di Carlo Lottieri
Nel dibattito contemporaneo sul rapporto fra diritto e religione, sembra quasi che l’unica alternativa possibile sia fra una laicità definita a partire dal modello francese (come progressiva espulsione di ogni fede dallo spazio pubblico) e un fondamentalismo religioso che pretende di riproporre - in forme snaturate - esperienze di carattere premoderno.
Uno dei pregi del nuovo volume di Luca Diotallevi (Una alternativa alla laicità, Rubbettino, pagg. 262, euro 14) consiste proprio nel rigettare la grossolanità con cui si affrontano le controversie sulla compatibilità fra comunità religiose e ordine giuridico. Al centro della riflessione c’è infatti la contestazione della tesi secondo la quale chi rigetta l’integralismo (quale assorbimento del politico da parte del religioso) dovrebbe per forza sposare l’idea che lo spazio pubblico sia caratterizzato da logiche del tutto «laiche». Il sociologo sottolinea come questa visione, benché dominante, conduca a esiti illiberali, dato che finisce per ridurre gli spazi d’azione dei gruppi religiosi. Diotallevi enfatizza come simili schematismi siano caratteristici di una cultura egemonizzata dallo Stato moderno, al punto che l’individuo e le sue articolazioni sociali (a partire dalla famiglia) vengono totalmente assorbiti dalla sovranità. Partendo dalla constatazione che le esperienze religiose non solo differiscono, ma possono entrare in conflitto, la risposta della modernità laica è consistita nel costruire il mito di un «potere neutro», che si collochi al di sopra di tutti, respingendo ogni pratica rituale negli spazi delle parrocchie e ogni convincimento nel privato della coscienza.
Alla laicità del modello giacobino, Diotallevi contrappone un’altra modernità: la tradizione americana della libertà religiosa e, in definitiva, del pluralismo di una società aperta, in cui il diritto tracci le regole che ogni individuo o gruppo (quale che sia la sua ispirazione) è chiamato a rispettare. Egli ricorda come nella cultura anglosassone - si pensi a John Locke, ma anche a quanti a Filadelfia, nel 1787, posero le basi di quel formidabile compromesso che fu la Costituzione americana - la nozione di tolleranza non abbia mai implicato un’amputazione dell’autonomia religiosa e un qualche «contenimento» delle comunità unite dalla fede, ma semmai abbia voluto tutelare il diritto di vivere secondo i propri convincimenti (quando essi, ovviamente, non comportano un’aggressione ad altri).
Un gran numero di questioni restano aperte, ma è comunque interessante notare come l’ordine giuridico americano sia stato pensato per far convivere comunità evangeliche, e in seguito si sia però facilmente adattato a proteggere anche i diritti di cattolici, ebrei, atei e così via. Non bisogna neppure dimenticare che quella della neutralità laica è ormai poco più che una maschera, dato che le istituzioni statali hanno ripetutamente elaborato religioni civili, teologie politiche e patriottismi costituzionali in virtù dei quali sono entrate in competizione con le chiese stesse. Come ebbe a ricordare nel 1991 il libertario Murray Rothbard, «in ogni società vi è sempre qualche sorta di religione dominante. E se ad esempio il cristianesimo viene denigrato e rigettato, qualche orrenda forma di religione ne prenderà subito il posto: sia essa il comunismo, l’occultismo New Age, il femminismo o il puritanesimo di sinistra. Non c’è modo di aggirare questa verità fondamentale della natura umana».
Per Diotallevi, allora, la crisi dei regimi laici non va letta in primo luogo come l’effetto di un vero o presunto revival religioso sulla cui entità è lecito nutrire dubbi. In realtà, quella europea (per l’America andrebbe fatto un discorso diverso) resta una società largamente secolarizzata e la crisi del rapporto tra Stato e comunità religiose è quindi tutt’uno con le difficoltà delle istituzioni moderne, che non sanno più giustificare il loro dominio e che per giunta finiscono per proibire - come succede da anni in Francia - l’ostentazione dei simboli religiosi in nome di una malintesa idea di libertà. Con esiti del tutto paradossali, che ormai iniziano a essere denunciati.
