Le vendite non decollano. I media ignorano vecchie glorie e giovani promesse. Le collane sono in decadenza Eppure i titoli pubblicati sono in aumento, alcuni autori riescono a sfondare. E se digitate "poetry" in Google...
di Nicola Crocetti
Un giorno di giugno di dieci anni fa un gruppo di «esperti» di poesia di ogni parte d’Europa fu convocato a Parigi, nella sede dell’Unesco, dall’ambasciatore greco, Vasilis Vasilikòs. Scopo della riunione era preparare la prima «Giornata mondiale della poesia» (che già esisteva in alcuni Paesi, ma che fu proclamata a livello mondiale nel novembre 1999 dall’Unesco) da tenersi il 21 marzo di ogni anno, e la cui prima edizione si tenne in Grecia, a Delfi, nel 2000. Ciò sia detto a futura memoria e a giusto merito di Vasilikòs.
Il senso di una giornata mondiale della poesia, si disse in quell’occasione, era che di questa forma d’arte, negletta a livello mondiale ma ovunque molto amata e praticata, ci si ricordasse almeno una volta l’anno e se ne parlasse in maniera meno episodica o casuale. Ma più delle motivazioni della proclamazione, destò sorpresa l’entusiasmo con cui la notizia fu accolta da tutti, e le decine di migliaia di manifestazioni e feste della poesia che da allora, il giorno di primavera, si svolgono in ogni parte del mondo.
A distanza di un decennio ci si può chiedere: che effetto ha avuto l’iniziativa di quello sparuto manipolo di visionari? Probabilmente nessuno. Né più né meno come la festa della mamma e del papà non incrementano l’amore per i genitori ma unicamente lo smercio di gadget e regalini, e l’8 marzo si limita a rimpinguare le tasche dei venditori di mimose. Le vendite dei libri di poesia sono attestate sui soliti dati sconfortanti, e le redazioni delle case editrici che pubblicano poesia sono come sempre assediate da schiere di postulanti. Stabile, o in aumento, il già consistente numero di libri di poesia che escono ogni anno in Italia: circa tremila, in gran parte «autoprodotti». Gli unici che sulla poesia fanno buoni affari, infatti, sono gli editori a pagamento, i quali chiedono cifre cospicue per sfornare libri che solo l’autore acquista, e si procacciano clienti con costose inserzioni pubblicitarie sulle prime pagine dei giornali o addirittura con spot televisivi. È quella che gli americani chiamano vanity press: dolenze amorose, spasimi politico-civili o naturalistici, rigurgiti intimistici, opere per lo più di sprovveduti che la poesia non sanno nemmeno dove stia di casa.
Ma perché è così diffusa dovunque la vanità di vedere il proprio nome stampato sulla quasi sempre brutta copertina di un libro che il più delle volte contiene frasi insulse interrotte da frequenti a capo? Forse perché quello del poeta è considerato una sorta di status symbol, un «valore aggiunto», una condizione di privilegio rispetto a quello che ogni persona è. Come se essere studente, impiegato, insegnante, dirigente o pensionato non fosse di per sé sufficiente. «Ma io sono un poeta!», si sente dire spessissimo da persone non sai se più sprovvedute o impudenti, quasi che questa sussiegosa e apodittica autoproclamazione possa assolvere da qualsiasi crimine, primo tra tutti quello dell’analfabetismo poetico. Sembra che uno dica: io sono un poeta, e quindi diverso e migliore di tutti voi.
Dunque, a dispetto delle giornate mondiali della poesia, di poesia si continua a leggerne poca. E non è detto che ciò sia un male, vista la qualità piuttosto scadente della gran parte dei libri che escono - anche da editori importanti e in collane dirette da poeti incolti o mediocri -, e considerata la scarsa comprensibilità di molta poesia moderna, di fronte alla quale il lettore si sente spesso turlupinato. (Anche se, per dirla tutta, chi protesta per la poesia «oscura» non di rado fa la fila per vedere mostre d’arte contemporanea dove le opere esposte non sono meno ostiche dei Cantos di Pound).
