Le condanne e i sacri processi
di Paolo Rodari
“La società contemporanea ritiene che la giustizia dello stato sia l’unica giustizia valida. Per questo motivo anche oggi, quando osserva i presunti abusi su minori commessi da sacerdoti, invoca la giustizia dello stato. Beninteso: è corretto che sia così. Gli uomini di chiesa devono seguire le leggi dello stato in cui vivono e a queste obbedire e probabilmente devono farlo di più delle altre persone. Ma ciò che oggi troppo spesso si dimentica è che la giustizia può essere applicata in diversi modi. Che, insomma, non esiste soltanto la giustizia dello stato. Lo sapevano bene nel medioevo quando la giustizia si esercitava in famiglia oppure nelle corporazioni. Per la chiesa cattolica esiste la giustizia divina. Questa si esercita, ad esempio, tramite la confessione oppure nei processi interni che prevedono certe pene che lo stato non può dare. Processi che tengono conto di tanti fattori come ad esempio lo scandalo che il presunto colpevole ha recato al popolo di Dio, tutte cose estranee alla giustizia degli stati. In questo senso se è vero che gli uomini di chiesa devono sottostare alle leggi vigenti nei paesi in cui abitano, è altrettanto vero che la giustizia si può applicare in tanti modi. Lo disse bene Beda il Venerabile nell’ottavo secolo con un esempio ancora oggi valido: ‘Se tutto il paese dice che una donna è adultera io, in quanto giudice, devo condannarla. Ma se in confessione questa stessa donna mi dice che è innocente io devo crederle e quindi assolverla”’.
A parlare col Foglio è don Davide Cito, docente di Diritto penale canonico alla Pontificia Università della Santa Croce. Don Cito spiega, da canonista, come la chiesa si comporta sia quando deve accertare eventuali reati di pedofilia commessi da preti, sia quando questi stessi presunti reati diventano occasione per assediare e diffamare la chiesa.
“Il rapporto tra stato e chiesa è delicato” dice. “Occorre distinguere bene i due piani. Lo dice del resto l’articolo 7 della Costituzione italiana che la chiesa e lo stato sono indipendenti e sovrani ognuno nel proprio ordine. Cosa significa questa indipendenza? Significa che la chiesa deve denunciare sempre ogni cosa allo stato? Dipende. Per lo stato italiano, ad esempio, l’obbligo della denuncia c’è soltanto in caso di delitti che attentano contro la personalità dello stato. Ciò significa che se un prete commette un abuso su un minore la chiesa non deve denunciarlo? Certamente non significa questa cosa. Ma, ad esempio, significa che se un prete in confessionale dice di aver commesso un abuso su un minore il confessore non può, pena la violazione del sigillo, denunciarlo. Può cercare di convincere il prete ad autodenunciarsi alla magistratura ordinaria, ma non spetta a lui fare altrettanto”. Dice ancora don Cito: “Occorre tenere conto poi che vi sono delitti importanti per la chiesa e non per lo stato. Ad esempio la profanazione dell’eucaristia. Per la chiesa è il delitto più grave mentre per lo stato non ha alcun valore. Ci sono invece alcuni delitti che sono rilevanti per entrambi, è il caso dei reati di pedofilia. Ma per quest’ultimo delitto già la chiesa prevede pene importanti come ad esempio la dimissione dallo stato clericale. Se poi il prete è chiamato a rispondere del proprio delitto anche davanti alla magistratura ordinaria la chiesa non si oppone, ma la sua giustizia la applica in parallelo, su un piano distinto e diverso”.
