C'è chi propone “cambiamenti climatici”, ma l’errore rimane
di Nicoletta Tiliacos
Come le sartine di un tempo, che suggerivano di tagliare le maniche o allungare un orlo per aggiornare un abito démodé, così pare che qualcuno stia seriamente ragionando sull’opportunità di abbandonare definitivamente lo screditato concetto di “riscaldamento globale” in favore del più neutrale e già molto usato “cambiamenti climatici”. La nuova definizione ufficiale dovrebbe comunque salvare faccia e sostanza, entrambe piuttosto malridotte, di quelle profezie ecocatastrofiste che nella produzione di anidride carbonica connessa alle attività umane indicano la causa principale delle modificazioni del clima, e segnatamente dell’innalzamento delle temperature planetarie.
Ne ha parlato il quotidiano inglese Guardian, due giorni fa, prendendo spunto dal trentacinquesimo compleanno della definizione “riscaldamento globale”. Usata pubblicamente per la prima volta l’8 agosto del 1975, in un saggio sulla rivista americana Science, da un climatologo della Columbia University, Wallace Broecker. Il quale si chiedeva: “Siamo alla vigilia di un importante riscaldamento climatico?”. E prevedeva che “le tendenze attuali, piuttosto fresche, sfoceranno, nell’arco di una decina d’anni, in un riscaldamento consistente provocato dall’anidride carbonica”. Col senno di poi, sappiamo che l’influenza dell’anidride carbonica prodotta dall’uomo sul clima non è stata mai dimostrata (così come l’innalzamento inarrestabile delle temperature è stato smentito dai dati degli ultimi dieci anni). Ma la definizione coniata da Broecker ha avuto una gran fortuna, soprattutto negli Stati Uniti, mentre l’Inghilterra, notava il Guardian, ha sempre preferito la dizione “cambiamenti climatici”.
Lo scorso anno, però, è fragorosamente emersa l’attività di manipolazione dei dati sul clima operata da alcune delle istituzioni incaricate della loro elaborazione, proprio al fine di accreditare l’influenza delle attività umane sull’innalzamento delle temperature globali. Come il Foglio ha raccontato per primo, un gruppo di hacker ha reso pubblico un carteggio via e-mail tra i climatologi dell’East Anglia University, dal quale emergeva la cosciente volontà di occultare i dati che parlavano di diminuzione delle temperature (“to hide the decline”, era la parola d’ordine) e di gonfiare in parallelo quelli favorevoli alla tesi del riscaldamento globale, in vista del vertice di Copenaghen. A seguire, c’è stata la figuraccia davvero globale dell’Intergovernmental panel on climate change dell’Onu, con le sue indimostrate quanto strombazzate tesi del IV rapporto. Tra le altre: l’immancabile scioglimento dei ghiacciai himalayani entro il 2035, l’innalzamento del mare in Olanda e le previsioni apocalittiche sulle temperature in Cina.
Svarioni che hanno comportato la pubblica censura e il parziale commissariamento del potente presidente dell’Ipcc, l’indiano Rajendra K. Pachauri. Nessuno ha pensato a chiedere indietro all’agenzia onusiana il premio Nobel vinto con Al Gore proprio in nome dell’impegno contro il “global warming”, ma non c’è da stupirsi se quel termine – ormai associato a un’idea piuttosto truffaldina di uso dei dati e della loro comunicazione all’opinione pubblica – è considerato un boomerang proprio da chi vuole salvarne la sostanza. Cambiare il nome della cosa per non cambiare la cosa, insomma, vale a dire l’idea che le attività umane influenzano il clima e le temperature del pianeta. E magari dimenticare quello che alcuni scienziati vanno sostenendo in controtendenza. Come l’americana Susan Solomon, climatologa del Noaa (National oceanic and atmospheric administration) che da tempo, in sedi autorevoli, denuncia la generalizzata sottovalutazione del ruolo del vapore acqueo nella stratosfera. E’ alla sua maggiore concentrazione (del tutto indipendente dall’attività umana) che si deve, ha scritto Solomon, l’impennata delle temperature negli anni Novanta, mentre dal 2000 la tendenza si è invertita e le temperature si sono stabilizzate, in barba al “global warming”. O al “climatic change”, che dir si voglia.
