Un convegno sulla crisi di multiculturalismo e globalizzazione
di Maurizio Stefanini
“Si tratta di Kant contro Aristotele. Io ovviamente sto dalla parte di Kant, pur comprendendo tutte le ragioni di Aristotele. Ma il problema è che ormai è diventato uno pseudo-Kant, un diritto senza più etica, contro uno pseudo-Aristotele, un’etica senza più verità”. Così la crisi di multiculturalismo e globalizzazione è stata inquadrata in termini al tempo stesso profondamente filosofici ma anche rapidamente giornalistici da Marcello Pera, nel dibattito che ha fatto da conclusione ai due giorni di convegno che la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università della Santa Croce ha dedicato al tema “Natura, cultura, libertà”.
L’obiettivo dei vari interventi erano stato il dimostrare che “la dimensione culturale dell’esistenza umana, storicamente caratterizzata, non implica un assoluto relativismo dei valori, giacchè è possibile riscontrare alcune costanti antropologiche nelle diverse culture”. Un complesso tema culturale, che il dibattito finale su “Multuculturalismo e globalizzazione: due modelli in crisi?” ha calato anche nella polemica politica più viva. In particolare Stefano Semplici, professore straordinario di Etica sociale a Tor Vegata, ha ricordato l’origine della connessione tra relativismo e globalizzazione fin nell’antichità, con il greco Erodoto che va in giro a scoprire la diversità dei costumi dei popoli, e riferisce di quell’etnia indiana che mangia i propri morti, e si scandalizza all’idea che qualcuno li possa bruciare come facevano gli elleni.
Come però ha ricordato Stefano Zamagni, l’economista grande esperto di no profit e tra i principali consulenti di Benedetto XVI per la stesura del testo dell’Enciclica “Caritas in veritate”, la globalizzazione moderna ha una data di inizio ben precisa: quel vertice di Rambouillet del novembre 1975 in cui l’allora G6 decise di iniziare la liberalizzazione dei movimenti dei capitali e delle persone. Un’impostazione economicista, che ha però finito per considerare la stessa globalizzazione come mera magnificazione del processo di internazionalizzazione dell’economia. Ma i 220 milioni di emigranti oggi esistenti, la quinta nazione del pianeta, hanno determinato quel problema che da Huntington alla “laicité de combat francese” alcuni hanno cercato di affrontare in chiave anti-religiosa, mentre altri hanno invece ragionato in chiave di politica dell’identità. Un pensiero neo-comunitario che chiede per i gruppi il tipo di riconoscimento che le democrazie liberali hanno dato tradizionalmente solo agli individui.
Pierpaolo Donati, grande teorico della sociologia relazionale, ha a sua vlta ricordato che anche il multiculturalismo ha una sua data di inizio, che corrisponde al tipo di politica elaborata dal Canada a partire dal 1970 per venire incontro alle richieste del Quebec. E' dunque antecedente al vertice di Rambouillet, ma si è poi variamente intersecata con quel neo-localismo che è stata la grande risposta di protesta a una globalizzazione ridotta troppo spesso a mera finanziarizzazione dell’economia. Da qui, appunto, le osservazioni di Marcello Pera. Da una parte, la globalizzazione come erede delle idee di Kant della confederazione mondiale. Salvo che, appunto, Kant basava la sua idea su un principio universale di etica che invece è stato quasi del tutto abbandonato, in nome del relativismo imperante. Dall’altro, il neocomunitarismo come erede dell’idea di Aristotele dell’uomo come animale politico, l’essere che esiste solo in quanto membro di una comunità. Ma, a sua volta, senza quella ricerca della verità che pure era una cifra essenziale del pensiero aristitelico, e collegato invece a un’etica a sua volta comunitarizzata.
Complesse le terapie proposte, che Zamagni ha fatto virare sulla costruzione di un nuovo modello di “economia fraterna”, mentre Donati ha parlato di una nuova razionalità che recuperi la socialità. “Le relazioni hanno delle ragioni che gli individui non posseggono”. Ma tormando alla problematica politica più spicciola, Semplici e Pera hanno convenuto sulla constatazione che “Kant avrebbe votato certe leggi sull’immigrazione recentemente approvate”: nei suoi scritti aveva infatti ben distinto il “diritto di visita”, che spetta a ogni essere umano, dal “diritto di insediamento”, che invece non può sussistere contro la volontà di chi già abita un territorio. Il che però, ha chiuso Semplici, riguarda una prospettiva di politica pragmatica, che è diversa dal disagio che il cristiano deve sempre avvertire, di fronte a chi fugge dalla miseria.
