Carenza di servizi, precarietà, ma soprattutto assenza di valori: così per il sociologo l’incertezza del futuro paralizza le coppie italiane
di Stefano Andrini
Gli italiani fanno sempre meno figli a causa di una crescente debolezza psicologica e culturale. Secondo il rapporto Cisf, infatti, i motivi personali e culturali che hanno ristretto la natalità nel nostro Paese sono quasi il 58%. Più della somma delle altre motivazioni: mancanza di soldi, difficoltà a conciliare il tempo di cura e di lavoro, una casa troppo piccola, l’assenza o la carenza dei servizi, la precarietà del lavoro. «Le famiglie italiane – spiega il sociologo Pierpaolo Donati – hanno sempre più paura a generare. Perché ci sono responsabilità che aumentano, perché c’è l’incertezza del futuro, perché non sanno più come educare i figli, perché si è persa la trasmissione culturale tra le generazioni ».
La spiegazione materialista, non ci sono abbastanza risorse, dunque non regge…
Un dato conferma questa tesi. Le italiane hanno in media 1,33 figli, mentre le immigrate arrivano a 2,2. E sappiamo bene come gli extracomunitari abbiano problemi economici, di alloggio, se non addirittura di povertà. Eppure questo non incide sul loro contributo all’incremento demografico.
Il dato rilevato dal rapporto manda in soffitta le tradizionali politiche familiari?
Agire sul versante del denaro è necessario perché le famiglie investono molto per i figli (35-40% del budget familiare). Ci troviamo di fronte a famiglie che spendono tutto quello che possono sul minimo dei figli. C’è l’idea che il bambino debba avere tutto e non solo l’essenziale; che è rappresentato invece dal contatto umano, da una buona educazione. C’è quasi un’ossessione che pretende di dare ai figli un benessere pieno di gadget e di giochi.
Ma tutto questo non sembra più sufficiente…
Agire con interventi che riguardano solo la fiscalità, i bonus, i prestiti ha un certo valore ma deve essere accompagnato da un cambio di prospettiva culturale. Il che significa soprattutto attuare un welfare relazionale caratterizzato da servizi, non del tutto statali, ma messi in campo da reti di famiglie, della scuola, della società civile, perché i bambini hanno bisogno di un ambiente relazionalmente valido e non tanto del superfluo.
In questa prospettiva il bambino allora non può più essere visto come un bene di consumo?
Certamente. L’insistenza a monetizzare il costo dei figli contribuisce a mercificarli. In questo modo il figlio è sempre più un bene di consumo alternativo ad altri beni di consumo: una vacanza all’estero, l’automobile, l’appartamento. Ovvero si tende a far coincidere il costo del figlio con il suo prezzo. Mentre noi sappiamo che i bambini non hanno un prezzo.
Come deve avvenire, dal punto di vista del welfare il passaggio dal bambino bene di consumo a bene relazionale?
Con una rivoluzione copernicana. Non più solo trasferimenti di denaro ma servizi. E soprattutto una capacità di investire sulla cultura dei servizi orientati alla famiglia che oggi, come accade per i consultori, languono. Il futuro è quello di un welfare per figli. Non per i bambini genericamente intesi, come appartenenti ad una categoria astratta, ma un welfare dei bambini in quanto figli di una certa famiglia.
Perché questa opzione?
Il bambino è una ricchezza relazionale perché crea relazioni e attraverso queste relazioni le persone imparano a fare i conti con gli altri ed è lì che si annidano le virtù sociali della famiglia. Dove i bambini imparano a superare le piccole gelosie e le piccole invidie perché hanno a che fare con molte relazioni. Questo porta un valore aggiunto alla comunità che oggi è invece caratterizzata dai figli unici e da ragazzi che privi di relazioni si rifugiano nell’isolamento. Per realizzare il progetto si possono anche immaginare dei servizi a costo zero.
La popolazione italiana, commenta il Rapporto, sopravvive decentemente perché rinuncia ad avere dei figli.
Questo significa che dagli anni ’80 in poi la politica ha rinunciato ad investire sulle nuove generazioni. Stiamo consumando il patrimonio accumulato senza reinvestirlo sui figli. Cioè sul nostro futuro.
La spiegazione materialista, non ci sono abbastanza risorse, dunque non regge…
Un dato conferma questa tesi. Le italiane hanno in media 1,33 figli, mentre le immigrate arrivano a 2,2. E sappiamo bene come gli extracomunitari abbiano problemi economici, di alloggio, se non addirittura di povertà. Eppure questo non incide sul loro contributo all’incremento demografico.
Il dato rilevato dal rapporto manda in soffitta le tradizionali politiche familiari?
Agire sul versante del denaro è necessario perché le famiglie investono molto per i figli (35-40% del budget familiare). Ci troviamo di fronte a famiglie che spendono tutto quello che possono sul minimo dei figli. C’è l’idea che il bambino debba avere tutto e non solo l’essenziale; che è rappresentato invece dal contatto umano, da una buona educazione. C’è quasi un’ossessione che pretende di dare ai figli un benessere pieno di gadget e di giochi.
Ma tutto questo non sembra più sufficiente…
Agire con interventi che riguardano solo la fiscalità, i bonus, i prestiti ha un certo valore ma deve essere accompagnato da un cambio di prospettiva culturale. Il che significa soprattutto attuare un welfare relazionale caratterizzato da servizi, non del tutto statali, ma messi in campo da reti di famiglie, della scuola, della società civile, perché i bambini hanno bisogno di un ambiente relazionalmente valido e non tanto del superfluo.
In questa prospettiva il bambino allora non può più essere visto come un bene di consumo?
Certamente. L’insistenza a monetizzare il costo dei figli contribuisce a mercificarli. In questo modo il figlio è sempre più un bene di consumo alternativo ad altri beni di consumo: una vacanza all’estero, l’automobile, l’appartamento. Ovvero si tende a far coincidere il costo del figlio con il suo prezzo. Mentre noi sappiamo che i bambini non hanno un prezzo.
Come deve avvenire, dal punto di vista del welfare il passaggio dal bambino bene di consumo a bene relazionale?
Con una rivoluzione copernicana. Non più solo trasferimenti di denaro ma servizi. E soprattutto una capacità di investire sulla cultura dei servizi orientati alla famiglia che oggi, come accade per i consultori, languono. Il futuro è quello di un welfare per figli. Non per i bambini genericamente intesi, come appartenenti ad una categoria astratta, ma un welfare dei bambini in quanto figli di una certa famiglia.
Perché questa opzione?
Il bambino è una ricchezza relazionale perché crea relazioni e attraverso queste relazioni le persone imparano a fare i conti con gli altri ed è lì che si annidano le virtù sociali della famiglia. Dove i bambini imparano a superare le piccole gelosie e le piccole invidie perché hanno a che fare con molte relazioni. Questo porta un valore aggiunto alla comunità che oggi è invece caratterizzata dai figli unici e da ragazzi che privi di relazioni si rifugiano nell’isolamento. Per realizzare il progetto si possono anche immaginare dei servizi a costo zero.
La popolazione italiana, commenta il Rapporto, sopravvive decentemente perché rinuncia ad avere dei figli.
Questo significa che dagli anni ’80 in poi la politica ha rinunciato ad investire sulle nuove generazioni. Stiamo consumando il patrimonio accumulato senza reinvestirlo sui figli. Cioè sul nostro futuro.
«Avvenire» del 24 marzo 2010
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