03 marzo 2010

Il pensiero libero fa tremare il regime Teheran come la Mosca di Breznev

L'arresto del regista Jafar Panahi: gli intellettuali fanno paura
di luigi Geninazzi
Non sappiamo se diventerà il Sacharov iraniano. Ma è certo che l’arresto di Jafar Panahi, il regista di Teheran insignito di vari premi internazionali e fiero oppositore di Ahmadinejad, ci riporta ai metodi usati in Unione Sovietica. Con un tocco peggiorativo. Quando Andrei Sacharov fu confinato a Gorki insieme con la moglie Elena Bonner, il Kgb risparmiò le stesse misure coercitive a parenti e amici dello scienziato. L’altra sera invece i servizi di sicurezza iraniani hanno prelevato in blocco il cineasta Jafar Panahi, i suoi familiari ed altre quindici persone che si trovavano con lui, trasferendo tutti in una località sconosciuta.
A differenza di tanti che hanno scelto l’esilio, Panahi è rimasto a Teheran partecipando alle proteste di giugno contro i brogli elettorali, il che gli è valso dapprima il carcere e poi il divieto di recarsi all’estero. E ora l’arresto per un 'delitto politico', la realizzazione di un documentario sull’Onda verde, il movimento anti­governativo che da otto mesi scuote il Paese degli ayatollah. È un ulteriore giro di vite contro artisti, giornalisti, docenti universitari, in una parola contro gli intellettuali che nell’Iran di Ahmadinejad stanno assumendo lo stesso ruolo giocato dai dissidenti nell’Urss di Breznev. Rappresentano la punta avanzata dell’opposizione a un potere totalitario, dando voce alla società civile in rivolta. Qualcosa di più rispetto al dissenso sovietico, circoscritto al mondo del samizdat, l’editoria clandestina. Per molti aspetti l’Onda verde degli iraniani assomiglia ai movimenti sorti dal basso nei Paesi dell’Est Europa durante gli anni Ottanta, anche se per ora non può contare su un’organizzazione solida e ramificata come fu Solidarnosc in Polonia. Il desiderio di cambiamento ha contagiato non solo gli intellettuali ma vasti ceti dell’Iran, dagli studenti ai mercanti dei bazar, dai giovani alle donne.
Il regime ha risposto a quest’imponente movimento usando il pugno di ferro e instaurando il terrore: i Guardiani della Rivoluzione s’accaniscono contro gli oppositori, migliaia di dimostranti sono finiti in carcere e si moltiplicano le condanne a morte (402 esecuzioni capitali nel corso del 2009, secondo quanto riferisce l’ultimo rapporto di Iran Human Rights).
Il governo di Teheran si comporta come «una dittatura militare», ha denunciato il segretario di Stato americano Hillary Clinton. Il fanatismo ultra-conservatore dei mullah e la violenza brutale dei pasdaran hanno prodotto un cocktail micidiale che rischia di far esplodere l’Iran, un Paese sospeso tra paura e coraggio, tra repressione e rivolta, sullo sfondo della minaccia nucleare che preoccupa la comunità internazionale.
La discussione su nuove sanzioni contro Teheran va avanti da mesi senza alcun risultato, tra le ambiguità della Russia e i dinieghi della Cina. Vale perciò la pena di ripeterlo: per l’Occidente è giunto, forse, il momento di dare priorità non ai progetti atomici degli ayatollah ma alla resistenza della società civile iraniana. Alla cricca di Ahmadinejad ha dato più fastidio il World Press Photo assegnato all’immagine di alcune donne che gridano dolore e rabbia sui tetti di Teheran che non le accuse sul nucleare. Invece che puntare sul dialogo con il potere, ripiegato sulla sua arroganza, occorre manifestare solidarietà al vasto movimento d’opposizione, denunciando con intransigenza le violazioni dei diritti umani e sostenendo in tutti i modi i «nuovi dissidenti» dell’Iran. Come accadde nell’Europa dell’Est c’è da augurarsi che riusciranno, presto o tardi, ad averla vinta. Dipende anche da noi, da tutti coloro che si ritroveranno a fianco.
«Avvenire» del 3 marzo 2010

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