Diritti violati
di Pierluigi Battista
Mancano pochi giorni, o forse poche ore, per impedire che la seconda «Primavera nera» di Cuba possa provocare tutti i suoi effetti luttuosi. Il dissidente Guillermo Fariñas versa in gravissime condizioni dopo tre settimane di sciopero della fame e della sete. Se gli aguzzini dell'Avana non smetteranno di definirlo un «criminale» e un «mercenario», Fariñas farà la stessa fine di Orlando Zapata, morto dopo 75 giorni di protesta eroica ed estrema contro un regime le cui carceri sono zeppe di prigionieri politici. Per evitare questo esito catastrofico, la comunità internazionale ha ancora un margine di tempo, sempre più esiguo, per premere sui maggiorenti della dittatura cubana. Finora hanno fatto sentire la propria voce gli Stati Uniti e, pur nel silenzio degli altri Paesi dell'Unione Europea, la Spagna e l'Italia. Amnesty International chiede di entrare a Cuba per verificare le condizioni di vita dei dissidenti rinchiusi in prigione: ma L'Avana ha respinto la richiesta bollandola come un' intrusione del nemico. Anche la Croce Rossa Internazionale vuole accertare la gravità delle condizioni di Fariñas: ma anche in questo caso le autorità cubane si sono rifiutate di collaborare, trattando la vittima come un «ricattatore». I dirigenti di Cuba, Raúl Castro in testa, hanno espresso il loro «rammarico» per la morte di Zapata. Non hanno aggiunto che Zapata stava in galera, condannato a oltre vent'anni di detenzione per un reato d'opinione. Nel 2003, nella prima «Primavera nera», giornalisti, sindacalisti, medici e avversari del regime vennero sbattuti in carcere, condannati in processi farsa. Le loro abitazioni furono messe a soqquadro. Vennero confiscati i computer, i parenti minacciati e ricattati sul lavoro. La polizia politica agì con brutalità metodica, approfittando del disinteresse di una comunità internazionale paralizzata nell'attesa della scomparsa del dittatore Fidel. Alcuni dissidenti tentarono di fuggire per mare con imbarcazioni di fortuna. Furono riacciuffati e fucilati, schiacciati dalle solite, risibili accuse: di essere al soldo della Cia, «mercenari», «criminali comuni», sabotatori del socialismo. Cuba, la terra del socialismo tropicale, l'isola dell'utopia realizzata tra spiagge meravigliose e avventure alla Hemingway, dell'icona del «Che», dell' epopea dei barbudos nella Sierra Maestra, gode ancora, nonostante un cinquantennio di oppressione feroce e sistematica di ogni dissidenza, di una certa benevolenza. Ma l'immagine dei dissidenti che si lasciano morire, l'enormità delle condanne comminate senza un minimo di garanzie civili e di diritto, restituiscono il volto più lugubre del regime dell' Avana. Qualche giorno fa, accanto a Mario Vargas Llosa che non ha mai cessato di denunciare il carattere oppressivo del comunismo cubano, si sono mobilitati per salvare la vita di Fariñas e degli altri dissidenti impegnati nello sciopero della fame anche intellettuali come Pedro Almodóvar e Fernando Savater, la cui appartenenza alla sinistra è nota a tutti. In Italia tutto è più difficile. L'indignazione selettiva acuisce la reattività per le malefatte compiute a Guantanamo, ma spegne la sensibilità per i lager costruiti nella stessa isola, ma sotto il controllo del regime di Fidel Castro. Cuba non è più un modello, un sogno, lo specchio dei desideri di una sinistra sempre meno attratta dal richiamo del terzomondismo anti-americano, ma viene cancellata nell' indifferenza e nell'interesse pubblico, come se, sepolti i sogni, si volesse evitare di fare i conti con un incubo. Se si fosse consapevoli che una pressione appena appena più visibile potrebbe salvare la vita di persone che hanno l'unico torto di dissentire dal regime cubano, probabilmente l'opinione pubblica potrebbe uscire dal letargo. Prima che sia troppo tardi. Prima che la comunità internazionale, gli stessi organismi che dovrebbero tutelare il rispetto dei diritti umani (a cominciare ovviamente dall'Onu) non abbiano a pentirsi di una passività che salva i buoni rapporti con Cuba ma rende impossibile la vita di chi è nel mirino della dittatura. E stavolta, davvero, è solo questione di tempo.
«Corriere della Sera» del 19 marzo 2010
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