprio come succederebbe in Italia: da noi l’istruzione è troppo egualitaria
di Stefano Zecchi
Il governo spagnolo ha deciso che le scuole pubbliche abbiano corsi di sostegno non solo per gli studenti che devono colmare delle lacune, ma anche per coloro che raggiungono un ottimo profitto. Dunque, corsi di perfezionamento in grado di alzare la già lodevole preparazione di ragazzi che hanno volontà e capacità di studio. Negli Stati Uniti questo genere di attività integrative sono all’ordine del giorno, talvolta presentate con un’enfasi che alla nostra tradizione europea appare eccessiva: corsi per geni, per giovani che possiedono un quoziente intellettivo particolarmente alto.
In Spagna, l’iniziativa promossa da un governo socialista è stata accolta con molte critiche dalla sinistra intellettuale. Se un’analoga decisione venisse presa dal ministro Gelmini, è facile immaginare quale valanga di critiche si tirerebbe addosso. Eppure, quella spagnola è la scelta di un percorso formativo d’importanza epocale, in grado di mettere una pietra tombale sull’idea, sulla mentalità, sulla visione culturale che hanno guidato per mezzo secolo la scuola e che in Italia, rispetto agli altri paesi europei, trovano ancora le radici più solide.
Se si vuole fare un paragone per rendere la questione più chiara, si può ricordare un passaggio del ragionamento di Marchionne svolto recentemente, con cui è stata sottolineata l’arretratezza di un pensiero che si ostina a contrapporre il padrone ai lavoratori, il capitalismo alla classe operaia. Da decenni, la nostra scuola, controllata capillarmente dal sindacato, ha creato lo studente-massa e l’insegnante-massa come figure politiche che avrebbero dovuto rappresentare l’avanguardia di un modello sociale e culturale essenzialmente egualitarista. Un’idea arcaica della scuola, che non tiene conto della competizione globale, della necessità della preparazione dei giovani in grado di reggere il confronto internazionale.
Il progetto spagnolo, senza troppi giri di frasi, si riassume in due parole: ricostruire le élite. Il superamento delle élite è stato un principio che ha guidato lo sviluppo della nostra scuola, così come la contrapposizione tra capitale e lavoro ha orientato l’azione sindacale. Si pensi all’introduzione della scuola media unica e alla cancellazione di istituti come l’«Avviamento», al termine del quale il giovane poteva scegliere una scuola professionalizzante che introduceva al lavoro. Si pensi all’abolizione dell’obbligo della maturità liceale per accedere all’università, e alla precisa relazione che esisteva tra il tipo di liceo frequentato e la facoltà da scegliere: per esempio, solo chi aveva fatto il liceo classico poteva iscriversi a Giurisprudenza o a Lettere e Filosofia.
Con grande sistematicità, in questo mezzo secolo si è costruita una scuola nemica dell’elitarismo, favorevole a una massificazione dell’istruzione che di giusto ha il compito di scolarizzare un numero sempre maggiore di giovani, che di sbagliato ha il disinteresse per la costruzione e il sostegno delle eccellenze. Per questo motivo la decisione del governo spagnolo ha qualcosa di epocale. Per di più proviene dall’area socialista a testimonianza che soltanto un’ottusa cultura di sinistra può contestare l’importanza di creare nella scuola zone di eccellenza per preparare i giovani europei alle sfide della globalizzazione.
Se si riuscisse a sconfiggere una buona volta la visione egualitarista che domina nelle nostre scuole, ci troveremmo due problemi da affrontare, ma intanto non si creda che quest’idea arcaica di un’istruzione che livella verso il basso sparisca facilmente. Lo testimonia la critica violenta di certa intellettualità della sinistra spagnola. Ma, con un po’ di ottimismo si può anche pensare che se è crollato il muro di Berlino, crollerà anche la scuola egualitarista. Allora ci saranno, come dicevo, due problemi da affrontare.
Il primo chiede di non confondere l’elitarismo delle intelligenze con l’elitarismo del denaro. Se soltanto i ricchi possono accedere a una formazione d’eccellenza è chiaro che non si costruiscono élite culturali ma privilegi sociali. Quindi ci dovrà essere un forte sostegno finanziario ai meritevoli più deboli economicamente, amministrato con molta attenzione in modo che l’aiuto non vada a quei ragazzi poveri che sono tali solo perché i genitori sono evasori fiscali (oggi accade spessissimo quando si esentano gli studenti dal pagamento delle tasse scolastiche).