Uno dei pregi del nuovo volume di Luca Diotallevi (Una alternativa alla laicità, Rubbettino, pagg. 262, euro 14) consiste proprio nel rigettare la grossolanità con cui si affrontano le controversie sulla compatibilità fra comunità religiose e ordine giuridico. Al centro della riflessione c’è infatti la contestazione della tesi secondo la quale chi rigetta l’integralismo (quale assorbimento del politico da parte del religioso) dovrebbe per forza sposare l’idea che lo spazio pubblico sia caratterizzato da logiche del tutto «laiche». Il sociologo sottolinea come questa visione, benché dominante, conduca a esiti illiberali, dato che finisce per ridurre gli spazi d’azione dei gruppi religiosi. Diotallevi enfatizza come simili schematismi siano caratteristici di una cultura egemonizzata dallo Stato moderno, al punto che l’individuo e le sue articolazioni sociali (a partire dalla famiglia) vengono totalmente assorbiti dalla sovranità. Partendo dalla constatazione che le esperienze religiose non solo differiscono, ma possono entrare in conflitto, la risposta della modernità laica è consistita nel costruire il mito di un «potere neutro», che si collochi al di sopra di tutti, respingendo ogni pratica rituale negli spazi delle parrocchie e ogni convincimento nel privato della coscienza.
Alla laicità del modello giacobino, Diotallevi contrappone un’altra modernità: la tradizione americana della libertà religiosa e, in definitiva, del pluralismo di una società aperta, in cui il diritto tracci le regole che ogni individuo o gruppo (quale che sia la sua ispirazione) è chiamato a rispettare. Egli ricorda come nella cultura anglosassone - si pensi a John Locke, ma anche a quanti a Filadelfia, nel 1787, posero le basi di quel formidabile compromesso che fu la Costituzione americana - la nozione di tolleranza non abbia mai implicato un’amputazione dell’autonomia religiosa e un qualche «contenimento» delle comunità unite dalla fede, ma semmai abbia voluto tutelare il diritto di vivere secondo i propri convincimenti (quando essi, ovviamente, non comportano un’aggressione ad altri).
Un gran numero di questioni restano aperte, ma è comunque interessante notare come l’ordine giuridico americano sia stato pensato per far convivere comunità evangeliche, e in seguito si sia però facilmente adattato a proteggere anche i diritti di cattolici, ebrei, atei e così via. Non bisogna neppure dimenticare che quella della neutralità laica è ormai poco più che una maschera, dato che le istituzioni statali hanno ripetutamente elaborato religioni civili, teologie politiche e patriottismi costituzionali in virtù dei quali sono entrate in competizione con le chiese stesse. Come ebbe a ricordare nel 1991 il libertario Murray Rothbard, «in ogni società vi è sempre qualche sorta di religione dominante. E se ad esempio il cristianesimo viene denigrato e rigettato, qualche orrenda forma di religione ne prenderà subito il posto: sia essa il comunismo, l’occultismo New Age, il femminismo o il puritanesimo di sinistra. Non c’è modo di aggirare questa verità fondamentale della natura umana».
Per Diotallevi, allora, la crisi dei regimi laici non va letta in primo luogo come l’effetto di un vero o presunto revival religioso sulla cui entità è lecito nutrire dubbi. In realtà, quella europea (per l’America andrebbe fatto un discorso diverso) resta una società largamente secolarizzata e la crisi del rapporto tra Stato e comunità religiose è quindi tutt’uno con le difficoltà delle istituzioni moderne, che non sanno più giustificare il loro dominio e che per giunta finiscono per proibire - come succede da anni in Francia - l’ostentazione dei simboli religiosi in nome di una malintesa idea di libertà. Con esiti del tutto paradossali, che ormai iniziano a essere denunciati.
«Il Giornale» del 28 marzo 2010
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