In America i poeti bravi insegnano nelle università e godono di cospicui premi e appannaggi. In Italia, diceva Dario Bellezza, «nessuno li legge, nessuno li ascolta». E tuttavia ci si potrebbe anche chiedere: perché uno dovrebbe leggere poesia? A farlo non educa certo la scuola, i cui programmi ignorano quasi del tutto la poesia del ’900. A farlo non incoraggia certo l’informazione. I giornali non parlano quasi mai di poesia, oppure lo fanno spesso a sproposito e confondendo le idee, cioè spacciando per poeti importanti piccoli e sprovveduti versificatori che magari hanno un amico in redazione. La televisione, che pure nei notiziari del prime-time dà conto delle uscite degli ultimi CD di cantautori di dubbio rango, non si è mai sognata di annunciare l’uscita dell’ultima raccolta di uno dei maggiori poeti italiani o stranieri (fa eccezione qualche programma radiofonico). A farlo non invogliano le peraltro scarse recensioni dei critici, che quasi sempre usano un linguaggio criptico e per iniziati, e ai quali è del tutto ignota la grande tradizione divulgativa anglosassone. A farlo, infine, non aiuta la distribuzione libraria, scarsa o inesistente anche nel caso di collane famose e poeti importanti.
Perché mai, dunque, uno dovrebbe leggere libri di poesia di cui ignora l’esistenza, o, se quando qualcuno ne parla, non capisce se si tratti di un buon libro o no, o, se dopo essersi convinto a procurarselo, fatica a trovarlo in libreria? O, peggio ancora, se dopo che l’ha comprato non capisce quello che c’è scritto?
E tuttavia esistono casi (eccezioni?) che ribaltano ogni assunto circa il presunto disinteresse del pubblico per la poesia. Alda Merini, per fare un esempio. Certo, lei ha avuto, come si dice, una «sovraesposizione mediatica» che l’ha resa nota al grande pubblico; aveva una vicenda umana (le sofferenze patite e il manicomio) che titillava sensibilità e sensi di colpa. Ma sapeva farsi capire e amare. E vendeva decine di migliaia di copie dei suoi libri (non tutti capolavori).
Eppoi c’è internet, che offre di tutto e di più. Se digitate la parola «poesia» su Google vi escono 30 milioni di pagine; su yahoo! 134 milioni. Ma se digitate la parola «poetry» nella lingua che oggi conta avrete 73 milioni di pagine su Google e 440 milioni su yahoo!. E questo sarebbe disinteresse per la poesia a livello planetario? O non piuttosto un fenomeno di massa tra i più rilevanti? Certo, se io mettessi i miei versi sul mio blog (si fa per dire, perché grazie al cielo io non ho un blog e non scrivo poesie) e nessuno mi conoscesse, quante probabilità avrei che qualcuno vi se ne imbattesse? Le stesse di un naufrago su un’isoletta spersa nell’oceano che lanciasse un messaggio in una bottiglia. Cioè praticamente nessuna. Nondimeno, e nonostante tutto, così come l’8 marzo regaliamo un rametto di mimosa dall’odore non proprio gradevole, per una volta, il 21 marzo, proviamo a donare un libro di poesia.
Il senso di una giornata mondiale della poesia, si disse in quell’occasione, era che di questa forma d’arte, negletta a livello mondiale ma ovunque molto amata e praticata, ci si ricordasse almeno una volta l’anno e se ne parlasse in maniera meno episodica o casuale. Ma più delle motivazioni della proclamazione, destò sorpresa l’entusiasmo con cui la notizia fu accolta da tutti, e le decine di migliaia di manifestazioni e feste della poesia che da allora, il giorno di primavera, si svolgono in ogni parte del mondo.
A distanza di un decennio ci si può chiedere: che effetto ha avuto l’iniziativa di quello sparuto manipolo di visionari? Probabilmente nessuno. Né più né meno come la festa della mamma e del papà non incrementano l’amore per i genitori ma unicamente lo smercio di gadget e regalini, e l’8 marzo si limita a rimpinguare le tasche dei venditori di mimose. Le vendite dei libri di poesia sono attestate sui soliti dati sconfortanti, e le redazioni delle case editrici che pubblicano poesia sono come sempre assediate da schiere di postulanti. Stabile, o in aumento, il già consistente numero di libri di poesia che escono ogni anno in Italia: circa tremila, in gran parte «autoprodotti». Gli unici che sulla poesia fanno buoni affari, infatti, sono gli editori a pagamento, i quali chiedono cifre cospicue per sfornare libri che solo l’autore acquista, e si procacciano clienti con costose inserzioni pubblicitarie sulle prime pagine dei giornali o addirittura con spot televisivi. È quella che gli americani chiamano vanity press: dolenze amorose, spasimi politico-civili o naturalistici, rigurgiti intimistici, opere per lo più di sprovveduti che la poesia non sanno nemmeno dove stia di casa.
