Reati, peccati e crisi delle regole
di Giuseppe De Rita
Quando una società è in vitale cambiamento, come lo è stata l’Italia negli ultimi decenni, è naturale e giusto governarla accompagnandone i processi, senza illusioni volontaristiche di un «nuovo» spesso solo immaginato. Certo, seguendo questa propensione chi fa politica rischia di limitarsi al lasciar fare o a galleggiare nell’esistente; ma se è attento a quel che avviene può dare significativo orientamento e sostegno allo spontaneismo del sistema. Per questo negli ultimi sessanta anni non abbiamo conseguito innovativi assetti di sistema, ma abbiamo silenziosamente costruito un modello di sviluppo solido che ci ha fra l'altro permesso di resistere all’uragano che solo dodici mesi fa rischiava di abbattersi su di noi.
Ma cosa succede invece quando una società non è in cambiamento ma è un po’ statica e replicante, come l’Italia che ha resistito al citato uragano? Accompagnarne i processi non basta più, anzi rischia di aggravarne gli avvitamenti, allontanandoci dalla sospirata ripresa. E per evitare il pericolo sono in campo due diverse propensioni. La prima è di aspettare e sperare in qualche benefico influsso esterno; aspettare e sperare cioè che si rimetta in moto la locomotiva tedesca; che ripartano i consumi di lusso coltivati dalle fasce ricche del pianeta; che l’effervescenza dei mercati finanziari mondiali si traduca non in ennesima bolla speculativa ma in nuovi impulsi all’economia reale. È un atteggiamento non indebito, ma certo non induce all’attivismo e all’iniziativa.
Cresce così una seconda propensione, centrata sulla convinzione che dalla crisi si esca (e nella ripresa si entri) solo se facciamo le riforme di sistema (della scuola come della ricerca, della pubblica amministrazione come della sanità o della previdenza, tanto per restare a quelle più quotate nell’opinione collettiva). Nobili intenti, invero; ma forse bisognerà cominciare a capire che sotto la nobiltà degli intenti non c’è un reale spazio d’azione. La retorica delle riforme vive su istanze culturali e politiche non sempre o non più in consonanza con i bisogni dei tempi e finiscono per essere poco credibili per la cultura collettiva (non c’è anziano che pensi che il suo futuro sia garantito dalla riforma delle pensioni, non c’è giovane che pensi che la sua competitività professionale sia garantita dalla riforma della scuola). Tanto che non è un caso che ormai la istanza riformista si è incrostata su temi, quelli relativi al potere politico- istituzionale, che riempiono le cronache mediatiche ma non interessano più di tanto la gente comune. Se aspettiamo che siano le riforme a dar nuova dinamica al sistema, coltiviamo solo un altro «aspettare e sperare».
Ed allora torniamo a capire e accompagnare i processi di spontanea dinamica, ormai base tradizionale del nostro «empirismo di governo». C’è anzitutto da capire ed accompagnare la tendenza degli attuali cassintegrati a cercare anche una riconversione individuale magari stabilendo una subordinazione della concreta erogazione dell’assegno alla partecipazione a iniziative formative svolte in azienda (gli interessati o partecipano e crescono di livello, o non si fanno vedere perché hanno già maturato un altro percorso di lavoro; comunque entrano in movimento).
C’è in secondo luogo da capire ed accompagnare il formicolio post-letargo che sembra ridare voglia di riprendere l’iniziativa a molte delle medie e delle piccole imprese manifatturiere: la conferma in dati l’avremo verosimilmente in autunno, ma chi gira l’Italia avverte che la ruota gira lentamente verso un rinnovato impegno di sopravvivenza e sfida. E c’è infine, ma non per ultimo, da capire ed accompagnare il profondo e quasi improvvisato processo di ristrutturazione del terziario. Processo quasi invisibile perché si attua in molecolari microdecisioni e microcomportamenti (in singoli piccoli esercizi commerciali, in singoli piccoli studi professionali, in singole e piccole aziende di trasporto, ecc.); ma che porta in lento progresso ad una maggiore efficienza e competitività del settore e del sistema. Se tale evoluzione si combinerà con il citato formicolio dell’industria, allora la ripresa potrebbe avere una dinamica finora quasi insperata. Anche restasse fermo quell’invasivo comparto terziario che è l’amministrazione pubblica, la cui ristrutturazione risulta più faticosa del previsto. Ma questo è altro e più antico discorso.
