di Maurizio Cucchi
Che rapporto può esserci, mi chiedo, tra gli scrittori e la tv, tra i poeti e la tv? Me lo chiedo anche in seguito alle recenti chiacchiere nate dalla penosa esibizione di Aldo Busi a quella che si chiama 'L’isola dei famosi'. I quali 'famosi', a mio avviso, proprio per la loro partecipazione a un programma simile, dovrebbero più opportunamente chiamarsi 'famigerati', per non dire di peggio. La vera poesia – la vera letteratura in genere – deve avere la possibilità di un ascolto più alto, anche per poter coinvolgere fasce di pubblico potenzialmente interessate, ma di fatto non raggiunte da una sufficiente informazione. Ma è anche chiaro che il modo deve essere corretto, il canale di passaggio adatto, la situazione congrua. Ricordo, già molti anni fa, un Giorgio Caproni invitato a un programma-contenitore della domenica pomeriggio. Il grande poeta era normalmente imbarazzato, ma più di lui sembrano esserlo i gestori del programma. Insomma, era un corpo estraneo, un personaggio del tutto fuori luogo. È chiaro che la televisione è, in genere, soprattutto ormai quella dell’urlante Ventura, della pacioccona Clerici e affini, e dunque un poeta è bene che stia alla larga. Se poi si tratta dei 'reality', che sono il trionfo del kitsch e della finzione travestita da realtà, peggio ancora. Eppure la televisione non sempre è stata così, non sempre è stata puro varietà totale e generico.
Puro varietà il cui specifico è in sostanza l’esatta assenza di specifico. Il mezzo, in sé, è innocente. O meglio utile, utilissimo: come per esempio il frigorifero. Dipende da quello che ci mettiamo dentro. I meno giovani non possono aver dimenticato programmi formativi come 'L’approdo', o come 'Settimo giorno', dove passavano anche documentari straordinari, interviste a grandi personaggi delle lettere e delle arti, servizi realizzati senza paura alcuna di ammorbare il pubblico. Anche perché, del pubblico stesso, si aveva un’idea più alta, ed era giusto. Ricordo le apparizioni di protagonisti della poesia – in servizi che ogni tanto ci può capitare di rivedere in ore impossibili – che parlavano tranquillamente di se stessi, della poesia e del mondo. Ricordo la voce gracchiante di Montale sobrio e ironico, gli occhi incredibilmente diafani di Alfonso Gatto, il pigiama di Umberto Saba che leggeva i suoi versi in cucina; per non dire dell’indimenticabile barba bianca del vecchio Ungaretti che masticava ferocemente le sue parole e di Sandro Penna sdraiato sul suo letto. Figure che potevano entrare in modo coerente e tranquillo in uno schermo della tv. Altri tempi, lo so. Eppure la poesia c’è ancora, e ben viva. Solo che il poeta o lo scrittore non possono pensare di proporsi azzuffandosi in diretta, trasformandosi in provocatori (organici) o sbraitando come all’osteria.
Molto più morale e nobile un decoroso silenzio, o un’onesta nicchia, se l’alternativa deve essere una visibilità grottesca e conformistica rispetto al varietà totale di cui soffre senza saperlo il teledipendente. Meglio ancora – e tutt’altro che impossibile – se in orari comodi e su reti pubbliche si potesse dare spazio formativo alla cultura, e dunque concedendo parola a scrittori e poeti che molto hanno da dire e che troppo poco vengono coinvolti in termini corretti.
Puro varietà il cui specifico è in sostanza l’esatta assenza di specifico. Il mezzo, in sé, è innocente. O meglio utile, utilissimo: come per esempio il frigorifero. Dipende da quello che ci mettiamo dentro. I meno giovani non possono aver dimenticato programmi formativi come 'L’approdo', o come 'Settimo giorno', dove passavano anche documentari straordinari, interviste a grandi personaggi delle lettere e delle arti, servizi realizzati senza paura alcuna di ammorbare il pubblico. Anche perché, del pubblico stesso, si aveva un’idea più alta, ed era giusto. Ricordo le apparizioni di protagonisti della poesia – in servizi che ogni tanto ci può capitare di rivedere in ore impossibili – che parlavano tranquillamente di se stessi, della poesia e del mondo. Ricordo la voce gracchiante di Montale sobrio e ironico, gli occhi incredibilmente diafani di Alfonso Gatto, il pigiama di Umberto Saba che leggeva i suoi versi in cucina; per non dire dell’indimenticabile barba bianca del vecchio Ungaretti che masticava ferocemente le sue parole e di Sandro Penna sdraiato sul suo letto. Figure che potevano entrare in modo coerente e tranquillo in uno schermo della tv. Altri tempi, lo so. Eppure la poesia c’è ancora, e ben viva. Solo che il poeta o lo scrittore non possono pensare di proporsi azzuffandosi in diretta, trasformandosi in provocatori (organici) o sbraitando come all’osteria.
Molto più morale e nobile un decoroso silenzio, o un’onesta nicchia, se l’alternativa deve essere una visibilità grottesca e conformistica rispetto al varietà totale di cui soffre senza saperlo il teledipendente. Meglio ancora – e tutt’altro che impossibile – se in orari comodi e su reti pubbliche si potesse dare spazio formativo alla cultura, e dunque concedendo parola a scrittori e poeti che molto hanno da dire e che troppo poco vengono coinvolti in termini corretti.
«Avvenire» del 25 marzo 2010
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