Ma perché è così diffusa dovunque la vanità di vedere il proprio nome stampato sulla quasi sempre brutta copertina di un libro che il più delle volte contiene frasi insulse interrotte da frequenti a capo? Forse perché quello del poeta è considerato una sorta di status symbol, un «valore aggiunto», una condizione di privilegio rispetto a quello che ogni persona è. Come se essere studente, impiegato, insegnante, dirigente o pensionato non fosse di per sé sufficiente. «Ma io sono un poeta!», si sente dire spessissimo da persone non sai se più sprovvedute o impudenti, quasi che questa sussiegosa e apodittica autoproclamazione possa assolvere da qualsiasi crimine, primo tra tutti quello dell’analfabetismo poetico. Sembra che uno dica: io sono un poeta, e quindi diverso e migliore di tutti voi.
Dunque, a dispetto delle giornate mondiali della poesia, di poesia si continua a leggerne poca. E non è detto che ciò sia un male, vista la qualità piuttosto scadente della gran parte dei libri che escono - anche da editori importanti e in collane dirette da poeti incolti o mediocri -, e considerata la scarsa comprensibilità di molta poesia moderna, di fronte alla quale il lettore si sente spesso turlupinato. (Anche se, per dirla tutta, chi protesta per la poesia «oscura» non di rado fa la fila per vedere mostre d’arte contemporanea dove le opere esposte non sono meno ostiche dei Cantos di Pound).
In America i poeti bravi insegnano nelle università e godono di cospicui premi e appannaggi. In Italia, diceva Dario Bellezza, «nessuno li legge, nessuno li ascolta». E tuttavia ci si potrebbe anche chiedere: perché uno dovrebbe leggere poesia? A farlo non educa certo la scuola, i cui programmi ignorano quasi del tutto la poesia del ’900. A farlo non incoraggia certo l’informazione. I giornali non parlano quasi mai di poesia, oppure lo fanno spesso a sproposito e confondendo le idee, cioè spacciando per poeti importanti piccoli e sprovveduti versificatori che magari hanno un amico in redazione. La televisione, che pure nei notiziari del prime-time dà conto delle uscite degli ultimi CD di cantautori di dubbio rango, non si è mai sognata di annunciare l’uscita dell’ultima raccolta di uno dei maggiori poeti italiani o stranieri (fa eccezione qualche programma radiofonico). A farlo non invogliano le peraltro scarse recensioni dei critici, che quasi sempre usano un linguaggio criptico e per iniziati, e ai quali è del tutto ignota la grande tradizione divulgativa anglosassone. A farlo, infine, non aiuta la distribuzione libraria, scarsa o inesistente anche nel caso di collane famose e poeti importanti.
Perché mai, dunque, uno dovrebbe leggere libri di poesia di cui ignora l’esistenza, o, se quando qualcuno ne parla, non capisce se si tratti di un buon libro o no, o, se dopo essersi convinto a procurarselo, fatica a trovarlo in libreria? O, peggio ancora, se dopo che l’ha comprato non capisce quello che c’è scritto?
E tuttavia esistono casi (eccezioni?) che ribaltano ogni assunto circa il presunto disinteresse del pubblico per la poesia. Alda Merini, per fare un esempio. Certo, lei ha avuto, come si dice, una «sovraesposizione mediatica» che l’ha resa nota al grande pubblico; aveva una vicenda umana (le sofferenze patite e il manicomio) che titillava sensibilità e sensi di colpa. Ma sapeva farsi capire e amare. E vendeva decine di migliaia di copie dei suoi libri (non tutti capolavori).
Eppoi c’è internet, che offre di tutto e di più. Se digitate la parola «poesia» su Google vi escono 30 milioni di pagine; su yahoo! 134 milioni. Ma se digitate la parola «poetry» nella lingua che oggi conta avrete 73 milioni di pagine su Google e 440 milioni su yahoo!. E questo sarebbe disinteresse per la poesia a livello planetario? O non piuttosto un fenomeno di massa tra i più rilevanti? Certo, se io mettessi i miei versi sul mio blog (si fa per dire, perché grazie al cielo io non ho un blog e non scrivo poesie) e nessuno mi conoscesse, quante probabilità avrei che qualcuno vi se ne imbattesse? Le stesse di un naufrago su un’isoletta spersa nell’oceano che lanciasse un messaggio in una bottiglia. Cioè praticamente nessuna. Nondimeno, e nonostante tutto, così come l’8 marzo regaliamo un rametto di mimosa dall’odore non proprio gradevole, per una volta, il 21 marzo, proviamo a donare un libro di poesia.
«Il Giornale» del 21 marzo 2010
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