16 marzo 2010

Internet la trasparenza aiuta la fiducia

di Lawrence Lessig *
Ho avuto l’onore di tenere una lezione al Parlamento italiano, all’interno di una serie di dibattiti sul futuro di Internet voluti dal presidente della Camera, Gianfranco Fini. Al Congresso degli Stati Uniti nessuno ha mai tenuto dibattiti del genere, né ricevuto la stessa attenzione. E’ stato bello vedere membri di una delle democrazie chiave in Europa impegnarsi per capire il funzionamento della più importante piattaforma per la crescita economica nel mondo.
I relatori sono stati introdotti dal presidente della Camera, che ha sottolineato l’importanza critica della Rete per i giovani e la necessità di difenderla da leggi protezionistiche irrazionali. L’Italia sta promuovendo la candidatura di Internet al Nobel per la Pace e molti parlamentari hanno firmato la petizione.
La mia lectio magistralis enfatizzava il bisogno dei governi di resistere agli opposti estremismi che stanno segnando sempre di più il dibattito sul web. I fan e gli oppositori di Internet fanno poco per capire le verità nel campo dell’avversario. Nonostante la rete abbia ispirato tanta creatività, gli artisti hanno ragione a lamentarsi che lo scambio illegale di brani li danneggia. E anche se l’esplosione di notizie gratis o quasi ci ha dato un accesso senza precedenti all’informazione di tutto il mondo, i giornalisti hanno ragione a preoccuparsi per i rischi che corre la carta stampata. E nonostante i nuovi standard di trasparenza dei governi, spinti specialmente dall’amministrazione Obama, abbiano reso disponibile a tutti una quantità e varietà di dati governativi senza precedenti, i critici hanno ragione a preoccuparsi che questa trasparenza indebolisca, anziché rafforzare, la fiducia nei governi. In ciascuno di questi contesti, dobbiamo riconoscere che Internet resterà e che dovremmo celebrarne il valore, ma bisogna trovare una via per ridurre i danni che potrebbe creare.
Alla fine del mio discorso sono rimasto sorpreso dal vice-ministro Paolo Romani che mi ha criticato perché non avevo offerto «soluzioni specifiche» al problema della regolamentazione politica. Gli americani spesso sono troppo diretti ed io nel tentativo di compensare sono stato troppo evasivo. Ma in ogni area critiche che ho toccato, ho descritto specifiche raccomandazioni per le regole politiche che ogni governo democratico dovrebbe adottare.
1) Il copyright. I governi devono riconoscere che la guerra che facciamo contro i nostri figli per fermare lo scambio illegale di file non si può vincere e che bisogna trovare un modo perché gli artisti siano compensati senza criminalizzare una generazione.
2) Il giornalismo. Servono maggiori protezioni per i giornalisti indipendenti, per assicurare un controllo significativo sull’operato del governo e dei poteri forti.
3) La fiducia. I governi devono essere sensibili ai tipi di conflitti che indeboliscono la fiducia nella democrazia.
Ognuna di queste tre aree è direttamente rilevante per il caso del cosiddetto «decreto Romani», che equipara i siti video come YouTube alle aziende televisive. Io ho criticato questo approccio, e alla luce delle tre aree di regole politiche che avevo delineato, non è difficile capire come mai. Rispetto al copyright, il decreto equipara per meglio proteggere gli autori. Ma non c’è equivalenza rilevante tra una trasmissione da uno a tanti curata da una singola azienda, rispetto a una piattaforma da tanti a tanti, che rende disponibili per chiunque i contenuti non selezionati che sono stati caricati sul Web. Costringere entrambe le tipologie di piattaforme a vivere sotto le stesse regole significa costringere tutti gli YouTube del mondo ad adottare regole che bloccano un mondo di contenuti creati in modo amatoriale che non può permettersi i costi delle liberatorie che si possono permettere i proprietari di contenuti professionali. Un «trattamento uguale» significa favorire l’attuale sistema televisivo.
Lo stesso vale per la difesa dell’idea secondo cui piattaforme come YouTube dovrebbero avere responsabilità equivalenti per linguaggi offensivi o che danneggiano, come l’orribile video dei teenager che insultano un adolescente con disabilità mentali. Così come non esiste un algoritmo per filtrare il porno su YouTube, così non ne esiste uno per bloccare le offese. Il porno su YouTube è proibito, ma la sua eliminazione si basa sull’autoregolamentazione degli utenti, che lo recensiscono. E non c’è nessun informatico al mondo che crede di avere inventato un algoritmo per distinguere automaticamente tra gli insulti vergognosi di un manipolo di bulli a un disabile e l’interazione giocosa tra ragazzi. Per cui, ancora una volta, una regola che tratta questi diversi servizi come «uguali» è semplicemente una regola che favorisce la televisione rispetto a Internet.
Questo vale anche per la mia preoccupazione sul giornalismo: servizi come YouTube sono diventati uno strumento critico per i giornalisti investigativi. Diversamente dalle trasmissioni tv, che una volta trasmesse scompaiono, i servizi alla YouTube non dimenticano mai. Quello che un politico dice una settimana può essere confrontato con quello che dirà la prossima. Infine, la fiducia. Come ho detto, più capiamo che cosa fa un governo, più è facile che ci siano anche incomprensioni.
Il sostegno che il presidente della Camera Fini ha dato ai principi veri di Internet e la leadership dell’Italia nella campagna per portare la Commissione Nobel a riconoscere questo «strumento di costruzione di massa» è un modello che il resto del mondo dovrebbe seguire. Ma sfortunatamente, il conflitto dei media del 20° secolo che appesantiscono quelli del 21° è un sistema già troppo seguito dal mondo. E l’effetto infanga il messaggio di buona politica.

* Professore di legge a Harvard, direttore dell’Edmond J. Safra Foundation Center for Ethics
«La Stampa» del 16 marzo 2010

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