Don Cito dice un’altra cosa: “La chiesa cattolica conosce la pedofilia da tempo. Benedetto XIV nel 1741 emanò la Costituzione ‘Il sacramento della penitenza’ dove si diceva che il penitente deve denunciare il sacerdote colpevole del delitto di avere istigato a cose turpi. Il concetto venne approfondito negli anni successivi fino a Giovanni XXIII nell’istruzione ‘Crimen sollicitationis’ dove si parla esplicitamente del delitto di pedofilia, chiamato crimen pessimum. La Costituzione apostolica ‘Pastor bonus’ del 1988 riconosceva che la competenza dei delitti più gravi (tra questi gli abusi sui minori da parte di chierici) sono di competenza della Congregazione per la dottrina della fede. E nel 2001 il motu proprio ‘Sacramentorum sanctitatis tutela’ ha stabilito la procedura da utilizzare. Insomma si tratta di un iter di lunga data che conferma che la chiesa non ha mai avuto la volontà di insabbiare nulla dal momento che, essendo delitti odiosi, sono gravi offese a Dio e ai fratelli”.
A parlare col Foglio è don Davide Cito, docente di Diritto penale canonico alla Pontificia Università della Santa Croce. Don Cito spiega, da canonista, come la chiesa si comporta sia quando deve accertare eventuali reati di pedofilia commessi da preti, sia quando questi stessi presunti reati diventano occasione per assediare e diffamare la chiesa.
“Il rapporto tra stato e chiesa è delicato” dice. “Occorre distinguere bene i due piani. Lo dice del resto l’articolo 7 della Costituzione italiana che la chiesa e lo stato sono indipendenti e sovrani ognuno nel proprio ordine. Cosa significa questa indipendenza? Significa che la chiesa deve denunciare sempre ogni cosa allo stato? Dipende. Per lo stato italiano, ad esempio, l’obbligo della denuncia c’è soltanto in caso di delitti che attentano contro la personalità dello stato. Ciò significa che se un prete commette un abuso su un minore la chiesa non deve denunciarlo? Certamente non significa questa cosa. Ma, ad esempio, significa che se un prete in confessionale dice di aver commesso un abuso su un minore il confessore non può, pena la violazione del sigillo, denunciarlo. Può cercare di convincere il prete ad autodenunciarsi alla magistratura ordinaria, ma non spetta a lui fare altrettanto”. Dice ancora don Cito: “Occorre tenere conto poi che vi sono delitti importanti per la chiesa e non per lo stato. Ad esempio la profanazione dell’eucaristia. Per la chiesa è il delitto più grave mentre per lo stato non ha alcun valore. Ci sono invece alcuni delitti che sono rilevanti per entrambi, è il caso dei reati di pedofilia. Ma per quest’ultimo delitto già la chiesa prevede pene importanti come ad esempio la dimissione dallo stato clericale. Se poi il prete è chiamato a rispondere del proprio delitto anche davanti alla magistratura ordinaria la chiesa non si oppone, ma la sua giustizia la applica in parallelo, su un piano distinto e diverso”.
Don Cito dice un’altra cosa: “La chiesa cattolica conosce la pedofilia da tempo. Benedetto XIV nel 1741 emanò la Costituzione ‘Il sacramento della penitenza’ dove si diceva che il penitente deve denunciare il sacerdote colpevole del delitto di avere istigato a cose turpi. Il concetto venne approfondito negli anni successivi fino a Giovanni XXIII nell’istruzione ‘Crimen sollicitationis’ dove si parla esplicitamente del delitto di pedofilia, chiamato crimen pessimum. La Costituzione apostolica ‘Pastor bonus’ del 1988 riconosceva che la competenza dei delitti più gravi (tra questi gli abusi sui minori da parte di chierici) sono di competenza della Congregazione per la dottrina della fede. E nel 2001 il motu proprio ‘Sacramentorum sanctitatis tutela’ ha stabilito la procedura da utilizzare. Insomma si tratta di un iter di lunga data che conferma che la chiesa non ha mai avuto la volontà di insabbiare nulla dal momento che, essendo delitti odiosi, sono gravi offese a Dio e ai fratelli”.
«Il Foglio» del 25 marzo 2010
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