Il secondo problema riguarda gli insegnanti: una scuola che ha corsi d’eccellenza deve avere professori all’altezza del compito. Quindi, selezionare i docenti con rigore: basta con i salvataggi sindacali e le leggine pensate non per premiare gli insegnanti preparati ma per stabilizzare semplicemente i precari.
In Spagna, l’iniziativa promossa da un governo socialista è stata accolta con molte critiche dalla sinistra intellettuale. Se un’analoga decisione venisse presa dal ministro Gelmini, è facile immaginare quale valanga di critiche si tirerebbe addosso. Eppure, quella spagnola è la scelta di un percorso formativo d’importanza epocale, in grado di mettere una pietra tombale sull’idea, sulla mentalità, sulla visione culturale che hanno guidato per mezzo secolo la scuola e che in Italia, rispetto agli altri paesi europei, trovano ancora le radici più solide.
Se si vuole fare un paragone per rendere la questione più chiara, si può ricordare un passaggio del ragionamento di Marchionne svolto recentemente, con cui è stata sottolineata l’arretratezza di un pensiero che si ostina a contrapporre il padrone ai lavoratori, il capitalismo alla classe operaia. Da decenni, la nostra scuola, controllata capillarmente dal sindacato, ha creato lo studente-massa e l’insegnante-massa come figure politiche che avrebbero dovuto rappresentare l’avanguardia di un modello sociale e culturale essenzialmente egualitarista. Un’idea arcaica della scuola, che non tiene conto della competizione globale, della necessità della preparazione dei giovani in grado di reggere il confronto internazionale.
Il progetto spagnolo, senza troppi giri di frasi, si riassume in due parole: ricostruire le élite. Il superamento delle élite è stato un principio che ha guidato lo sviluppo della nostra scuola, così come la contrapposizione tra capitale e lavoro ha orientato l’azione sindacale. Si pensi all’introduzione della scuola media unica e alla cancellazione di istituti come l’«Avviamento», al termine del quale il giovane poteva scegliere una scuola professionalizzante che introduceva al lavoro. Si pensi all’abolizione dell’obbligo della maturità liceale per accedere all’università, e alla precisa relazione che esisteva tra il tipo di liceo frequentato e la facoltà da scegliere: per esempio, solo chi aveva fatto il liceo classico poteva iscriversi a Giurisprudenza o a Lettere e Filosofia.
Con grande sistematicità, in questo mezzo secolo si è costruita una scuola nemica dell’elitarismo, favorevole a una massificazione dell’istruzione che di giusto ha il compito di scolarizzare un numero sempre maggiore di giovani, che di sbagliato ha il disinteresse per la costruzione e il sostegno delle eccellenze. Per questo motivo la decisione del governo spagnolo ha qualcosa di epocale. Per di più proviene dall’area socialista a testimonianza che soltanto un’ottusa cultura di sinistra può contestare l’importanza di creare nella scuola zone di eccellenza per preparare i giovani europei alle sfide della globalizzazione.
Se si riuscisse a sconfiggere una buona volta la visione egualitarista che domina nelle nostre scuole, ci troveremmo due problemi da affrontare, ma intanto non si creda che quest’idea arcaica di un’istruzione che livella verso il basso sparisca facilmente. Lo testimonia la critica violenta di certa intellettualità della sinistra spagnola. Ma, con un po’ di ottimismo si può anche pensare che se è crollato il muro di Berlino, crollerà anche la scuola egualitarista. Allora ci saranno, come dicevo, due problemi da affrontare.
Il primo chiede di non confondere l’elitarismo delle intelligenze con l’elitarismo del denaro. Se soltanto i ricchi possono accedere a una formazione d’eccellenza è chiaro che non si costruiscono élite culturali ma privilegi sociali. Quindi ci dovrà essere un forte sostegno finanziario ai meritevoli più deboli economicamente, amministrato con molta attenzione in modo che l’aiuto non vada a quei ragazzi poveri che sono tali solo perché i genitori sono evasori fiscali (oggi accade spessissimo quando si esentano gli studenti dal pagamento delle tasse scolastiche).
Il secondo problema riguarda gli insegnanti: una scuola che ha corsi d’eccellenza deve avere professori all’altezza del compito. Quindi, selezionare i docenti con rigore: basta con i salvataggi sindacali e le leggine pensate non per premiare gli insegnanti preparati ma per stabilizzare semplicemente i precari.
«Il Giornale» del 1 settembre 2010
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