Breviario di frasi fatte da applicarsi a scrittori noti e ignoti Così gli esperti assegnano il bollino qualità. Senza faticare. Moresco, Busi, Arbasino e perfino Beckett. Basta dire: "Meglio il primo libro"
di Massimiliano Parente
Come mai i critici, in Italia non appena uno scrittore comincia a avere un’opera importante, cercano di riportarlo nell’ovile della mediocrità, oppure smettono di leggerlo per ridurlo al silenzio? Moresco? Era meglio quando scriveva romanzi brevissimi, tipo La cipolla. Busi? I primi due erano belli, anzi: «un genio, ma il più bello è il primo, Seminario». Parente? Meglio il tuo breve saggio su Proust che i monumentali La macinatrice o Contronatura, furba tecnica dell’elogiarti sul meno per denigrare il più.
Va di moda farlo anche con i grandissimi ormai canonizzati: Beckett? Meglio Primo amore de L’innominabile o dell’ultimo Beckett, troppo estremo, troppo silenzioso, troppo nichilista, troppo Beckett, che palle. Bernhard? Meglio il primo Bernhard dell’ultimo, troppo bernhardiano. Arbasino? Meglio Le piccole vacanze che Fratelli d’Italia, e di Fratelli d’Italia meglio il primo, mai letto, del terzo, pubblicato da Adelphi, troppo lungo, troppo riscritto, chi si crede di essere, Manzoni? Pasolini? Il più bello è Petrolio, il romanzo incompiuto. Proust? Non va più di moda, meglio Piperno, il quale ha scoperto il gusto di piacere al pubblico sovrano e anche che Hermann Broch o Bernhard sono autori da adolescenti. Ovviamente, come raccontato ieri sul Giornale da Luigi Mascheroni, la gogna tocca anche a Isabella Santacroce, che ha scritto un romanzo bellissimo, densissimo, immaginifico, delicato e affilato, un fuoco di artificio di fantasia e poesia, una storia semplice che sprofonda in alto, nel cosmo, sulle nuvole, nel Mondo del Mistero, una Alice moderna nata calva, «orfanella spauracchio» in una città troppo perfetta, che parla della bellezza della mostruosità, una divina commedia moderna, spietata e delicata, una trilogia che inizia con V.M. 18, continua con Lulù e terminerà in un purgatorio santacrociano dalle già annunciate mille pagine. Tuttavia intorno a Lulù non c’è sociologia spicciola, non c’è impegno, non c’è Berlusconi, non si parla di mafia, di immigrati, di camorra, non c’è piccineria narrativa, i critici non sanno come prenderla, dovranno mica leggerlo per scriverne? Insomma, come si permette questa Santacroce di essere così ambiziosa, di non riscrivere mai lo stesso libro declinato al trapassato remoto femminile come la Vinci, la Parrella, la Mazzucco, la Cutrufelli, la Ammaniti o, tra i politici narratrici, la Franceschini o la generosamente rinunciataria Veltroni? Come si permette la Santacroce di essere una scrittrice vera in un paese di timbratori di cartellini editoriali, di critici che fanno gli scrittori o scrivono librini sui critici per dire quanto sono bravi loro, ora che il romanzo è morto?
Cosa volete che gliene freghi, alla casta nauseabonda dei letterati italiani, di Lulù Delacroix (Rizzoli) romanzo luminoso e tenebroso che si legge come un classico e per delicatezza e profondità e stimolo etico e estetico si potrebbe introdurre anche nelle scuole? Nemmeno uscito e subito frettolosamente stroncato da Barilli su Tuttolibri come un libro noioso che «fa il verso a Carroll» (non è vero, è perfino più bello di Carroll e casomai, per orizzonti e profondità, è meravigliosamente swiftiano, e fanculo alla prudenza sui viventi che può infrangere a sproposito solo D’Orrico, e se è per questo Mann faceva il verso a Goethe o Caravaggio a Michelangelo?). Lo stesso Barilli, fra l’altro, che ha stroncato Canti del caos di Moresco prendendolo come «un ottovolante del sesso» e paragonandolo a Benni (sic), lo stesso Barilli amico della domenica del Guglielmi (e entrambi teorici del Gruppo 63, teorici delle non-opere) che ha stroncato Busi con il giudizio ormai memorabile «un grande scrittore che scrive brutti libri» (che significa? migliorò la formula con Moresco, il cui capolavoro divenne «un libro illeggibile»), mentre elogiava, come grandi scrittori («facitori d’arte»), un giorno, lo stesso giorno, su Tuttolibri il romanzo di Nico Orengo, direttore di Tuttolibri, e sull’Unità il romanzo di Furio Colombo, direttore dell’Unità, perché i critici sanno usare la lingua meglio degli scrittori. Come ancora, di recente, l’elogio di Filippo La Porta, «critico letterario», sul Corriere della Sera, al «puntuto» saggio di Pierluigi Battista, uno a caso e che, con tutti i suoi meriti, con la letteratura poco c’entra.
