Battaglia culturale per la vita
di Paola Ricci Sindoni
La presentazione del Rapporto sull’aborto in Europa, elaborato dall’Istituto per le politiche familiari e presentato ieri a Bruxelles, piuttosto che assomigliare a un rigoroso resoconto statistico sulla popolazione continentale sembra un bollettino di guerra, l’impietosa fotografia di un massacro silenzioso. Alcuni dati per capire: in Europa nel 2008 si è consumata la morte di 2,9 milioni di bambini non nati, uno ogni 11 secondi, 327 ogni ora, 7.468 al giorno. Negli ultimi 15 anni solo nell’Europa comunitaria la cifra è di 20 milioni di bambini che non hanno visto la luce, e l’Italia, insieme alla Gran Bretagna, la Francia e la Romania fa parte del gruppo di testa di questa impressionante carneficina. L’aborto ha così ormai perso l’immagine di una pratica eccezionale e dolorosa, compiuta per motivi gravi di salute della madre o del piccolo, per diventare in pochi decenni un metodo di controllo delle nascite, entrando nel costume sociale e nel sentire comune come una pratica 'normale' che ha progressivamente condotto la coscienza collettiva a non considerarlo un 'reato' contro la vita, quanto piuttosto come un 'diritto' da parte della donna di autogestire la propria sessualità. La successiva mistificante evoluzione linguistica, avviata nella Conferenza del Cairo su Popolazione e sviluppo, nel settembre 1994, che ha declinato l’aborto con il concetto di 'diritto alla salute riproduttiva', ha spalancato le porte alle legislazioni nazionali e internazionali, convinte ormai con l’ultima arrivata – la Spagna – che in pieno clima interculturale si debba favorire la convivenza di un sano pluralismo etico. Non si avverte però l’abissale differenza che separa la semplice accettazione di idee e di comportamenti diversi con l’ammissione devastante che compromette il diritto di esistere di altre persone. Non si tratta infatti di manifestare opinioni culturali, prive di incidenze sociali, o di scelte etiche che coinvolgono la singolarità della coscienza personale, ma di opzioni che coinvolgono altri, come bambini non fatti nascere e che invece circostanze favorevoli avevano condotto alle soglie dell’esistenza. Certo è che gli appelli generici non bastano più. Va al contrario avviata una rivoluzione culturale che trovi un necessario supporto con decise politiche di garanzia e di sostegno per il figlio e la madre. Lo ha capito bene l’Istituto estensore del Rapporto che alla fine della sua analisi sul desolante sviluppo zero della demografia europea indica alcune interessanti proposte, come quella di promuovere il diritto alla vita tramite la richiesta alla politica di condizioni sociali favorevoli, volte a supportare gli aiuti alla gravidanza intesa come bene sociale. Interessante anche l’idea di monitorare la curva demografica all’interno dei singoli Paesi della Ue al fine di sostenere politiche comunitarie che risveglino la cultura dell’accoglienza e favoriscano la percezione sociale che la vita, prima ancora della libertà, è un diritto inalienabile che non può essere soffocato. Oltre che potenziare centri di aiuto e di ascolto, si reclamano anche politiche finanziarie che, ad esempio riducano le spese dei prodotti per la prima infanzia, e che sostengano – tramite bonus – la preparazione nei nove mesi dell’attesa di quei supporti necessari per l’arrivo del bambino.
Piccoli segni, si dirà, ma indispensabili perché alla cultura dell’individualismo autocentrato e chiuso al futuro possa sostituirsi uno sguardo più aperto al domani, che vogliamo sia ospitale e promettente per quanti – si spera tanti – verranno dopo di noi.
Piccoli segni, si dirà, ma indispensabili perché alla cultura dell’individualismo autocentrato e chiuso al futuro possa sostituirsi uno sguardo più aperto al domani, che vogliamo sia ospitale e promettente per quanti – si spera tanti – verranno dopo di noi.
«Avvenire» del 3 marzo 2010
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