28 gennaio 2011

"L’Unità d’Italia? Da 150 anni gronda sangue dei terroni"

Da direttore di Gente a paladino del Mezzogiorno col libro sui misfatti dei Savoia, Pino Aprile racconta come i 150 anni dell’Unità d’Italia grondino sangue dei terroni. A lui Al Bano al Festival di Sanremo dedica un inno, ma c’è chi lo minaccia di morte
di Stefano Lorenzetto

La rappre­sentazione plastica di come sia impossibi­le mettere d’accordo polentoni e terroni l’ho avuta davanti al­la vetrina di una libre­ria di Verona. Sicco­me per la copertina del suo Terroni, edito da Piemme, Pino Apri­le ha scelto una silhouette capovolta dello Sti­vale, con la Sicilia a nord e la Campania a sud, una zelante commessa ha pensato bene di correggergliela esponendo il volume col tito­lo a rovescio. In un solo colpo la libraia ha così ristabilito il primato del planisfero, con­fermato il sottotitolo dell’opera ( Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud di­ventassero «meridionali» ) e ribadito senza volerlo la battuta di Marco Paolini riportata nelle pagine interne: «Quando non si vuole capire la storia, la si trasforma in geografia». Uscito dalla tipografia Mondadori prin­ting di Cles, Trento, Val di Non (a dimostra­zione che l’Italia unita almeno per gli editori è cosa fatta), Terroni è diventato nel giro di dieci mesi bestseller, oggetto di scontro, ma­nifesto dell’orgoglio sudista, testo sacro per i revisionisti del Mezzogiorno, strumento di lotta politica e ora persino brano del Festival di Sanremo: Al Bano, 67 anni, pugliese di Cel­lino San Marco, inserirà nel suo Cd l’inno Gloria, gloria scritto da Mimmo Cavallo e ispirato al saggio di Aprile, 60 anni, pugliese di Gioia del Colle.
Non basta. Terroni è l’edizione multime­diale per iPad, con foto, interviste e ortspezzoni dal film E li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri, in uscita a febbraio. Terroni è lo spettacolo teatrale che andrà in scena il 21 marzo al Quirino di Roma, «per rispondere a Umberto Bossi e alla sua arroganza, per dire basta a questo massacro che dura da 150 an­ni », proclama dalle pagine di Facebook l’at­tore- regista Roberto D’Alessandro, cresciu­to alla scuola di Gigi Proietti. Terroni, insom­ma, è tifo da stadio: non a caso l’autore, pur avendo ormai perso il conto delle ristampe («almeno una ventina»),rivela d’averne ven­duto 150.000 copie, mentre su Wikipedia un biografo infervorato gliene attribuisce addi­rittura mezzo milione, il che, anche a voler considerare le brossure veicolate da Mondoli­bri e gli e­book scaricati da Internet, appare piuttosto esagerato.
Pino Aprile è stato vi­cedirettore di Oggi e poi direttore di Gente. Prima d’avere come tar­g­et fisso Carolina di Mo­naco («ho scoperto che era calva: scoop mondiale »),s’era sempre oc­cupato di terrorismo e politica. Da pensionato pensava di dedicarsi al­la passione della sua vi­ta: il mare. Ha diretto il mensile Fare vela e ha scritto tre libri dai titoli sanamente monomaniacali: Il mare minore, A mari estremi e Mare, uo­mini, passioni. Poi gli è scappato Terroni ed è fi­nit­o nell’oceano in tem­pesta: «Ho accettato fi­nora quasi 200 presen­tazioni. Nel frattempo sono giunti all’editore altri 500 inviti. In teoria avrei l’agenda piena di appuntamenti sino alla primavera del 2012, se non ricevessi altre richieste. Invece conti­nuano ad arrivarne. Mi chiamano anche all’estero. La prima tra­sferta è stata in Svezia, quindi Londra, Zurigo, Manchester, New York... Sono distrutto».