Ne ha parlato il quotidiano inglese Guardian, due giorni fa, prendendo spunto dal trentacinquesimo compleanno della definizione “riscaldamento globale”. Usata pubblicamente per la prima volta l’8 agosto del 1975, in un saggio sulla rivista americana Science, da un climatologo della Columbia University, Wallace Broecker. Il quale si chiedeva: “Siamo alla vigilia di un importante riscaldamento climatico?”. E prevedeva che “le tendenze attuali, piuttosto fresche, sfoceranno, nell’arco di una decina d’anni, in un riscaldamento consistente provocato dall’anidride carbonica”. Col senno di poi, sappiamo che l’influenza dell’anidride carbonica prodotta dall’uomo sul clima non è stata mai dimostrata (così come l’innalzamento inarrestabile delle temperature è stato smentito dai dati degli ultimi dieci anni). Ma la definizione coniata da Broecker ha avuto una gran fortuna, soprattutto negli Stati Uniti, mentre l’Inghilterra, notava il Guardian, ha sempre preferito la dizione “cambiamenti climatici”.
Lo scorso anno, però, è fragorosamente emersa l’attività di manipolazione dei dati sul clima operata da alcune delle istituzioni incaricate della loro elaborazione, proprio al fine di accreditare l’influenza delle attività umane sull’innalzamento delle temperature globali. Come il Foglio ha raccontato per primo, un gruppo di hacker ha reso pubblico un carteggio via e-mail tra i climatologi dell’East Anglia University, dal quale emergeva la cosciente volontà di occultare i dati che parlavano di diminuzione delle temperature (“to hide the decline”, era la parola d’ordine) e di gonfiare in parallelo quelli favorevoli alla tesi del riscaldamento globale, in vista del vertice di Copenaghen. A seguire, c’è stata la figuraccia davvero globale dell’Intergovernmental panel on climate change dell’Onu, con le sue indimostrate quanto strombazzate tesi del IV rapporto. Tra le altre: l’immancabile scioglimento dei ghiacciai himalayani entro il 2035, l’innalzamento del mare in Olanda e le previsioni apocalittiche sulle temperature in Cina.
Svarioni che hanno comportato la pubblica censura e il parziale commissariamento del potente presidente dell’Ipcc, l’indiano Rajendra K. Pachauri. Nessuno ha pensato a chiedere indietro all’agenzia onusiana il premio Nobel vinto con Al Gore proprio in nome dell’impegno contro il “global warming”, ma non c’è da stupirsi se quel termine – ormai associato a un’idea piuttosto truffaldina di uso dei dati e della loro comunicazione all’opinione pubblica – è considerato un boomerang proprio da chi vuole salvarne la sostanza. Cambiare il nome della cosa per non cambiare la cosa, insomma, vale a dire l’idea che le attività umane influenzano il clima e le temperature del pianeta. E magari dimenticare quello che alcuni scienziati vanno sostenendo in controtendenza. Come l’americana Susan Solomon, climatologa del Noaa (National oceanic and atmospheric administration) che da tempo, in sedi autorevoli, denuncia la generalizzata sottovalutazione del ruolo del vapore acqueo nella stratosfera. E’ alla sua maggiore concentrazione (del tutto indipendente dall’attività umana) che si deve, ha scritto Solomon, l’impennata delle temperature negli anni Novanta, mentre dal 2000 la tendenza si è invertita e le temperature si sono stabilizzate, in barba al “global warming”. O al “climatic change”, che dir si voglia.
«Il Foglio» del 9 agosto 2010
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