17 marzo 2010

Questioni di censura

Internet, diritti e libertà
di Ethan Zuckerman
Il recente intervento del segretario di Stato Hillary Clinton sulla libertà di internet ha segnalato un forte interesse del Dipartimento di Stato Usa nell’utilizzo di internet per promuovere le riforme politiche in società chiuse. Ha senso che guardi ai progetti sistemi per eludere la censura su internet. Il New York Times segnala che un gruppo di senatori chiede al Segretario di utilizzare i fondi esistenti a sostegno dello sviluppo dei programmi per eludere la censura, tra cui Tor, Psiphon e Freegate.
Ho passato buona parte degli ultimi due anni studiando i sistemi di elusione su internet. Con i colleghi Hall Roberts e John Palfrey ho eseguito uno studio che mette a confronto i punti di forza e di debolezza dei diversi strumenti. Gran parte dello sforzo è finalizzato al coordinamento tra gli sviluppatori di questi tools e chi ha bisogno di questi strumenti per pubblicare contenuti sensibili.
Sono del tutto convinto che abbiamo bisogno di strumenti anticensura solidi, anonimi e di facile utilizzo. Ma credo anche che abbiamo bisogno di molto di più di semplici strumenti per eludere la censura e temo che i tecnologi e i finanziatori si concentrino solo su questo aspetto della libertà su internet a scapito degli altri. Mi chiedo se stiamo studiando abbastanza le limitazioni fondamentali dei sistemi di elusione e se ci stiamo chiedendo cosa speriamo che la libertà sul web possa fare per gli utenti in società non democratiche.

A questo proposito lancio una provocazione: Non possiamo eludere la nostra strada attorno alla censura di internet.

Non voglio dire che i sistemi di elusione non funzionano. Abbiamo provato diversi sistemi in nazioni dove funziona la censura e abbiamo scoperto che la maggior parte riesce a recuperare materiali bloccati dal firewall cinese e da sistemi simili. C’è qualche problema legato alla privacy, alla dispersione di dati, alla resa di alcuni tipi di contenuti e soprattutto con l’usabilità e la performance, ma i sistemi riescono a eludere la censura. Ma quello che voglio dire è che non possiamo permetterci di utilizzare gli strumenti esistenti per “liberare” tutti gli utenti internet cinesi anche se tutti volessero essere liberati.

I sistemi di raggiro della censura hanno uno stesso modello operativo: agiscono come proxy per permettere il recupero di contenuti bloccati. Un utente viene bloccato nell’accesso a un sito dal suo Isp o dall’Isp di quell’Isp. Se vuole leggere una pagina di Human Rights Watch, non riesce a visualizzarla perché l’indirizzo Ip di quella pagine è su una “black list”. Così indirizza il suo browser verso un altro indirizzo Ip per ottenere dal server di Hrw quella pagina. Così, se quell’indirizzo non è bloccato, riesce a ricevere la pagina via proxy. Nell’operazione il proxy funziona come un service provider. La sua capacità di fornire un servizio adeguato ai suoi utenti è legato all’ampiezza di banda, sia in fase di accesso al sito che di scaricamento dei contenuti. E la banda larga costa.

Alcuni sistemi hanno cercato di ridurre questi costi cercando di condividerli tra alcuni volontari – Psiphon nella sua forma originaria utilizzava computer di alcuni volontari in tutto il mondo come proxy e utilizzava la loro banda al consumo per accedere a internet. In molti paesi, però, le connessioni sono ottimizzate per lo scaricamento di contenuti ma sono molto più lenti quando si tratta di upload are contenuti. Psiphon non è più concentrata nell’utilizzare proxy ospitati da volontari. Tor sì, ma i nodi di Tor sono speso ospitati su server di università e società che hanno ampia disposizione di banda. Ma la disponibilità di banda rimane uno dei maggiori vincoli all’uso di Tor. Gli strumenti più usati attualmente – tool Vpn come Relakks e Witopia – caricano sugli utenti somme significative annualmente per le spese legate alla banda larga.

Ipotizziamo che sistemi come Tor, Psiphone Freegate ricevano finanziamenti aggiuntivi dal Dipartimento di Stato. Quanto costerebbe fornire accesso via proxy per la Cina, per esempio. In Cina ci sono 384 milioni di utenti, il che significa avere un Isp in grado di gestire più di 25 volte gli utenti del più grosso Isp Usa. La Cina consuma Mbps di banda larga. Non è facile stimare quanto gli Isp paghino per la banda larga, anche se i prezzi convenzionali sono tra 0,05 e 0,10 dollari per gigabyte. Sulla base di un prezzo di 5 centesimi, il costo per portare internet in Cina sarebbe di 13,6 milioni al mese, 163,3 milioni l’anno solo per la banda larga, senza contare i costi dei proxy server, dei router, dei system administrator. Rispetto a queste cifre, i 45 milioni che i senatori Usa chiedono alla Clinton sembrano irrisori.