Amico della domenica anche Emanuele Trevi, giurato e candidato al Premio Strega dalla stessa Rizzoli, editore che in compenso alla Santacroce non ci pensa proprio: al limite, se non Trevi, va bene Silvia Avallone, va bene Silvia Ballestra, perché ormai gli editori partono con l’idea di portare allo Strega un libro da Strega, una merdina narrativa da confezionare per farne una merendina vendibile, dopo essersi messi più o meno d’accordo sul turn-over editoriale da rispettare. La Lulù di Isabella è perfino troppo divertente e donchisciottesca, tragica e comica come i grandi romanzi. Di Lulù, che potrebbe diventare il più bel cartone della Pixar o il più bel film di Tim Burton, vorrei scrivere di più ma vorrei che la leggeste e conosceste le terribili gemelle Ada e Dolores, Dorino Griù, il Melampadario, Pipistro, la Scarazebra Esclamativa e tanti altri, e l’incantevole lingua naive infantile parlata dalla piccola Lulù (che esordisce con un: «IO NO U MOSTLO»), come scrivere usando l’Alfabeto della Negazione, e gli Austeriani alti quaranta centimetri da almeno settecentotré anni, e il Leonebano matematico, e Cipò e i Papaveri Vendicatori «che una volta gli mangiassero anche il naso, e poi dopo facevano degli strilli».
Vorrei che la Rizzoli le mettesse una fascetta di qualità: «Non candidato neppure da noi al Premio Strega perché troppo bello». Perché la società letteraria italiana è come la Perfect City in cui vive l’animale bambina Lulù, dove «era proibito parlare ad alta voce dopo le ore venti virgola sette, ascoltare musica prima delle ore dieci virgola cinque, svegliarsi dopo le ore otto virgola trenta», dove «le donne non potevano tagliarsi i capelli più corti di diciassette centimetri, mentre gli uomini dovevano portarli non più lunghi di otto, era vietato indossare abiti dalle tinte sgargianti, cappelli adornati da nastri, scarpe di gomma, foulard variopinti, spinte raffiguranti cetacei...». Lulù è il mostro, la bambina reietta, segregata in casa dalla famiglia Delacroix a causa della sua diversità, lontana dal mondo e isolata nel suo lavoro, metafora della diversità e anche della vera letteratura, metafora dell’isolamento di Isabella dal triste Circolo Pickwick in versione fantozziana dei letterati italiani. Quindi tenetela lontano, meglio premiare la bambina veltroniana del romanzo di Emanuele Trevi o preferibile avallare l’Avallone, si stia lontani dal capolavoro della Santacroce, un oceano di dolcezza e di non rassegnazione senza essere banalmente edificante, almeno non si deve discettare se sia meglio il primo Trevi o il secondo, essendoci solo il primo si fa presto sia a non leggerlo che a leggerlo dimenticandosene. Io scappo con Lulù, l’animale Lulù, la bambina dei lampi, voi fate come credete.
Va di moda farlo anche con i grandissimi ormai canonizzati: Beckett? Meglio Primo amore de L’innominabile o dell’ultimo Beckett, troppo estremo, troppo silenzioso, troppo nichilista, troppo Beckett, che palle. Bernhard? Meglio il primo Bernhard dell’ultimo, troppo bernhardiano. Arbasino? Meglio Le piccole vacanze che Fratelli d’Italia, e di Fratelli d’Italia meglio il primo, mai letto, del terzo, pubblicato da Adelphi, troppo lungo, troppo riscritto, chi si crede di essere, Manzoni? Pasolini? Il più bello è Petrolio, il romanzo incompiuto. Proust? Non va più di moda, meglio Piperno, il quale ha scoperto il gusto di piacere al pubblico sovrano e anche che Hermann Broch o Bernhard sono autori da adolescenti. Ovviamente, come raccontato ieri sul Giornale da Luigi Mascheroni, la gogna tocca anche a Isabella Santacroce, che ha scritto un romanzo bellissimo, densissimo, immaginifico, delicato e affilato, un fuoco di artificio di fantasia e poesia, una storia semplice che sprofonda in alto, nel cosmo, sulle nuvole, nel Mondo del Mistero, una Alice moderna nata calva, «orfanella spauracchio» in una città troppo perfetta, che parla della bellezza della mostruosità, una divina commedia moderna, spietata e delicata, una trilogia che inizia con V.M. 18, continua con Lulù e terminerà in un purgatorio santacrociano dalle già annunciate mille pagine. Tuttavia intorno a Lulù non c’è sociologia spicciola, non c’è impegno, non c’è Berlusconi, non si parla di mafia, di immigrati, di camorra, non c’è piccineria narrativa, i critici non sanno come prenderla, dovranno mica leggerlo per scriverne? Insomma, come si permette questa Santacroce di essere così ambiziosa, di non riscrivere mai lo stesso libro declinato al trapassato remoto femminile come la Vinci, la Parrella, la Mazzucco, la Cutrufelli, la Ammaniti o, tra i politici narratrici, la Franceschini o la generosamente rinunciataria Veltroni? Come si permette la Santacroce di essere una scrittrice vera in un paese di timbratori di cartellini editoriali, di critici che fanno gli scrittori o scrivono librini sui critici per dire quanto sono bravi loro, ora che il romanzo è morto?
