Le possibili lezioni sul presente del film Good Night and Good Luck
di Pierluigi Battista
Rivedendo in tv un film straordinario come «Good Night and Good Luck», molti di noi, come Eugenio Scalfari che ne ha scritto ieri su Repubblica, sono rimasti ammirati dal coraggio intrepido, dalla calma dei forti, dalla determinazione combattiva del telegiornalista della Cbs che denunciò la nuova inquisizione del senatore McCarthy. Quel discorso sulla «difesa della libertà», sul richiamo ai princìpi della grande democrazia americana: che dignità, che saldezza di carattere, e che sfida ai prepotenti in quelle parole piene di fervore ma declamate dall'attore David Strathaim (che interpreta l'eroe-giornalista Edward R. Murrow) con una quieta fermezza più incisiva e pericolosa di qualunque urlo, strepito, lamentazione. Dalle parole di quell'orgoglioso dissidente che si oppose alla caccia alle streghe, ai metodi brutali, alla mortificazione di ogni diritto che sprofondò l'America dei primi anni Cinquanta nella notte del maccartismo (che venne neutralizzato e stroncato, peraltro, dall'anticomunismo democratico del presidente Eisenhower e addirittura dalla Cia) Scalfari ricava una lezione «attualizzante», la prefigurazione della battaglia che la televisione democratica sta ingaggiando ai giorni nostri contro il nuovo McCarthy. Ma in quel discorso così fiero risuonano altre parole, che sarebbe illecito ignorare. Concetti che purtroppo oggi suonano come una moneta scaduta. Un lusso, nella migliore delle ipotesi. La copertura di loschi interessi, nella peggiore e maggiormente divulgata nell'area politica di cui Eugenio Scalfari è autorevole punto di riferimento. Dice a un certo punto Murrow-Strathaim: «Dobbiamo sempre ricordare che un'accusa non è una prova e che la colpevolezza dipende da prove concrete e dall'esito di un regolare processo. Non cammineremo nel timore l'uno dell'altro. Non sprofonderemo in un'epoca di irragionevolezza se ci affideremo alla nostra storia e alla nostra dottrina». Interessante, no? «Dobbiamo sempre ricordare che un'accusa non è una prova»: ma l'America è l'America, uno Stato libero e di diritto, da noi la ricerca meticolosa delle prove è considerata un'attività superflua, se non il sabotaggio di un'inchiesta. «Un'accusa non è una prova»: che noia questo formalismo cavilloso, questo rispetto farraginoso per le garanzie dei cittadini in un Paese in cui ogni garantismo è svanito e hanno corso i proclami dei nuovi maccartisti (questi sì) secondo i quali «il sospetto è l'anticamera della prova». «La colpevolezza dipende da prove concrete e dall'esito di un regolare processo»: questo in America, ma in Italia la presunzione di innocenza, pur sancita dalla Costituzione, viene considerata una fisima. Perché poi aspettare una sentenza definitiva se il tribunale mediatico del popolo ha già emesso il suo verdetto persino nelle fasi iniziali di un'inchiesta? Un'accusa non è una prova. In Italia una frase così farebbe di Edward R. Murrow un «oggettivo» complice del nemico. Dove sono i nuovi McCarthy?
«Corriere della Sera» del 15 marzo 2010
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