C’è un’altra complicazione: non stiamo parlando solo di gestire un Isp, ma di gestire un Isp di cui con ogni probabilità verrà fatto un cattivo uso. Gente che fa spamming, truffatori e altri criminali su internet usano proxy server per condurre le loro attività in modo da proteggere la loro attività. Wikipedia si riserva il diritto di bloccare utenti che usino proxy per editare le voci, dopo che molti utenti utilizzavano i proxy per aggirarne le regole. Gli operatori proxy devno quindi trovare un punto di equilibrio: perché i proxy sian utili, le persone devono saperli usare per accedere a siti come Wikipedia o YouTube, ma se li usano per abusare dei siti, i proxy vengono bloccati.

Sono scettico sul fato che il Dipartimento di Stato possa o voglia di finanziare o attivare un Isp che possa essere utilizzato da milioni di utenti simultaneamente, molti dei quali per fare frodi o mandare spam. Le persone che finanziano proxy non sanno cosa questi possono fare in questo senso: invece pensano che i proxy siano usati solo in specifiche circostanze, per accedere a contenuti bloccati. Questo è il problema. Uno stato come la Cina blocca molti contenuti: cinque dei dieci siti più popolaro nel mondo sono bloccati in Cina. Tra questi YouTUbe e Facebook, che occupano molta banda a livello di pesantezza dei download che di lunghezza delle sessioni. Gli operatori proxy hanno affrontato questo tipo di questioni quando hanno mezzo dei limiti all’utilizzo dei loro strumenti: alcuni bloccano YouTube o contenuti pornografici, altro limitano l’uso da parte di alcune persone. Nel decidere chi o che cosa bloccare gli operatori danno la loro risposta a una questione complessa: Che parti di internet vogliamo aprire alle persone che vivono in società autoritarie?

Non è una questione semplice. Immaginiamo di riuscire a fare traffico tramite proxy verso paesi come Cina, Iran o Myanmar, e di riuscire a mantenere questi proxy accessibili e liberi (non è semplice). Abbiamo ancora dei problemi. La gran parte del traffico è domestico. In Cina stimiamo che il 95% del traffico è interno al paese. E la censura agisce soprattutto a livello domestico. In Cina i contenuti user generated vengono censurati con modalità complesse e decentrate. Quindi una gran parte di materiali controversi non viene pubblicato sia perché viene bloccato, sia perché gli autori temono che venga bloccato o cancellato l’account del loro blog. SE gli autori cinesi avessero per esempio accesso a Blogger, potrebbero pubblicare lì.

Nel promuovere la libertà su internet dobbiamo valutare strategie per contrastare la censura nelle società chiuse. Dobbiamo quindi affrontare anche la “censura soft”, l’utilizzo degli spazi pubblici da parte dei regimi autoritari che sponsorizzano blogger filo-governativi e spargono commenti favorevoli (Evgeny Morozov ci offre una visione molto cupa sull’uso autoritario dei social media in “How dictators watch us on the web”.

Dobbiamo anche affrontare la crescente minaccia alla conversazione online. Quando la Turchia blocca YouTube per evitare che cittadini turchi vedano video che diffamano Ataturk, non fa vedere quel contenuto a 20 milioni di navigatori turchi. Quando qualcuno lancia un denial of service distribuito (DDoS) nei confronti di Irrawaddy (giornale online molto critico nei confronti del governo di Myanmar), ne proibiscono la lettura a tutti. I sistemi di elusioni possono permettere ai tirchi di superare il blocco su YouTube, ma non aiutano americani o birmani nel vedere Irrawaddy di fronte a un DDoS o a un attacco di hacker. Gli editori di contenuti controversi stanno realizzando che non solo devono affrontare censure mediante sistemi nazionali di filtro, ma anche mediante una serie di attacchi tecnici e legali mirati a rendere inaccessibili i loro server. Ci sono diversi metodi con cui gli editori possono aumentare la resistenza dei loro siti agli attacchi DDoS o ai filtri. Per evitare il blocco in Turchia, YouTube può aumentare il numero degli indirizzi Ip che consudono al server; può mantenere una mailing list per fornire agli utenti gli indirizzi Ip non bloccati con cui poter accedere a YouTube oppure creare un’applicazione che, una volta scaricata, fornisce indirizzi Ip non bloccati agli utenti di YouTube. Sono tutti sistemi utilizzati dai siti spesso bloccati in stati autoritari. Ma YouTube non adotta queste misure per almeno due motivi. In primo luogo ha sempre cercato di trattare con le nazioni che filtrano internet piuttosto che contrapporsi combattendo i filtri, anche se adesso la politica potrebbe cambiare dopo che Google ha annunciato la sua intenzione di non voler collaborare con la censura in Cina. In secondo luogo YouTube non ha alcun incentivo economico a essere sbloccata in Turchia. Addirittura il blocco in Turchia potrebbe rappresentare un vantaggio economico. I siti fondati su contenuti user generated si reggono sulla pubblicità. E gli utenti pubblicitari sono più interessati agli utenti Usa (che hanno carte di credito, maggiore disponibilità e maggior facilità a spendere online) che non agli utenti in Cina o Turchia. Alcuni sospetti che l’introduzione di versioni leggere di servizi come Facebook sia diretta agli utenti nei paesi in via di sviluppo, che difficilmente creano reddito. Sul piano economico potrebbe quindi essere difficile convincere questi servizi a continuare a essere presenti in paesi autoritari, dove già hanno difficoltà nel vendere pubblicità.

