Cosa spinse intellettuali come Heidegger o Derrida a mettersi al servizio della peggiore politica? Mark Lilla indaga in un libro. Molto attuale, perché l’attrazione per le idee illiberali è ancora tipica di molti pensatori
di Matteo Sacchi
Com’è che persone molto intelligenti iniziano a nutrire idee molto stupide e da liberi pensatori si trasformano nella «milizia spirituale del potere temporale» (copyright Julien Benda, 1927)? Se i chierici «traditori» sono di livello infimo, come quelli che tocca sorbire nei dibattiti televisivi, nessun problema. Basta cambiare canale. Ma quando l’intellettuale al servizio della peggior politica è un filosofo del calibro di Martin Heidegger le cose si fanno complicate.
Il conformismo, il narcisismo, l’opportunismo spiegano e non spiegano. Allora perché il genio di Essere e tempo accolse con favore l’ascesa di Hitler? Che dire di Carl Schmitt, colosso del diritto al servizio del nazismo? Cosa pensare dell’enigmatico Alexandre Kojéve, gigante hegeliano autoesiliatosi nella diplomazia francese per burocratizzare il mondo in vista di uno Stato universale in cui l’uomo, piccolo particolare, è ridotto ad automa? E come interpretare le uscite irresponsabili di Michel Foucault o l’adesione quasi forzata al marxismo di un apocalittico imbevuto di teologia come Walter Benjamin o le uscite tardive di Jacques Derrida desideroso di lasciare il segno nella storia della sinistra?
Mark Lilla, docente di scienze umanistiche alla Columbia University, prova a rispondere in Il genio avventato (B.C.Dalai editore, pagg. 238, euro 17,5). La risposta è importante perché, scrive Lilla, l’intellettuale europeo o americano tuttora perde «il senso della proporzione morale» di fronte alle responsabilità dell’Occidente (accusato di ogni nefandezza) e a quelle dei suoi antagonisti (per i quali trova sempre una giustificazione all’insegna del multiculturalismo politicamente corretto). Insomma: l’attrazione fatale per le idee illiberali non è scomparsa insieme col Muro di Berlino nel 1989. A parte questo, Lilla si concentra sui sei casi di cui sopra (Heidegger, Schmitt, Kojève, Benjamin, Foucault, Derrida) e parte alla ricerca di una spiegazione. Le somme si tirano alla fine e quindi dovrete prima leggere i sei brevi e brillanti profili offerti dall’autore.
Il «triangolo» (intellettuale, è ovvio) fra Heidegger, Hannah Arendt e Karl Jaspers si trascina per decenni. Ma l’adesione al nazismo del primo rimane un rompicapo. Per Jaspers è frutto di un’irresponsabilità di fondo. La Arendt, innamorata del suo ex maestro, sembra glissare salvo ricondurre l’avventatezza a quella stessa bruciante passione che ha reso Heidegger il maggiore fra i filosofi contemporanei. Cosa vide nel nazismo? Forse un movimento ostile all’inautenticità del mondo moderno e quindi capace di rigenerare uomo e nazione. Il fascino della tirannia lo attirò sempre: in un carteggio con Jaspers, dopo la fine della guerra, Heidegger dichiara finita la politica, ridotta ad ancella della tecnologia e dell’economia, e afferma di sperare in un «avvento» salvifico. Jaspers pregò l’amico di mettere le sue doti al servizio della ragione e non della «magia». La sbandata nazista del grande giurista Carl Schmitt è raccontata da Lilla più o meno negli stessi termini: «L’idealizzazione delle istituzioni cattoliche, l’elogio di Mussolini, i tentativi di salvare la legittimità democratica dal legalismo di Weimar, l’attività a sostegno di Hitler (per quanto discontinua): tutto ciò riflette la volontà di incoraggiare qualsiasi forza fosse in grado di dar battaglia alla secolarizzazione del mondo liberale». Anche in questo caso, la modernità è vista come un «errore cosmico» a cui porre rimedio.
