di Pierluigi Battista
Alla Chiesa cattolica, e anche alla Conferenza episcopale italiana, non si può negare la facoltà e anzi il dovere di difendere valori da essa considerati irrinunciabili. Troppo spesso, invece, si intima al mondo cattolico l’obbligo del silenzio e dell’acquiescenza rassegnata. O la consegna di confinare in uno spazio invisibile e interiore, lontano dalla sfera della discussione pubblica, l’affermazione di principi dettati dalla fede. Con l’appello pre-elettorale contro l’aborto del presidente della Cei Angelo Bagnasco non potevano mancare perciò le lamentazioni rituali sull’indebita «interferenza» vaticana nelle cose italiane. Ma anche la Chiesa, al netto dell'altrettanto rituale deplorazione degli attacchi «laicisti», non può ignorare il segno che i tempi, i modi, i bersagli e le forme dell’intervento anti-aborto inevitabilmente deposita nel dibattito politico alla vigilia del voto regionale.
I tempi, innanzitutto. Se a tre giorni dalle elezioni regionali viene data eccezionale enfasi a un tema che fino a pochi giorni prima non risultava in cima alle preoccupazioni anche politiche della Chiesa italiana, è fatale che si insinui il sospetto di una sin troppo palese strumentalità politica. La scelta dei vescovi italiani di affiancare successivamente il tema del lavoro a quello dell’aborto, del resto, è il segno che questo sospetto non ha lasciato insensibile nemmeno il mondo vaticano.
L’intervento della Cei voleva sottolineare che l’aborto non è merce di scambio politico, e che, per via della sua non negoziabilità, non è sottoposto alle stesse procedure di mediazione che caratterizzano la dialettica politica vera e propria. Ma la scelta di inserire un tema non negoziabile nei giorni precedenti alle elezioni mescola due ordini di problemi completamente diversi tra loro, confonde l’«assoluto» dei valori non negoziabili con il «relativo» di una normale competizione politica. Suggerisce l’idea che la prevalenza di un candidato anziché di un altro porterebbe a un aumento degli aborti, anche se il tema dell’aborto (pur legato alla sanità di cui le Regioni sono parte determinante) non è contemplato nell’agenda di tutti, ma proprio di tutti i candidati ai vertici delle istituzioni regionali, siano di centrodestra o di centrosinistra.
I modi comunicativi dell’intervento, inoltre, producono inevitabilmente un effetto di divisione nel mondo dei fedeli. Costringono i cattolici che fossero intenzionati a votare Emma Bonino o Mercedes Bresso a sentirsi in conflitto con la propria Chiesa, anche se le ragioni del loro voto prescindono totalmente dall’atteggiamento di quei candidati nei confronti dell’aborto.
Politicizzano una scelta religiosa e un valore morale che dovrebbero riguardare tutti e non solo chi segue le istruzioni elettorali dei vescovi. Permettono infine solo a una parte politica di identificarsi con quei valori, escludendo l’altra metà o confinandola in una scelta, per chi è orgoglioso di appartenere al mondo cattolico, per forza di cose vissuta con senso di colpa e imbarazzo etico. Ma votare con il senso di colpa non è mai un sintomo di salute per le democrazie.
I tempi, innanzitutto. Se a tre giorni dalle elezioni regionali viene data eccezionale enfasi a un tema che fino a pochi giorni prima non risultava in cima alle preoccupazioni anche politiche della Chiesa italiana, è fatale che si insinui il sospetto di una sin troppo palese strumentalità politica. La scelta dei vescovi italiani di affiancare successivamente il tema del lavoro a quello dell’aborto, del resto, è il segno che questo sospetto non ha lasciato insensibile nemmeno il mondo vaticano.
L’intervento della Cei voleva sottolineare che l’aborto non è merce di scambio politico, e che, per via della sua non negoziabilità, non è sottoposto alle stesse procedure di mediazione che caratterizzano la dialettica politica vera e propria. Ma la scelta di inserire un tema non negoziabile nei giorni precedenti alle elezioni mescola due ordini di problemi completamente diversi tra loro, confonde l’«assoluto» dei valori non negoziabili con il «relativo» di una normale competizione politica. Suggerisce l’idea che la prevalenza di un candidato anziché di un altro porterebbe a un aumento degli aborti, anche se il tema dell’aborto (pur legato alla sanità di cui le Regioni sono parte determinante) non è contemplato nell’agenda di tutti, ma proprio di tutti i candidati ai vertici delle istituzioni regionali, siano di centrodestra o di centrosinistra.
I modi comunicativi dell’intervento, inoltre, producono inevitabilmente un effetto di divisione nel mondo dei fedeli. Costringono i cattolici che fossero intenzionati a votare Emma Bonino o Mercedes Bresso a sentirsi in conflitto con la propria Chiesa, anche se le ragioni del loro voto prescindono totalmente dall’atteggiamento di quei candidati nei confronti dell’aborto.
Politicizzano una scelta religiosa e un valore morale che dovrebbero riguardare tutti e non solo chi segue le istruzioni elettorali dei vescovi. Permettono infine solo a una parte politica di identificarsi con quei valori, escludendo l’altra metà o confinandola in una scelta, per chi è orgoglioso di appartenere al mondo cattolico, per forza di cose vissuta con senso di colpa e imbarazzo etico. Ma votare con il senso di colpa non è mai un sintomo di salute per le democrazie.
«Il Corriere della Sera» del 24 marzo 2010
Nessun commento:
Posta un commento