L’obiettivo dei vari interventi erano stato il dimostrare che “la dimensione culturale dell’esistenza umana, storicamente caratterizzata, non implica un assoluto relativismo dei valori, giacchè è possibile riscontrare alcune costanti antropologiche nelle diverse culture”. Un complesso tema culturale, che il dibattito finale su “Multuculturalismo e globalizzazione: due modelli in crisi?” ha calato anche nella polemica politica più viva. In particolare Stefano Semplici, professore straordinario di Etica sociale a Tor Vegata, ha ricordato l’origine della connessione tra relativismo e globalizzazione fin nell’antichità, con il greco Erodoto che va in giro a scoprire la diversità dei costumi dei popoli, e riferisce di quell’etnia indiana che mangia i propri morti, e si scandalizza all’idea che qualcuno li possa bruciare come facevano gli elleni.
Come però ha ricordato Stefano Zamagni, l’economista grande esperto di no profit e tra i principali consulenti di Benedetto XVI per la stesura del testo dell’Enciclica “Caritas in veritate”, la globalizzazione moderna ha una data di inizio ben precisa: quel vertice di Rambouillet del novembre 1975 in cui l’allora G6 decise di iniziare la liberalizzazione dei movimenti dei capitali e delle persone. Un’impostazione economicista, che ha però finito per considerare la stessa globalizzazione come mera magnificazione del processo di internazionalizzazione dell’economia. Ma i 220 milioni di emigranti oggi esistenti, la quinta nazione del pianeta, hanno determinato quel problema che da Huntington alla “laicité de combat francese” alcuni hanno cercato di affrontare in chiave anti-religiosa, mentre altri hanno invece ragionato in chiave di politica dell’identità. Un pensiero neo-comunitario che chiede per i gruppi il tipo di riconoscimento che le democrazie liberali hanno dato tradizionalmente solo agli individui.
Pierpaolo Donati, grande teorico della sociologia relazionale, ha a sua vlta ricordato che anche il multiculturalismo ha una sua data di inizio, che corrisponde al tipo di politica elaborata dal Canada a partire dal 1970 per venire incontro alle richieste del Quebec. E' dunque antecedente al vertice di Rambouillet, ma si è poi variamente intersecata con quel neo-localismo che è stata la grande risposta di protesta a una globalizzazione ridotta troppo spesso a mera finanziarizzazione dell’economia. Da qui, appunto, le osservazioni di Marcello Pera. Da una parte, la globalizzazione come erede delle idee di Kant della confederazione mondiale. Salvo che, appunto, Kant basava la sua idea su un principio universale di etica che invece è stato quasi del tutto abbandonato, in nome del relativismo imperante. Dall’altro, il neocomunitarismo come erede dell’idea di Aristotele dell’uomo come animale politico, l’essere che esiste solo in quanto membro di una comunità. Ma, a sua volta, senza quella ricerca della verità che pure era una cifra essenziale del pensiero aristitelico, e collegato invece a un’etica a sua volta comunitarizzata.
Complesse le terapie proposte, che Zamagni ha fatto virare sulla costruzione di un nuovo modello di “economia fraterna”, mentre Donati ha parlato di una nuova razionalità che recuperi la socialità. “Le relazioni hanno delle ragioni che gli individui non posseggono”. Ma tormando alla problematica politica più spicciola, Semplici e Pera hanno convenuto sulla constatazione che “Kant avrebbe votato certe leggi sull’immigrazione recentemente approvate”: nei suoi scritti aveva infatti ben distinto il “diritto di visita”, che spetta a ogni essere umano, dal “diritto di insediamento”, che invece non può sussistere contro la volontà di chi già abita un territorio. Il che però, ha chiuso Semplici, riguarda una prospettiva di politica pragmatica, che è diversa dal disagio che il cristiano deve sempre avvertire, di fronte a chi fugge dalla miseria.
«Il Foglio» del 25 febbraio 2010
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