Sintetizzando:

- L’elusione di internet è difficile e costosa. Potrebbe rendere più facile per le persone mandare spam e rubare identità.

- Il raggiro della censura mediante proxy dà semplicemente accesso ai contenuti internazionali, non si rivolge alla censura interna.

- L’elusione della censura non offre una difesa nei confronti di DDos o altri attacchi contro editori.

Per capire come promuovere la libertà su internet, dovremmo iniziare a riflettere su come pensiamo che internet possa cambiare le società chiuse. E sul motivo per cui riteniamo che essa debba essere una priorità per gli Usa o la diplomazia mondiale. Io credo che il lavoro sulla censura sia motivata dalla convinzione che la capacità di condividere informazioni sia un diritto umano di base. L’art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani stabilisce che “tutti hanno il diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”. L’internet è il sistema più efficace inventato finora dall’uomo per cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee, e quindi dobbiamo garantire che tutti abbiano libero accesso a internet.

Se crediamo che l’accesso a internet possa cambiare le società chiuse in un modo particolare, possiamo stabilire un ordine di priorità per i diversi aspetti di internet. La nostra teoria del cambiamento ci aiuta a capire a cosa dobbiamo garantire l’accesso. Le teorie elencate di seguito raramente sono dichiarate pubblicamente, ma credo che esse sottendano molto del lavoro dietro alla lotta alla censura

La teoria dell’informazione soppressa. Se riusciamo a fornire l’informazione negata alle persone dai regimi autoritari, queste si solleveranno e sfideranno i regimi. Potremmo chiamarla la “teoria di Ungheria ‘56”: allora le notizie di rivolte contro i governi comunisti nel mondo, diffuse in Unghera da Radio Free Europe, hanno spinto gli ungheresi a sollevarsi contro il regime. Io di solito la definisco come “teoria della Corea del Nord” perchè credo che la Corea del Nord potrebbe essere un luogo dove l’informazione potrebbe portare alla rivoluzione. Ma la stessa Corea del Nord è meno isolata dal punto di vista informativo di quanto possiamo ritenere. E’ possibile quindi che l’informazione sia una condizione necessaria, ma non sufficiente, per la rivoluzione politica. E’ anche possibile che noi sopravvalutiamo il potere dell’informazione negata, soprattutto perché è estremamente difficile bloccare l’informazione in un epoca di connessione.

La teoria della rivoluzione di Twitter. Se i cittadini di paesi chiusi possono utilizzare i potenti strumenti di comunicazione resi disponibile da internet, potranno unirsi e rovesciare i loro oppressori. E’ la teoria che ha indotto il Dipartimento di Stato a chiedere a Twitter di rinviare un blocco programmato durante le proteste seguite alle elezioni iraniane. Anche se è improbabile che le tecnologie di connessione possano portare alla caduta del regime iraniano, esistono anche esempi di segno contrario, come il ruolo avuto dai telefonini nella rivolta contro il presidente strada nelle Filippine. C’è molto entusiasmo attorno a questa teoria, ma le analisi più attente ne segnalano i limiti. I canali di comunicazione aperti online tendono a essere compromessi velocemente, a essere utilizzati per la disinformazione e per il controllo degli attivisti. E quando la situazione sfugge di mano, i regimi non esitano a staccare la spina dei network.

