Come nasce l'ispirazione? Le confessioni dei grandi del Novecento
di Paolo Di Stefano
L'antologia della Paris Review, appena uscita da Fandango, è uno zibaldone di racconti, poesie, saggi e interviste ai grandi scrittori della seconda metà del Novecento. Ci sono tutti, o quasi, da Kerouac a Jonathan Lethem, da Ezra Pound a McInerney, divisi per grandi temi: follia, sesso, amore, guerra, Dio, morte, viaggi, eccetera. Molti testi si conoscono già, moltissimi invece non erano facilmente reperibili. I più interessanti sono quelli che si soffermano sull'arte di scrivere, argomento affrontato anche la settimana scorsa al festival di Roma, «Libri come». La Paris Review è stata, per mezzo secolo, dal 1953, una delle riviste letterarie più importanti. Riviste che oggi mancano, sostituite dalla confusione di Internet, dove è complicato capire quali siano i siti autorevoli e quali le bufale. Sull'arte della scrittura e sull'ispirazione ci sono, nell'antologia, osservazioni fulminanti che potrebbero servire ai milioni di aspiranti scrittori che ambiscono alla pubblicazione senza se e senza ma. «Ci metto molto a iniziare - diceva Calvino - se ho l'idea per un romanzo, trovo ogni scusa possibile per non lavorarci». Ma «una volta iniziato, so essere molto veloce». A Hemingway, spesso, le cose venivano più facili, al punto che una sera, dopo aver buttato giù tre racconti senza nessun problema, seduto sul letto sbevazzando il suo Valdepeñas si chiese che razza di scrittore fosse se le parole gli venivano bene al primo colpo. Faulkner sostiene che lo scrittore non conosce ostacoli (onore, orgoglio, decenza, sicurezza, felicità) e pur di portare a termine quel che ha in testa non esiterebbe a derubare sua madre. Per Henry Miller l'ispirazione nasce lontano dalla macchina per scrivere, lontano dalla scrivania: «Direi che succede tutto negli attimi di calma, di silenzio, mentre cammini o ti radi o giochi a qualcosa, persino mentre parli con qualcuno che non ti suscita grande interesse. Lavori tutto il tempo, la tua mente lavora, a quel problema nel retro del tuo cervello». Così, quando lo scrittore si mette seduto, è solo una faccenda di trascrizione. Vargas Llosa rivela che si mette a scrivere spinto da uno stato molto nebuloso, come «di allerta, di vigilanza» e solo dopo, durante il lavoro, arriva l'illuminazione: da quel momento diventa una specie di «cannibale della realtà». Ian McEwan dice che «la gioia è nella sorpresa» anche scoprendo soltanto un'accoppiata felice di nome e aggettivo. García Márquez racconta che una notte un compagno di college gli passò i racconti di Kafka e che quando, tornato alla pensione in cui alloggiava, aprì il libro, la prima riga della Metamorfosi lo fece quasi cadere dal letto e fu così che cominciò a scrivere. Naipaul ricorda che da giovane voleva diventare molto famoso come scrittore, ma non aveva nessuna idea di cosa scrivere. Sembrerebbe questa, oggi, la condizione più diffusa dei tanti che vorrebbero trovare un editore ancor prima di aver messo insieme un incipit.
«Corriere della Sera» del 30 marzo 2010
Nessun commento:
Posta un commento