Ma cosa succede invece quando una società non è in cambiamento ma è un po’ statica e replicante, come l’Italia che ha resistito al citato uragano? Accompagnarne i processi non basta più, anzi rischia di aggravarne gli avvitamenti, allontanandoci dalla sospirata ripresa. E per evitare il pericolo sono in campo due diverse propensioni. La prima è di aspettare e sperare in qualche benefico influsso esterno; aspettare e sperare cioè che si rimetta in moto la locomotiva tedesca; che ripartano i consumi di lusso coltivati dalle fasce ricche del pianeta; che l’effervescenza dei mercati finanziari mondiali si traduca non in ennesima bolla speculativa ma in nuovi impulsi all’economia reale. È un atteggiamento non indebito, ma certo non induce all’attivismo e all’iniziativa.
Cresce così una seconda propensione, centrata sulla convinzione che dalla crisi si esca (e nella ripresa si entri) solo se facciamo le riforme di sistema (della scuola come della ricerca, della pubblica amministrazione come della sanità o della previdenza, tanto per restare a quelle più quotate nell’opinione collettiva). Nobili intenti, invero; ma forse bisognerà cominciare a capire che sotto la nobiltà degli intenti non c’è un reale spazio d’azione. La retorica delle riforme vive su istanze culturali e politiche non sempre o non più in consonanza con i bisogni dei tempi e finiscono per essere poco credibili per la cultura collettiva (non c’è anziano che pensi che il suo futuro sia garantito dalla riforma delle pensioni, non c’è giovane che pensi che la sua competitività professionale sia garantita dalla riforma della scuola). Tanto che non è un caso che ormai la istanza riformista si è incrostata su temi, quelli relativi al potere politico- istituzionale, che riempiono le cronache mediatiche ma non interessano più di tanto la gente comune. Se aspettiamo che siano le riforme a dar nuova dinamica al sistema, coltiviamo solo un altro «aspettare e sperare».
Ed allora torniamo a capire e accompagnare i processi di spontanea dinamica, ormai base tradizionale del nostro «empirismo di governo». C’è anzitutto da capire ed accompagnare la tendenza degli attuali cassintegrati a cercare anche una riconversione individuale magari stabilendo una subordinazione della concreta erogazione dell’assegno alla partecipazione a iniziative formative svolte in azienda (gli interessati o partecipano e crescono di livello, o non si fanno vedere perché hanno già maturato un altro percorso di lavoro; comunque entrano in movimento).
C’è in secondo luogo da capire ed accompagnare il formicolio post-letargo che sembra ridare voglia di riprendere l’iniziativa a molte delle medie e delle piccole imprese manifatturiere: la conferma in dati l’avremo verosimilmente in autunno, ma chi gira l’Italia avverte che la ruota gira lentamente verso un rinnovato impegno di sopravvivenza e sfida. E c’è infine, ma non per ultimo, da capire ed accompagnare il profondo e quasi improvvisato processo di ristrutturazione del terziario. Processo quasi invisibile perché si attua in molecolari microdecisioni e microcomportamenti (in singoli piccoli esercizi commerciali, in singoli piccoli studi professionali, in singole e piccole aziende di trasporto, ecc.); ma che porta in lento progresso ad una maggiore efficienza e competitività del settore e del sistema. Se tale evoluzione si combinerà con il citato formicolio dell’industria, allora la ripresa potrebbe avere una dinamica finora quasi insperata. Anche restasse fermo quell’invasivo comparto terziario che è l’amministrazione pubblica, la cui ristrutturazione risulta più faticosa del previsto. Ma questo è altro e più antico discorso.
«Corriere della Sera» del 20 marzo 2010
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