Il «proselitismo» del colonnello
di Marco Tarquinio
Amiamo l’idea di un Mediterraneo «mare comune» dei popoli che gli vivono attorno, specchio di culture e di economie amiche e in serena collaborazione, metaforica e concreta via di comunicazione anche tra le religioni dopo essere stato per secoli tramite di ostilità, di terrori e di reciproche invasioni militari. Abbiamo perciò accolto come una buonissima notizia, due anni fa, la «riconciliazione» tra Italia e Libia dopo un lunghissimo e aspro contenzioso, frutto della politica coloniale italiana e dei suoi misfatti – per molto tempo taciuti – contro le popolazioni libiche e delle dolorose ingiustizie subìte – e in troppo breve tempo dimenticate – dagli italiani spogliati di tutto e cacciati dalle loro case in terra libica.
Viva la nuova stagione e il conseguente fiorire – tra gran sfoggio di amicizia e qualche tenace sospetto – di intese e di commerci tra Roma e Tripoli. Viva anche la chiusura di certe rotte marine della sofferenza e della morte per migranti d’Africa e dei cinici traffici dei nuovi mercanti di esseri umani, sebbene inevitabile e dolente il pensiero corra ai "respinti e basta", agli uomini e alle donne e ai bambini in fuga dalle guerre e dalla persecuzione che si arenano nei deserti di Libia e nessuno riconosce e nessuno accoglie secondo umanità e secondo le leggi che le nazioni civili si sono date.
Ma incontrarsi serve comunque. Serve sempre. E la solenne visita che il colonnello Gheddafi sta effettuando per la seconda volta nella capitale italiana è ovviamente un’occasione d’incontro e di reciproca conoscenza. Sperabilmente di crescita, di chi più ha da crescere, nella comprensione del valore della democrazia e dei diritti umani. Un avvenimento con aspetti sostanziali e circostanze, per così dire, volutamente folkloristiche. Ma anche con momenti incresciosi e urtanti. Come l’incontro per una sessione di propaganda islamica (a sfondo addirittura europeo) tra il leader libico e hostess appositamente reclutate. Messa in scena organizzata, quasi di soppiatto, un anno fa e questa volta lanciata, invece, come spettacolare prologo agli incontri più strettamente politici con le autorità italiane.
Viene da chiedersi – e tanti, in effetti, se lo sono chiesti – a quale leader d’un Paese di tradizione e maggioranza cristiana sarebbe stato concesso di predicare e battezzare in un Paese di tradizione e maggioranza islamica. Anche se è una domanda insensata. Prima di tutto, perché ai politici cristiani mai verrebbe in mente di farlo e, subito dopo, perché neanche a preti e missionari cristiani viene consentito di farlo mentre ai cristiani semplici (che siano lì per lavori servili o per affari o per prestazioni professionali qualificate) è addirittura interdetto – tranne che in poche eccezioni – di proclamarsi tali a parole e segni.
Nella tollerante e pluralista Italia, in questo nostro Paese di profonde e vive radici cristiane e capace di una positiva laicità, nella Roma cattolica, Gheddafi ha potuto invece fare deliberato spettacolo di «proselitismo» (anche grazie a un tg pubblico incredibilmente servizievole e disposto a far spiegare alle otto di sera della domenica che il colonnello ha esercitato il «dovere» di «ogni musulmano: convertire» gli altri). Non sapremmo dire in quanti altri Paesi tutto questo avrebbe avuto luogo o, in ogni caso, avrebbe avuto spropositata (e stolida) eco.
Probabilmente è stato un boomerang, una dimostrazione di quanto possano confondersi persino in certo islam giudicato non (più) estremista piano politico e piano religioso. Certamente è stata una lezione. Magari pure per i suonatori professionisti di allarmi sulla laicità insidiata...
Viva la nuova stagione e il conseguente fiorire – tra gran sfoggio di amicizia e qualche tenace sospetto – di intese e di commerci tra Roma e Tripoli. Viva anche la chiusura di certe rotte marine della sofferenza e della morte per migranti d’Africa e dei cinici traffici dei nuovi mercanti di esseri umani, sebbene inevitabile e dolente il pensiero corra ai "respinti e basta", agli uomini e alle donne e ai bambini in fuga dalle guerre e dalla persecuzione che si arenano nei deserti di Libia e nessuno riconosce e nessuno accoglie secondo umanità e secondo le leggi che le nazioni civili si sono date.
Ma incontrarsi serve comunque. Serve sempre. E la solenne visita che il colonnello Gheddafi sta effettuando per la seconda volta nella capitale italiana è ovviamente un’occasione d’incontro e di reciproca conoscenza. Sperabilmente di crescita, di chi più ha da crescere, nella comprensione del valore della democrazia e dei diritti umani. Un avvenimento con aspetti sostanziali e circostanze, per così dire, volutamente folkloristiche. Ma anche con momenti incresciosi e urtanti. Come l’incontro per una sessione di propaganda islamica (a sfondo addirittura europeo) tra il leader libico e hostess appositamente reclutate. Messa in scena organizzata, quasi di soppiatto, un anno fa e questa volta lanciata, invece, come spettacolare prologo agli incontri più strettamente politici con le autorità italiane.
Viene da chiedersi – e tanti, in effetti, se lo sono chiesti – a quale leader d’un Paese di tradizione e maggioranza cristiana sarebbe stato concesso di predicare e battezzare in un Paese di tradizione e maggioranza islamica. Anche se è una domanda insensata. Prima di tutto, perché ai politici cristiani mai verrebbe in mente di farlo e, subito dopo, perché neanche a preti e missionari cristiani viene consentito di farlo mentre ai cristiani semplici (che siano lì per lavori servili o per affari o per prestazioni professionali qualificate) è addirittura interdetto – tranne che in poche eccezioni – di proclamarsi tali a parole e segni.
Nella tollerante e pluralista Italia, in questo nostro Paese di profonde e vive radici cristiane e capace di una positiva laicità, nella Roma cattolica, Gheddafi ha potuto invece fare deliberato spettacolo di «proselitismo» (anche grazie a un tg pubblico incredibilmente servizievole e disposto a far spiegare alle otto di sera della domenica che il colonnello ha esercitato il «dovere» di «ogni musulmano: convertire» gli altri). Non sapremmo dire in quanti altri Paesi tutto questo avrebbe avuto luogo o, in ogni caso, avrebbe avuto spropositata (e stolida) eco.
Probabilmente è stato un boomerang, una dimostrazione di quanto possano confondersi persino in certo islam giudicato non (più) estremista piano politico e piano religioso. Certamente è stata una lezione. Magari pure per i suonatori professionisti di allarmi sulla laicità insidiata...
«Avvenire» del 31 agosto 2010
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