Walter Benjamin e Alexandre Kojève invece si dichiararono marxisti, piuttosto sorprendentemente. Il primo aveva profondi interessi teologici e non era certo un materialista. Il secondo rispose così agli studenti che nel 1967 gli chiedevano un parere sulla rivoluzione: «Studiate il greco». Benjamin si suicidò durante la fuga dai nazisti. Nel comunismo aveva forse visto la rivoluzione che avrebbe avverato le sue visioni apocalittiche derivanti dalla tradizione mistica ebraica. Kojève invece diventò un autorevole consulente del ministero degli Esteri francese. Convinto dagli studi hegeliani che la storia fosse giunta al termine, auspicava l’avvento di uno Stato universale in cui le «classi» sociali avrebbero posto fine a ogni scontro dopo essersi «riconosciute» reciprocamente. Da qui discendevano sia la sua neutralità, durante la guerra fredda, fra capitalismo liberale e socialismo di Stato (entrambi deprecabili) sia la sua battaglia per la creazione di un mercato unico europeo. Teorizzerà, in un carteggio con Leo Strauss, che tra filosofi e tiranni vi può essere un «rapporto ragionevole». In fondo ciò che conta è arrivare allo Stato unico. Il mezzo non conta, la sorte dei vinti tanto meno.
Nei confronti di Foucault e Derrida, Lilla è piuttosto liquidatorio, si avverte una totale disistima assente nei primi quattro ritratti. Foucault cerca nella «rivoluzione» anni Sessanta una valvola di sfogo alla nicciana volontà di potenza e alle proprie pulsioni sadomasochistiche. Sempre pronto a sposare le cause peggiori, arriverà a incensare il regime di Khomeini dalle colonne dei giornali, anche italiani. L’approccio marxista degli ultimi testi di Derrida è visto invece come un’inutilissima appendice di un’opera di per sé molto discutibile nei suoi presupposti (non) filosofici.
Nell’ultima parte del volume, Lilla tira le somme. I nostri sei sarebbero accomunati da un «genio avventato». È l’eros che li muove, esiste un rapporto «fra brama di verità e il desiderio di contribuire al giusto assetto della città e della casa». Ed è forte l’illusione di poter vedere le proprie idee incarnarsi nella storia. Lo scivolone nello psicologismo è dietro l’angolo ma in fondo non conta. Il genio avventato è un libro dalla scrittura avvincente. E in più ci ricorda che i critici (di destra e di sinistra) del liberalismo spesso perdono la testa per obbrobri ideologici. In nome della giustizia e della uguaglianza, dicono loro. Meglio diffidare.
Il conformismo, il narcisismo, l’opportunismo spiegano e non spiegano. Allora perché il genio di Essere e tempo accolse con favore l’ascesa di Hitler? Che dire di Carl Schmitt, colosso del diritto al servizio del nazismo? Cosa pensare dell’enigmatico Alexandre Kojéve, gigante hegeliano autoesiliatosi nella diplomazia francese per burocratizzare il mondo in vista di uno Stato universale in cui l’uomo, piccolo particolare, è ridotto ad automa? E come interpretare le uscite irresponsabili di Michel Foucault o l’adesione quasi forzata al marxismo di un apocalittico imbevuto di teologia come Walter Benjamin o le uscite tardive di Jacques Derrida desideroso di lasciare il segno nella storia della sinistra?
Mark Lilla, docente di scienze umanistiche alla Columbia University, prova a rispondere in Il genio avventato (B.C.Dalai editore, pagg. 238, euro 17,5). La risposta è importante perché, scrive Lilla, l’intellettuale europeo o americano tuttora perde «il senso della proporzione morale» di fronte alle responsabilità dell’Occidente (accusato di ogni nefandezza) e a quelle dei suoi antagonisti (per i quali trova sempre una giustificazione all’insegna del multiculturalismo politicamente corretto). Insomma: l’attrazione fatale per le idee illiberali non è scomparsa insieme col Muro di Berlino nel 1989. A parte questo, Lilla si concentra sui sei casi di cui sopra (Heidegger, Schmitt, Kojève, Benjamin, Foucault, Derrida) e parte alla ricerca di una spiegazione. Le somme si tirano alla fine e quindi dovrete prima leggere i sei brevi e brillanti profili offerti dall’autore.
