Ha senso raccontare le scene di erotismo in modo esplicito? No, risponde un celebre scrittore. E spiega, a partire da Flaubert e Nabokov, il fascino irresistibile del non detto
di Alessandro Piperno
Avete presente i romanzi in cui un'impudica signorina ci spiattella il catalogo delle sue copule con i maschi più disparati? Il guaio è che le autrici di questi capolavori si ritengono dotate di un eloquente spregiudicatezza (che talvolta rasenta la sboccataggine). E allora ci danno dentro con espressioni quali 'il membro pulsante', 'il fiotto del suo piacere', 'mi prese da dietro', 'lo sentii dentro'. Eccetera. Mi sono sempre chiesto se l'imbarazzo che mi suscita certa paccottiglia derivi da tanta non richiesta impudicizia. O dall'incellofanata confezione stilistica in cui questi coiti mi vengono serviti. Sia come lettore sia come scrittore non ho un rapporto sereno con il sesso. Ho sempre paura che una scena di sesso rischi di essere divertente solo per chi la scrive. Mi domando se mezzo secolo di rivoluzione sessuale non abbia trasformato il sesso da tabù etico in tabù letterario. Se ciò che a suo tempo è apparso scandaloso non sia frattanto diventato di retroguardia.
Tempo fa sull'inserto domenicale del 'New York Times' Katie Roiphe accusava le scene di sesso dell'ultimo libro di Philip Roth, L'umiliazione (Einaudi), di essere prive di ogni energia, soprattutto se paragonate a quelle scritte da Roth (e da illustri colleghi quali Norman Mailer, Saul Bellow, John Updike) alla fine degli anni '60. Ma il vero obiettivo della Roiphe erano gli scrittori della nuova generazione: Michael Chabon, Jonathan Franzen, David Foster Wallace. Tacciati di essere, a confronto dei loro predecessori, più o meno degli eunuchi puritani. Non impazzisco per certi sociologismi americani. E ritengo triviali gli appelli alla mascolinità scomparsa. Però su una cosa devo convenire con la Roiphe. L'ultimo Roth è indigeribile. Il problema non è che lui ogni tanto senta l'esigenza di raccontarci le sue scopate senili. Il guaio è che lo faccia ogni volta in un modo più sciatto e ridicolo.
Tra i libri minori di Roth, L'umiliazione è di certo il più minore di tutti. A conferma di una mia vecchia idea: malgrado quel che si dice, non è il sesso ciò per cui Roth verrà ricordato. Non è un caso che lui sia diventato lo scrittore sommo che è nel momento in cui, in Pastorale Americana, ha castrato chimicamente il suo alter ego Nathan Zuckerman. Così come non è un caso che il vertice dell'arte rothiana sia affidato alle artritiche mani di Mickey Sabbath, un personaggio a cui non restano che "pochi anni di potenza relativamente affidabile, e forse ancor meno anni di vita". Roth è un narratore della nostalgia, non del sesso. Lui, come tutti i grandi artisti, ha un talento naturale per l'evocazione di ciò che è ineluttabilmente perduto. Il rapporto sessuale tra il vecchio Sabbath e la giunonica amante Drenka Balich è reso grandioso e struggente (in modo quasi shakespeariano) dall'apparizione, a fine coito, del volteggiante fantasma della defunta mamma di Mickey.
La mia idea è questa. Una buona scena di sesso ti deve eccitare come una donna che ti sta sbottonando i calzoni. Capirete la difficoltà considerando che ormai anche una sbottonatrice in carne e ossa rischia di non ottenere l'effetto desiderato. Si tratta di una passeggiata su un filo sottile. Basta un soffio di vento per farti precipitare nell'abisso del ridicolo, dell'enfasi, della noia, della ridondanza. Può accadere che uno scrittore utilizzi il sesso per altri scopi. Quello praticato dai personaggi di Bret Easton Ellis, per esempio, è feroce, asettico, industriale. Tutto perché Ellis vuole denunciare il livello di alienazione raggiunto dai ragazzi dopo la rivoluzione sessuale. Ma, sebbene l'umorismo nero di Ellis sia spaventosamente efficace, trovo questo modo di trattare il sesso didascalico. Insomma, una scena di sesso, per eccitarti come una donna che ti sta sbottonando i calzoni, deve essere spudoratamente esplicita, o allusiva in modo funambolico. Ogni via mediana è da considerarsi inefficace. Ogni via mediana rischia di suscitare ilarità nel cosiddetto lettore avvertito. E allora, caro scrittore, dacci dentro con la brutalità, o altrimenti impara la sublime arte della sublimazione. E ricorda che quest'ultima opzione è sempre la più difficile ma anche la più soddisfacente.
