Gli scritti controcorrente dei due politici dimostrano che l’istruzione pubblica è ideologica. Ma abolire il valore legale del titolo di studio è ancora un tabù
di Carlo Lottieri
Sotto vari punti di vista, quella della scuola è davvero una questione cruciale, in ragione del degrado della qualità del sistema educativo (a ogni livello) e delle conseguenze che ne derivano alla società nel suo insieme. Con ogni probabilità le radici più profonde del declino in atto sono di carattere generale, e quindi non riconducibili in senso stretto al mondo dell’istruzione, ma è pur vero che il modo in cui scuole e università sono organizzate non aiuta a fronteggiare l’emergenza di nuove generazioni sempre meno preparate e motivate.
Per questo è da apprezzarsi la pubblicazione, a cura di Giancristiano Desiderio, di un volume (La libertà della scuola, edito da Liberilibri e in vendita a 16 euro) che riunisce alcuni scritti controcorrente di due eminenti liberali italiani del secolo scorso, Luigi Einaudi e Salvatore Valitutti. Benché abbiano occupato posizioni istituzionali importanti (Einaudi fu il primo presidente dell’Italia repubblicana, mentre Valitutti divenne ministro dell’Istruzione), entrambi hanno interpretato posizioni minoritarie, ed è anche a causa della marginalizzazione delle loro idee che il sistema scolastico si trova oggi in una situazione tanto drammatica.
Gli scritti ruotano attorno all’esigenza di dare più libertà all’istruzione: abolendo il valore legale del titolo di studio. La nota proposta di Einaudi emerge qui in tutta la sua forza, perché è evidente come al fondo della certificazione statale dei diplomi vi sia quel processo di sclerosi della società che è caratteristico del ventesimo secolo. La questione del valore legale s’impone in un mondo che vede lo Stato dilatare la propria presenza nell’economia e in cui un numero crescente di lavoratori passa nel settore pubblico. È la logica dei concorsi di Stato (e di ordini professionali di carattere corporativo) che porta alla costruzione di una produzione nazionale di titoli cartacei da appendere in studio. Per Valitutti, al contrario, la scuola nasce dalla società e serve la società: non è insomma un «affare di Stato», o quanto meno non dovrebbe esserlo.
I due autori evidenziano come lo statalismo uccida la libertà di educazione. Il valore legale del titolo di studio comporta programmi ministeriali e quindi implica il controllo politico sulla formazione dei giovani. Qualcuno, a Roma, stabilisce cosa deve essere insegnato e studiato. Come rileva Desiderio nell’Introduzione, «l’espressione “religione di Stato” ci fa inorridire, mentre la definizione “scuola di Stato” ci appare naturale». L’accostamento è corretto, dato che la statizzazione del sistema educativo fu un passo fondamentale del Kulturkampf condotto dallo Stato moderno contro le culture religiose tradizionali: il che significa, nel contesto italiano, contro il cattolicesimo.
Nei testi si sottolinea anche come l’abrogazione del valore legale favorirebbe, insieme alla libertà di pensiero, una maggiore competizione sul piano della qualità. Senza diplomi riconosciuti dallo Stato, ogni scuola dovrebbe contare solo sulla propria immagine: e quindi fare il possibile per acquisire una credibilità di mercato. Quanto già avviene per le professioni più esposte alla concorrenza (per quanti si occupano di ricerca del personale, una laurea in Cattolica o alla Bocconi non equivale a una laurea ottenuta in un’università minore) si estenderebbe in ogni direzione.
Anche se la questione del finanziamento degli istituti non è al centro del volume, è chiaro che Einaudi e Valitutti vedono proprio nella questione del superamento del valore legale la premessa a un maggiore pluralismo, che permetta una convivenza tra istituti statali e privati. Strumenti come il credito d’imposta o il buono-scuola potrebbero opportunamente intervenire, a quel punto, affinché possano «sbocciare mille fiori» e le logiche della competizione portino beneficio anche in tale ambito.
È però curioso come perfino i pensatori più liberali, quando si parla di scuola, raramente se la sentano di riconoscere quella che in altri ambiti è un’ovvietà: e cioè che lo Stato non dovrebbe assolutamente intervenire. Mentre molti ricordano con orrore il periodo in cui esisteva un panettone di Stato, meno inquietante - quando invece dovrebbe essere vero l’opposto - appare l’idea di un’educazione di Stato, e quindi di uno Stato educatore. Le stesse giustificazioni portate a sostegno della statizzazione ottocentesca dell’istruzione appaiono contraddittorie con le tesi professate in materia di libertà d’insegnamento, tanto più che allora si usò la forza per togliere i minori dal controllo familiare al fine di farne buoni cittadini, fedeli soldati e, infine, contribuenti rassegnati.