Cosa volete che gliene freghi, alla casta nauseabonda dei letterati italiani, di Lulù Delacroix (Rizzoli) romanzo luminoso e tenebroso che si legge come un classico e per delicatezza e profondità e stimolo etico e estetico si potrebbe introdurre anche nelle scuole? Nemmeno uscito e subito frettolosamente stroncato da Barilli su Tuttolibri come un libro noioso che «fa il verso a Carroll» (non è vero, è perfino più bello di Carroll e casomai, per orizzonti e profondità, è meravigliosamente swiftiano, e fanculo alla prudenza sui viventi che può infrangere a sproposito solo D’Orrico, e se è per questo Mann faceva il verso a Goethe o Caravaggio a Michelangelo?). Lo stesso Barilli, fra l’altro, che ha stroncato Canti del caos di Moresco prendendolo come «un ottovolante del sesso» e paragonandolo a Benni (sic), lo stesso Barilli amico della domenica del Guglielmi (e entrambi teorici del Gruppo 63, teorici delle non-opere) che ha stroncato Busi con il giudizio ormai memorabile «un grande scrittore che scrive brutti libri» (che significa? migliorò la formula con Moresco, il cui capolavoro divenne «un libro illeggibile»), mentre elogiava, come grandi scrittori («facitori d’arte»), un giorno, lo stesso giorno, su Tuttolibri il romanzo di Nico Orengo, direttore di Tuttolibri, e sull’Unità il romanzo di Furio Colombo, direttore dell’Unità, perché i critici sanno usare la lingua meglio degli scrittori. Come ancora, di recente, l’elogio di Filippo La Porta, «critico letterario», sul Corriere della Sera, al «puntuto» saggio di Pierluigi Battista, uno a caso e che, con tutti i suoi meriti, con la letteratura poco c’entra.
Amico della domenica anche Emanuele Trevi, giurato e candidato al Premio Strega dalla stessa Rizzoli, editore che in compenso alla Santacroce non ci pensa proprio: al limite, se non Trevi, va bene Silvia Avallone, va bene Silvia Ballestra, perché ormai gli editori partono con l’idea di portare allo Strega un libro da Strega, una merdina narrativa da confezionare per farne una merendina vendibile, dopo essersi messi più o meno d’accordo sul turn-over editoriale da rispettare. La Lulù di Isabella è perfino troppo divertente e donchisciottesca, tragica e comica come i grandi romanzi. Di Lulù, che potrebbe diventare il più bel cartone della Pixar o il più bel film di Tim Burton, vorrei scrivere di più ma vorrei che la leggeste e conosceste le terribili gemelle Ada e Dolores, Dorino Griù, il Melampadario, Pipistro, la Scarazebra Esclamativa e tanti altri, e l’incantevole lingua naive infantile parlata dalla piccola Lulù (che esordisce con un: «IO NO U MOSTLO»), come scrivere usando l’Alfabeto della Negazione, e gli Austeriani alti quaranta centimetri da almeno settecentotré anni, e il Leonebano matematico, e Cipò e i Papaveri Vendicatori «che una volta gli mangiassero anche il naso, e poi dopo facevano degli strilli».
Vorrei che la Rizzoli le mettesse una fascetta di qualità: «Non candidato neppure da noi al Premio Strega perché troppo bello». Perché la società letteraria italiana è come la Perfect City in cui vive l’animale bambina Lulù, dove «era proibito parlare ad alta voce dopo le ore venti virgola sette, ascoltare musica prima delle ore dieci virgola cinque, svegliarsi dopo le ore otto virgola trenta», dove «le donne non potevano tagliarsi i capelli più corti di diciassette centimetri, mentre gli uomini dovevano portarli non più lunghi di otto, era vietato indossare abiti dalle tinte sgargianti, cappelli adornati da nastri, scarpe di gomma, foulard variopinti, spinte raffiguranti cetacei...». Lulù è il mostro, la bambina reietta, segregata in casa dalla famiglia Delacroix a causa della sua diversità, lontana dal mondo e isolata nel suo lavoro, metafora della diversità e anche della vera letteratura, metafora dell’isolamento di Isabella dal triste Circolo Pickwick in versione fantozziana dei letterati italiani. Quindi tenetela lontano, meglio premiare la bambina veltroniana del romanzo di Emanuele Trevi o preferibile avallare l’Avallone, si stia lontani dal capolavoro della Santacroce, un oceano di dolcezza e di non rassegnazione senza essere banalmente edificante, almeno non si deve discettare se sia meglio il primo Trevi o il secondo, essendoci solo il primo si fa presto sia a non leggerlo che a leggerlo dimenticandosene. Io scappo con Lulù, l’animale Lulù, la bambina dei lampi, voi fate come credete.
«Il Giornale» del 31 marzo 2010
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