"Rodolphe, con il sigaro tra i denti, aggiustava con il temperino una briglia spezzata". È con questa meravigliosa frase che Flaubert ci informa che il rapporto sessuale tra Emma Bovary e il rupestre Rodolphe si è appena concluso. Con pochi tocchi Flaubert ci offre tutto quello che c'è da sapere: la rudezza di Rodolphe (sigaro tra i denti, temperino, la groppa del cavallo che immaginiamo non meno fremente e non meno sudata di Emma). C'è l'odore del bosco. La luce incerta. Il profumo umido di funghi. Poche righe più su ci è stato detto che il sangue di Emma "circolava nella carne come un fiume di latte", ma anche che lungo tutto l'amplesso (mai nominato) Emma ha sentito un grido lontano accompagnare "come una musica le estreme vibrazioni dei suoi nervi turbati". Questo è quel che si chiama genio. Tanto Flaubert ci va giù duro con Rodolphe, tanto mantiene la sua eroina in uno stato di voluttuosa e pudica interlocuzione. La brutalità dell'amante che si specchia nel romanticismo dell'amata. Ecco la cifra del genio. Flaubert allude al sesso, ce lo fa sentire. Sta attento a non usare metafore vaghe, affidandosi a similitudini di flaubertiana concretezza: fiume di latte, vibrazioni dei nervi. Ma spostiamoci con un bel salto temporale e spaziale in un'altra campagna: quella inglese. L'inizio del secolo scorso. Stavolta tocca a un guardiacaccia (non meno zotico di Rodolphe) affrontare una signora altolocata nel buio di un fienile. Il nostro villico è un tantino impaziente: "E dovette entrare subito in lei, entrare nella pace terrestre del suo corpo tenero e arrendevole". Parola di David Herbert Lawrence. È Lady Chatterley che se la spassa per la prima volta con il suo amante. Lawrence non si permette la precisione anatomica che si consentiranno i suoi epigoni (da Miller a Houellebecq). Ma non omette niente, neppure "il fluire del seme" di lui in lei. La sua descrizione dell'amplesso appare più circostanziata di quella di Flaubert. Ma allora perché il sesso di Emma non smette di eccitarci dopo un paio di secoli e quello di Lady Chatterley con il tempo sembra essersi disinnescato? Perché il "fiume di latte" funziona così tanto meglio dello sperma?
Omissione e invenzione. Ecco il segreto. Ora provate a immaginare gli spaventosi ostacoli (morali ed estetici) cui Nabokov si trovò di fronte con la sua Lolita. Dover mettere nello stesso letto un uomo di mezza età e una dodicenne. E farlo senza che ciò risulti ingiurioso. Mettersi dalla parte dell'uomo di mezza età che stupra una bambina. Coinvolgerci nello stupro. Renderci complici del suo crimine. Spingerci a fremere del suo amore e del suo desiderio. Un esercizio stilistico degno di un genio non meno fecondo di quello di Flaubert.
