19 gennaio 2011

Martone e il Risorgimento

di Fulvio Paloscia
«Noi credevamo», il nuovo film di Mario Martone, racconta il passato per capire il presente. «E viceversa», aggiunge il regista di Morte di un matematico napoletano e L'amore molesto. La storia di Domenico, Angelo e Salvatore, tre ragazzi del Cilento che si affiliano alla Giovine Italia e le cui vite verranno segnate tragicamente dalla missione di cospiratori e rivoluzionari in un'Italia risorgimentale attraversata da conflitti, da personaggi ambigui (voltagabbana compresi) e da una ribellione strisciante che tanto somiglia al terrorismo, è uno specchio tutt'altro che opaco dell'oggi. Per questo, fa discutere. Domani, anteprima all'Odeon alla presenza del regista e degli attori (alle 19 incontro con il pubblico) e del cast che vede la partecipazione, tra gli altri, di Luigi Lo Cascio, Luca Zingaretti nei panni di Crispi, Toni Servillo in quelli di Mazzini, Francesca Inaudi, Luca Barbareschi, Valerio Binasco. Ne abbiamo parlato con Martone.
«NOI credevamo» racconta un Risorgimento sanguinoso.
«E' un film nato da alcuni quesiti. Cosa c'è all'origine di un'Italia oggi così inquieta e sofferente? La retorica polverosa che da sempre accompagna i nostri padri fondatori, rendendoli sepolcri imbiancati che non ci parlano più, ci ha forse spinti a rimuovere aspetti più cupi e poco concilianti di quel momento storico, come si fa con l'infanzia? Penso proprio di sì, e il Risorgimento messo in scena da me e da Giancarlo De Cataldo, che cofirma la sceneggiatura, è quello rimosso dai libri. Di scuola e non. Cioè, è una guerra. Durissima. Aspra, cruenta, contrappone patrioti e oppressori, ma anche frange diverse degli stessi patrioti. Combattuta in un'Italia divisa, proprio come quella di oggi».

L'idea di raccontare la storia di lotta di tre giovaniè un messaggio rivolto ad un presente che lamenta un cambio generazionale in politica?
«Io, a differenza di molti, non penso che i giovani di oggi non siano animati da passioni e urgenze, a differenza dei protagonisti del mio film. Insomma, un ragazzo che ha amato Kurt Cobain è in grado di capire la temperatura emotiva di suoi coetanei che, due secoli fa, lottavano per un ideale fino alla morte».
A Venezia Noi credevamo ha fatto discutere, come spesso accade con film italiani che vanno a toccare i nervi scoperti della Storia. Vedi Vincere di Bellocchio.
«E' ciò a cui vai incontro quando scoperchi quell'ambiguità per cui un certo periodo storico - vedi il fascismo - non si è chiuso del tutto ma persiste ancora oggi, toccando aspetti profondi del nostro Paese. Questa paura di mettere mano alla Storia è molto pericolosa. Autorizza i revisionismi».
Nel suo caso, fa scandalo un ritratto «poco edificante» di Mazzini, visto secondo una prospettiva «estrema» di lotta.
«Gli affiliati alla Giovine Italia s'immolavano per la causa, come i kamikaze. Combattevano una guerra clandestina: qualcosa di non troppo diverso dal terrorismo di oggi. Dopo l'11 settembre, riflettendo sul rapporto tra terrorismo e lotta per l'identità nazionale, mi sono chiesto com'è possibile che il nostro Paese, che ha così a lungo combattuto per la sua indipendenza, non abbia conosciuto un fenomeno ribelle di questo taglio. La risposta sta proprio in Mazzini, che dalla polizia di tutta Europa era considerato uno stratega del terrore. Certo, la sua profonda fede contrapposta alla prospettiva di morte per un ideale lo rende un mistico ai nostri occhi. Ma era un uomo in guerra che doveva compiere scelte estreme. Non capisco perché avrei dovuto tacerle: in Francia, quando si fanno film storici, non si glissa sulle teste tagliate. Il loro Stato si è definito anche attraverso la ghigliottina».
E' per questo che in Italia di film sul Risorgimento se ne sono girati pochi?
«Sì. Gli americani hanno fatto l'esatto contrario. Attraverso il cinema, hanno imposto la loro storia al mondo».
Più che il fasto e l'epica dei film storici di Visconti o Bertolucci, lei ha preferito seguire l'asciuttezza di Rossellini.
«Come lui fece ne La presa di potere da parte di Luigi XIV, ho lavorato con materiale storico di prima mano. A partire dalla lingua dei personaggi, un italiano ottocentesco desueto che gli attori però porgono in modo vivo. In questo film c'è un punto di vista fermo, privo di estetismi. E se per epica intendiamo enfasi, Noi credevamo ne è del tutto esente; se invece alludiamo all'ampiezza narrativa, c'è».
Noi credevamo è un titolo pieno di disillusione che può essere applicato ad ogni lotta nella Storia del nostro Paese.
«Così Anna Banti intitolò, negli anni Sessanta, il romanzo da cui è tratta parte del film: il libro è attraversato da una radicalità repubblicana in cui mi sono riconosciuto. Mi piacerebbe che gli spettatori tracciassero un albero genealogico comune che conduce dai patrioti ai partigiani ai movimenti del '68 e del '77. E in questo senso è, perché no, anche autobiografico».
«La Repubblica» (sezione di Firenze) del 7 novembre 2010

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