La teoria della sfera pubblica. La comunicazione potrebbe non portare immediatamente alla rivoluzione, ma forniscono un nuovo spazio dove una nuova generazione di leader può pensare e parlare liberamente. Sul lungo periodo la capacità di creare una nuova sfera pubblica, parallela a quella controllata dallo stato, darà vigore a una nuova generazione di attori sociali. Marco Lynch ha indicato come esempio il ruolo dei samizdat, media clandestini dell’ex Unione Sovietica, che sono stati probabilmente più importanti come spazio di libera espressione che non come canali di diffusione di informazioni.

Dalla teoria accettata dipendono le scelte politiche. Se riteniamo che sia critica la diffusione dell’informazione – che sia all’opinione pubblica o a piccoli gruppi influenti – concentreremo i nostri sforzi su sistemi come Voice of America o Radio Free Europe. Si tratta di un approccio molto efficiente, ma sfortunatamente abbiamo un lungo track record che dimostra che questa forma di lotta alla censura non apre magicamente i regimi chiusi, suggerendo che questa strategia potrebbe rivelarsi povera.

Se adottiamo la teoria della rivoluzione di Twitter, dobbiamo focalizzarci sui sistemi che consentono comunicazioni rapide all’interno di network fidati. Il che significa strumenti come Twitter o Facebook, ma probabilmente anche tools come LiveJournal e Yahoo!Groups che fondano il loro servizio sull’esclusività, permettendo a piccoli gruppi di organizzarsi al di fuori del controllo delle autorità. Se invece puntiamo sull’approccio della sfera pubblica, puntiamo sulle tecnologie che permettono la comunicazione e il dibattito pubblico – blog, Twitter, YouTube e virtualmente tutto ciò che va sotto l’etichetta di Web 2.0.

Cosa significa tutto questo in relazione a come il Dipartimento di Stato dovrebbe allocare i propri investimenti per promuovere la libertà su internet? Ecco alcune implicazioni delle questioni coinvolte:

- Dobbiamo continuare a sostenere gli sforzi per superare le censure, almeno nel breve termine. Ma dobbiamo liberarci dell’idea che possiamo “risolvere” la censura con l’elusione. Dobbiamo proseguire in attesa di trovare migliori soluzioni tecniche e politiche, non perché possiamo abbattere il Grande Firewall spendendo di più.

- Se vogliamo che più gente usi strumenti per aggirare la censura, dobbiamo trovare il modo per renderli sostenibili economicamente. Deve essere una parte di una strategia complessiva e dobbiamo sviluppare strategie che siano sostenibili e che siano in grado di fornire accesso a costo basso o nullo agli utenti in paesi chiusi.

- Allo stesso tempo dobbiamo sciogliere il nodo dell’uso di questi strumenti per mandare spam, organizzare truffe e rubare dati. Dobbiamo trovare una soluzione che protegga le reti contro gli abusi pur mantenendo la possibilità dell’anonimità, con un equilibrio difficile da trovare.

- Dobbiamo spostare i nostri sforzi dal semplice permettere agli utenti sotto regimi autoritari di accedere a contenuti bloccati all’aiutare gli editori a raggiungere il pubblico. Nel fare questo possiamo guadagnare questi editori come alleati ma anche inaugurare una nuova classe di soluzioni tecniche.

- Se il nostro obiettivo è permettere alle persone in società chiuse di accedere alla sfera pubblica online o di utilizzare strumenti online per organizzare proteste, dobbiamo coinvolgere nella conversazione anche gli amministratori di questi strumenti. Il segretario Clinton sostiene che dovremmo fare della libera conversazione una parte dell’identità americana. Dobbiamo risolvere il fatto che rendere le piattaforme internet resistenti ai blocchi ha un costo per i gestori e che attualmente questi non hanno alcun ritorno economico per fornire servizi a questi utenti.

- Il governo Usa dovrebbe trattare i filtri internet – così come gli attacchi DDoS o di hacker aggio – alla stregua di barriere al commercio. Gli Stati Uniti dovrebbero fare forti pressioni perché paesi aperti come Francia o Australia resistano alle tentazioni di restringere l’accesso a internet, dal momento che il loro comportamento aiuta Cina e Iran a sostenere che la loro censura è in linea con le regole internazionali. E dobbiamo fissare dei vincoli rigidi del Tesoro Usa per rendere difficile che società come Microsoft o progetti come SourceForge operino in paesi chiusi. Se crediamo nella libertà di internet, un primo passo è quello di ripensare queste politiche in modo da non colpire i normali utenti di internet.

Il rischio nel dare retta alle richieste del Segretario Clinton è che noi aumentiamo la nostra velocità, marciando però nella direzione contraria. Adottando l’obiettivo della libertà su internet, è giunto il momento di chiederci quali obiettivi vogliamo raggiungere e di mettere a punto di conseguenza la nostra strategia.
«Il Sole 24 Ore (suppl. Nòva)» del 10 marzo 2010

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