Nabokov porta a estreme conseguenze la tecnica flaubertiana. Non nomina, allude. Se Flaubert risolve la cosa in poche righe Nabokov la dilata in un modo estenuante. Uno squallido hotel. Una notte afosa. È la prima volta in cui Humbert si trova solo con Lolita. Può disporre di lei a suo piacimento. E non è un bruto, ma un intellettuale pedante e spaventato. Il suo sogno è godere di lei senza farle male. Per questo la sua tecnica di seduzione risulta così incresciosamente subdola. Le dà del sonnifero. Mirabile la passeggiata nella hall dell'albergo in attesa che lei nel frattempo crolli. Tutto è sospeso in un'eccitata fantasia. L'uomo si trova a pochi passi dal piacere criminale che insegue da tutta la vita. Normale che non riesca a decidersi. Quando rientra in camera, Lolita è là, sul letto, semivestita e semi-incosciente. Proprio come Flaubert Nabokov dà conto dei rumori circostanti: i fremiti di un albergo americano. Da vecchio maiale qual è Nabokov si concentra sui suoni liquidi e triviali: gli sciacquoni delle stanze limitrofe, un ubriaco che vomita, Lolita che, nel dormiveglia, chiede un goccio d'acqua al patrigno e che, una volta accontentata, beve con gratitudine. La notte è infinita. Humbert la passa accanto alla sua Lolita senza neppure toccarla. All'arrivo dell'alba è un uomo stremato. È allora che l'affare prende la più imprevista delle pieghe. È lei, Lolita, a provarci con lui. Così Nabokov trasforma il tremebondo stupratore in un tremebondo stuprato. Ed ecco il solo commento retrospettivo offertoci da Humbert su quel primo amplesso: "Basti dire che in quella bellissima, acerba ragazzina totalmente e irrimediabilmente corrotta dalle moderne scuole miste, dai costumi giovanili, dal raggiro delle serate intorno al falò e via dicendo, io non riuscii a discernere la minima traccia di modestia". E poco più in là Humbert annota ciò che per chi come me scrive appare una lezione formidabile: "Il tema del così detto 'sesso' non mi interessa affatto. Chiunque può immaginare quegli elementi di pura animalità. Ciò che mi alletta è un'ambizione superiore: fissare una volta per tutte il periglioso sortilegio delle ninfette". Sostituite alla parola 'ninfette' qualsiasi altro vocabolo che indichi un oggetto della vostra passione sessuale, e avrete un'idea di ciò che occorre fare quando ci si trova a dover scrivere una scena di sesso.
P.S. Tempo fa parlavo con Luca Canali dell'articolo che avete appena letto. Lui (grande traduttore del Satyricon) mi ricordava come Petronio, che in quanto a trasgressione non è secondo a nessuno, non racconti mai il sesso in modo esplicito. Forse ancora oggi il migliore modo per parlare di sesso in un libro è evitare di chiamare le cose per nome. Inventando assai più efficaci pseudonimi. Ricordate 'La sventurata rispose'? La frase con cui Manzoni ci rivela che Gertrude ha ceduto alle lusinghe di Egidio. Ecco, questa è la più eccitante scena di sesso della storia della letteratura italiana. E la monaca di Monza il personaggio più arrapante. Anche se nulla ci vien detto sulla forma o sulla viscosità dei suoi genitali.
Tempo fa sull'inserto domenicale del 'New York Times' Katie Roiphe accusava le scene di sesso dell'ultimo libro di Philip Roth, L'umiliazione (Einaudi), di essere prive di ogni energia, soprattutto se paragonate a quelle scritte da Roth (e da illustri colleghi quali Norman Mailer, Saul Bellow, John Updike) alla fine degli anni '60. Ma il vero obiettivo della Roiphe erano gli scrittori della nuova generazione: Michael Chabon, Jonathan Franzen, David Foster Wallace. Tacciati di essere, a confronto dei loro predecessori, più o meno degli eunuchi puritani. Non impazzisco per certi sociologismi americani. E ritengo triviali gli appelli alla mascolinità scomparsa. Però su una cosa devo convenire con la Roiphe. L'ultimo Roth è indigeribile. Il problema non è che lui ogni tanto senta l'esigenza di raccontarci le sue scopate senili. Il guaio è che lo faccia ogni volta in un modo più sciatto e ridicolo.