C’è poi un’evidente continuità tra la costruzione post-risorgimentale del sistema educativo e il lavaggio del cervello praticato dai regimi totalitari. È la retorica del libro Cuore di De Amicis che prepara i disastri novecenteschi e soltanto la costruzione di un’educazione libera, autofinanziata, alternativa al settore pubblico e totalmente sganciata dal potere potrebbe offrire la speranza d’invertire la tendenza in atto. Forse è solo riflettendo su tali questioni che oggi è possibile restare fedeli alle buone ragioni di Einaudi e Valitutti.
Per questo è da apprezzarsi la pubblicazione, a cura di Giancristiano Desiderio, di un volume (La libertà della scuola, edito da Liberilibri e in vendita a 16 euro) che riunisce alcuni scritti controcorrente di due eminenti liberali italiani del secolo scorso, Luigi Einaudi e Salvatore Valitutti. Benché abbiano occupato posizioni istituzionali importanti (Einaudi fu il primo presidente dell’Italia repubblicana, mentre Valitutti divenne ministro dell’Istruzione), entrambi hanno interpretato posizioni minoritarie, ed è anche a causa della marginalizzazione delle loro idee che il sistema scolastico si trova oggi in una situazione tanto drammatica.
Gli scritti ruotano attorno all’esigenza di dare più libertà all’istruzione: abolendo il valore legale del titolo di studio. La nota proposta di Einaudi emerge qui in tutta la sua forza, perché è evidente come al fondo della certificazione statale dei diplomi vi sia quel processo di sclerosi della società che è caratteristico del ventesimo secolo. La questione del valore legale s’impone in un mondo che vede lo Stato dilatare la propria presenza nell’economia e in cui un numero crescente di lavoratori passa nel settore pubblico. È la logica dei concorsi di Stato (e di ordini professionali di carattere corporativo) che porta alla costruzione di una produzione nazionale di titoli cartacei da appendere in studio. Per Valitutti, al contrario, la scuola nasce dalla società e serve la società: non è insomma un «affare di Stato», o quanto meno non dovrebbe esserlo.
I due autori evidenziano come lo statalismo uccida la libertà di educazione. Il valore legale del titolo di studio comporta programmi ministeriali e quindi implica il controllo politico sulla formazione dei giovani. Qualcuno, a Roma, stabilisce cosa deve essere insegnato e studiato. Come rileva Desiderio nell’Introduzione, «l’espressione “religione di Stato” ci fa inorridire, mentre la definizione “scuola di Stato” ci appare naturale». L’accostamento è corretto, dato che la statizzazione del sistema educativo fu un passo fondamentale del Kulturkampf condotto dallo Stato moderno contro le culture religiose tradizionali: il che significa, nel contesto italiano, contro il cattolicesimo.
Nei testi si sottolinea anche come l’abrogazione del valore legale favorirebbe, insieme alla libertà di pensiero, una maggiore competizione sul piano della qualità. Senza diplomi riconosciuti dallo Stato, ogni scuola dovrebbe contare solo sulla propria immagine: e quindi fare il possibile per acquisire una credibilità di mercato. Quanto già avviene per le professioni più esposte alla concorrenza (per quanti si occupano di ricerca del personale, una laurea in Cattolica o alla Bocconi non equivale a una laurea ottenuta in un’università minore) si estenderebbe in ogni direzione.
Anche se la questione del finanziamento degli istituti non è al centro del volume, è chiaro che Einaudi e Valitutti vedono proprio nella questione del superamento del valore legale la premessa a un maggiore pluralismo, che permetta una convivenza tra istituti statali e privati. Strumenti come il credito d’imposta o il buono-scuola potrebbero opportunamente intervenire, a quel punto, affinché possano «sbocciare mille fiori» e le logiche della competizione portino beneficio anche in tale ambito.
È però curioso come perfino i pensatori più liberali, quando si parla di scuola, raramente se la sentano di riconoscere quella che in altri ambiti è un’ovvietà: e cioè che lo Stato non dovrebbe assolutamente intervenire. Mentre molti ricordano con orrore il periodo in cui esisteva un panettone di Stato, meno inquietante - quando invece dovrebbe essere vero l’opposto - appare l’idea di un’educazione di Stato, e quindi di uno Stato educatore. Le stesse giustificazioni portate a sostegno della statizzazione ottocentesca dell’istruzione appaiono contraddittorie con le tesi professate in materia di libertà d’insegnamento, tanto più che allora si usò la forza per togliere i minori dal controllo familiare al fine di farne buoni cittadini, fedeli soldati e, infine, contribuenti rassegnati.
C’è poi un’evidente continuità tra la costruzione post-risorgimentale del sistema educativo e il lavaggio del cervello praticato dai regimi totalitari. È la retorica del libro Cuore di De Amicis che prepara i disastri novecenteschi e soltanto la costruzione di un’educazione libera, autofinanziata, alternativa al settore pubblico e totalmente sganciata dal potere potrebbe offrire la speranza d’invertire la tendenza in atto. Forse è solo riflettendo su tali questioni che oggi è possibile restare fedeli alle buone ragioni di Einaudi e Valitutti.
«Il Giornale» del 30 marzo 2010
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