Il «triangolo» (intellettuale, è ovvio) fra Heidegger, Hannah Arendt e Karl Jaspers si trascina per decenni. Ma l’adesione al nazismo del primo rimane un rompicapo. Per Jaspers è frutto di un’irresponsabilità di fondo. La Arendt, innamorata del suo ex maestro, sembra glissare salvo ricondurre l’avventatezza a quella stessa bruciante passione che ha reso Heidegger il maggiore fra i filosofi contemporanei. Cosa vide nel nazismo? Forse un movimento ostile all’inautenticità del mondo moderno e quindi capace di rigenerare uomo e nazione. Il fascino della tirannia lo attirò sempre: in un carteggio con Jaspers, dopo la fine della guerra, Heidegger dichiara finita la politica, ridotta ad ancella della tecnologia e dell’economia, e afferma di sperare in un «avvento» salvifico. Jaspers pregò l’amico di mettere le sue doti al servizio della ragione e non della «magia». La sbandata nazista del grande giurista Carl Schmitt è raccontata da Lilla più o meno negli stessi termini: «L’idealizzazione delle istituzioni cattoliche, l’elogio di Mussolini, i tentativi di salvare la legittimità democratica dal legalismo di Weimar, l’attività a sostegno di Hitler (per quanto discontinua): tutto ciò riflette la volontà di incoraggiare qualsiasi forza fosse in grado di dar battaglia alla secolarizzazione del mondo liberale». Anche in questo caso, la modernità è vista come un «errore cosmico» a cui porre rimedio.
Walter Benjamin e Alexandre Kojève invece si dichiararono marxisti, piuttosto sorprendentemente. Il primo aveva profondi interessi teologici e non era certo un materialista. Il secondo rispose così agli studenti che nel 1967 gli chiedevano un parere sulla rivoluzione: «Studiate il greco». Benjamin si suicidò durante la fuga dai nazisti. Nel comunismo aveva forse visto la rivoluzione che avrebbe avverato le sue visioni apocalittiche derivanti dalla tradizione mistica ebraica. Kojève invece diventò un autorevole consulente del ministero degli Esteri francese. Convinto dagli studi hegeliani che la storia fosse giunta al termine, auspicava l’avvento di uno Stato universale in cui le «classi» sociali avrebbero posto fine a ogni scontro dopo essersi «riconosciute» reciprocamente. Da qui discendevano sia la sua neutralità, durante la guerra fredda, fra capitalismo liberale e socialismo di Stato (entrambi deprecabili) sia la sua battaglia per la creazione di un mercato unico europeo. Teorizzerà, in un carteggio con Leo Strauss, che tra filosofi e tiranni vi può essere un «rapporto ragionevole». In fondo ciò che conta è arrivare allo Stato unico. Il mezzo non conta, la sorte dei vinti tanto meno.
Nei confronti di Foucault e Derrida, Lilla è piuttosto liquidatorio, si avverte una totale disistima assente nei primi quattro ritratti. Foucault cerca nella «rivoluzione» anni Sessanta una valvola di sfogo alla nicciana volontà di potenza e alle proprie pulsioni sadomasochistiche. Sempre pronto a sposare le cause peggiori, arriverà a incensare il regime di Khomeini dalle colonne dei giornali, anche italiani. L’approccio marxista degli ultimi testi di Derrida è visto invece come un’inutilissima appendice di un’opera di per sé molto discutibile nei suoi presupposti (non) filosofici.
Nell’ultima parte del volume, Lilla tira le somme. I nostri sei sarebbero accomunati da un «genio avventato». È l’eros che li muove, esiste un rapporto «fra brama di verità e il desiderio di contribuire al giusto assetto della città e della casa». Ed è forte l’illusione di poter vedere le proprie idee incarnarsi nella storia. Lo scivolone nello psicologismo è dietro l’angolo ma in fondo non conta. Il genio avventato è un libro dalla scrittura avvincente. E in più ci ricorda che i critici (di destra e di sinistra) del liberalismo spesso perdono la testa per obbrobri ideologici. In nome della giustizia e della uguaglianza, dicono loro. Meglio diffidare.
«Il Giornale» del 22 marzo 2010
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