Tra i libri minori di Roth, L'umiliazione è di certo il più minore di tutti. A conferma di una mia vecchia idea: malgrado quel che si dice, non è il sesso ciò per cui Roth verrà ricordato. Non è un caso che lui sia diventato lo scrittore sommo che è nel momento in cui, in Pastorale Americana, ha castrato chimicamente il suo alter ego Nathan Zuckerman. Così come non è un caso che il vertice dell'arte rothiana sia affidato alle artritiche mani di Mickey Sabbath, un personaggio a cui non restano che "pochi anni di potenza relativamente affidabile, e forse ancor meno anni di vita". Roth è un narratore della nostalgia, non del sesso. Lui, come tutti i grandi artisti, ha un talento naturale per l'evocazione di ciò che è ineluttabilmente perduto. Il rapporto sessuale tra il vecchio Sabbath e la giunonica amante Drenka Balich è reso grandioso e struggente (in modo quasi shakespeariano) dall'apparizione, a fine coito, del volteggiante fantasma della defunta mamma di Mickey.
La mia idea è questa. Una buona scena di sesso ti deve eccitare come una donna che ti sta sbottonando i calzoni. Capirete la difficoltà considerando che ormai anche una sbottonatrice in carne e ossa rischia di non ottenere l'effetto desiderato. Si tratta di una passeggiata su un filo sottile. Basta un soffio di vento per farti precipitare nell'abisso del ridicolo, dell'enfasi, della noia, della ridondanza. Può accadere che uno scrittore utilizzi il sesso per altri scopi. Quello praticato dai personaggi di Bret Easton Ellis, per esempio, è feroce, asettico, industriale. Tutto perché Ellis vuole denunciare il livello di alienazione raggiunto dai ragazzi dopo la rivoluzione sessuale. Ma, sebbene l'umorismo nero di Ellis sia spaventosamente efficace, trovo questo modo di trattare il sesso didascalico. Insomma, una scena di sesso, per eccitarti come una donna che ti sta sbottonando i calzoni, deve essere spudoratamente esplicita, o allusiva in modo funambolico. Ogni via mediana è da considerarsi inefficace. Ogni via mediana rischia di suscitare ilarità nel cosiddetto lettore avvertito. E allora, caro scrittore, dacci dentro con la brutalità, o altrimenti impara la sublime arte della sublimazione. E ricorda che quest'ultima opzione è sempre la più difficile ma anche la più soddisfacente.
"Rodolphe, con il sigaro tra i denti, aggiustava con il temperino una briglia spezzata". È con questa meravigliosa frase che Flaubert ci informa che il rapporto sessuale tra Emma Bovary e il rupestre Rodolphe si è appena concluso. Con pochi tocchi Flaubert ci offre tutto quello che c'è da sapere: la rudezza di Rodolphe (sigaro tra i denti, temperino, la groppa del cavallo che immaginiamo non meno fremente e non meno sudata di Emma). C'è l'odore del bosco. La luce incerta. Il profumo umido di funghi. Poche righe più su ci è stato detto che il sangue di Emma "circolava nella carne come un fiume di latte", ma anche che lungo tutto l'amplesso (mai nominato) Emma ha sentito un grido lontano accompagnare "come una musica le estreme vibrazioni dei suoi nervi turbati". Questo è quel che si chiama genio. Tanto Flaubert ci va giù duro con Rodolphe, tanto mantiene la sua eroina in uno stato di voluttuosa e pudica interlocuzione. La brutalità dell'amante che si specchia nel romanticismo dell'amata. Ecco la cifra del genio. Flaubert allude al sesso, ce lo fa sentire. Sta attento a non usare metafore vaghe, affidandosi a similitudini di flaubertiana concretezza: fiume di latte, vibrazioni dei nervi. Ma spostiamoci con un bel salto temporale e spaziale in un'altra campagna: quella inglese. L'inizio del secolo scorso. Stavolta tocca a un guardiacaccia (non meno zotico di Rodolphe) affrontare una signora altolocata nel buio di un fienile. Il nostro villico è un tantino impaziente: "E dovette entrare subito in lei, entrare nella pace terrestre del suo corpo tenero e arrendevole". Parola di David Herbert Lawrence. È Lady Chatterley che se la spassa per la prima volta con il suo amante. Lawrence non si permette la precisione anatomica che si consentiranno i suoi epigoni (da Miller a Houellebecq). Ma non omette niente, neppure "il fluire del seme" di lui in lei. La sua descrizione dell'amplesso appare più circostanziata di quella di Flaubert. Ma allora perché il sesso di Emma non smette di eccitarci dopo un paio di secoli e quello di Lady Chatterley con il tempo sembra essersi disinnescato? Perché il "fiume di latte" funziona così tanto meglio dello sperma?
Omissione e invenzione. Ecco il segreto. Ora provate a immaginare gli spaventosi ostacoli (morali ed estetici) cui Nabokov si trovò di fronte con la sua Lolita. Dover mettere nello stesso letto un uomo di mezza età e una dodicenne. E farlo senza che ciò risulti ingiurioso. Mettersi dalla parte dell'uomo di mezza età che stupra una bambina. Coinvolgerci nello stupro. Renderci complici del suo crimine. Spingerci a fremere del suo amore e del suo desiderio. Un esercizio stilistico degno di un genio non meno fecondo di quello di Flaubert.
Nabokov porta a estreme conseguenze la tecnica flaubertiana. Non nomina, allude. Se Flaubert risolve la cosa in poche righe Nabokov la dilata in un modo estenuante. Uno squallido hotel. Una notte afosa. È la prima volta in cui Humbert si trova solo con Lolita. Può disporre di lei a suo piacimento. E non è un bruto, ma un intellettuale pedante e spaventato. Il suo sogno è godere di lei senza farle male. Per questo la sua tecnica di seduzione risulta così incresciosamente subdola. Le dà del sonnifero. Mirabile la passeggiata nella hall dell'albergo in attesa che lei nel frattempo crolli. Tutto è sospeso in un'eccitata fantasia. L'uomo si trova a pochi passi dal piacere criminale che insegue da tutta la vita. Normale che non riesca a decidersi. Quando rientra in camera, Lolita è là, sul letto, semivestita e semi-incosciente. Proprio come Flaubert Nabokov dà conto dei rumori circostanti: i fremiti di un albergo americano. Da vecchio maiale qual è Nabokov si concentra sui suoni liquidi e triviali: gli sciacquoni delle stanze limitrofe, un ubriaco che vomita, Lolita che, nel dormiveglia, chiede un goccio d'acqua al patrigno e che, una volta accontentata, beve con gratitudine. La notte è infinita. Humbert la passa accanto alla sua Lolita senza neppure toccarla. All'arrivo dell'alba è un uomo stremato. È allora che l'affare prende la più imprevista delle pieghe. È lei, Lolita, a provarci con lui. Così Nabokov trasforma il tremebondo stupratore in un tremebondo stuprato. Ed ecco il solo commento retrospettivo offertoci da Humbert su quel primo amplesso: "Basti dire che in quella bellissima, acerba ragazzina totalmente e irrimediabilmente corrotta dalle moderne scuole miste, dai costumi giovanili, dal raggiro delle serate intorno al falò e via dicendo, io non riuscii a discernere la minima traccia di modestia". E poco più in là Humbert annota ciò che per chi come me scrive appare una lezione formidabile: "Il tema del così detto 'sesso' non mi interessa affatto. Chiunque può immaginare quegli elementi di pura animalità. Ciò che mi alletta è un'ambizione superiore: fissare una volta per tutte il periglioso sortilegio delle ninfette". Sostituite alla parola 'ninfette' qualsiasi altro vocabolo che indichi un oggetto della vostra passione sessuale, e avrete un'idea di ciò che occorre fare quando ci si trova a dover scrivere una scena di sesso.
P.S. Tempo fa parlavo con Luca Canali dell'articolo che avete appena letto. Lui (grande traduttore del Satyricon) mi ricordava come Petronio, che in quanto a trasgressione non è secondo a nessuno, non racconti mai il sesso in modo esplicito. Forse ancora oggi il migliore modo per parlare di sesso in un libro è evitare di chiamare le cose per nome. Inventando assai più efficaci pseudonimi. Ricordate 'La sventurata rispose'? La frase con cui Manzoni ci rivela che Gertrude ha ceduto alle lusinghe di Egidio. Ecco, questa è la più eccitante scena di sesso della storia della letteratura italiana. E la monaca di Monza il personaggio più arrapante. Anche se nulla ci vien detto sulla forma o sulla viscosità dei suoi genitali.
«L'Espresso» del 30 marzo 2010
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