Ma la invitano solo i circoli dei calabresi o anche quelli degli emigrati veneti?
«Università, centri di cultura, associazioni italiane, come la Dante Alighieri».
È il libro di saggistica che resiste da più mesi in classifica o sbaglio? «Vero. Spero che mi venga perdonato».
Com’è nata l’idea di Terroni?
«Avevo delle domande, cercavo delle rispo­ste. Se davvero a fine Ottocento i meridiona­li erano poveri, arretrati e oppressi, perché mai reagirono contro i “liberatori” venuti dal Nord con una guerra civile durata a lun­go e successivamente con la fuga, emigran­do? Solo dopo molti anni ho pensato di far­ne un libro».
Ha ricevuto offese o minacce?
«Offese tante. Qualcuno mi chiede se non ho paura. E di che? Su Facebook un tale mi ha scritto: “Farai la fine di D’Antona”. Ho cer­cato di rintracciarlo, ma risultava inesisten­te. Del resto quella è una lavagna collettiva su cui compare di tutto: un estimatore mi ha dedicato lo slogan pubblicitario “Terroni, non ci sono paragoni”. È seccante la suppo­nenza di chi crede di sapere già tutto e non è nemmeno sfiorato dal dubbio».
Alla presentazione di Torino s’è quasi sfiorata la rissa. «Eravamo nella Sala dei Cinquecento, gli al­tri sono rimasti in piedi... Una persona ha in­veito contro Roberto Calderoli, che non era presente, per gli insulti rivolti dal ministro le­ghista ai napoletani. Gli interventi di Marcel­lo Sorgi, Massimo Nava e Pietrangelo Butta­fuoco sono filati via lisci. Quando ha comin­ciato a parlare Giordano Bruno Guerri, che ha scritto un libro sul brigantaggio postunita­rio, la stessa persona lo ha offeso. Lo storico è sceso dal palco per regolare i conti e il conte­statore s’è zittito. Meno male: Guerri discen­de dai pirati etruschi, ha profilo da pugile e mani da cavatore di ciocco».
Si può dire che Terro­ni abbia fatto venire al Sud la voglia di se­cessione che fino a ie­ri serpeggiava solo al Nord?
«No. È stato detto che Terroni incita i meridio­nali alla sollevazione. Fi­guriamoci! Il Mezzogior­no non ha voce: tutti i giornali nazionali, ec­cetto La Repubblica, si pubblicano al Nord e le tre reti televisive private sono di un editore lom­bardo che, da capo del governo, ha voce in capi­tolo pure in quelle pubbliche. Per la legge di prossimità, la stampa trova più interessante il miagolio del gatto di ca­sa rispetto al ruggito del leone nella savana. Il Nord scopre che cosa sta accadendo dalle mie parti solo quando s’in­terroga sul successo di Terroni o del film Benve­nuti al Sud . Ma Terroni è il dito che indica la lu­na, non la luna. Ci sono libri che cambiano il cuore degli uomini. Mi spiace, il mio non è fra questi: sono nato di feb­braio e non ho avuto per padre putativo un mite falegname. La voglia di secessione del Sud ger­moglia come reazione agli insulti dei mini­stri del Nord. È meno forte e diffusa che in Lombardia o nel Veneto, ma cresce».
Quali sentimenti suscitano in lei i 150 an­ni dell’Unità d’Italia? «Di delusione, talvolta di disgusto. In quale Paese può restare in carica un ministro che ha trattato la bandiera nazionale come carta igienica? O un sindaco che ha marchiato con simboli di partito la scuola dei bambini? L’Italia unita era da fare, perché ogni volta che cade una frontiera gli uomini diventano più liberi, più ricchi, più sicuri, più felici. Ma non era da fare con una parte del Paese schie­­rata contro l’altra. La ricorrenza dei 150 anni poteva diventare l’occasione per fare onesta­mente una volta per tutte i conti con la sto­ria. Così non è».
Che cosa pensa dei Savoia?
«Si sono trovati al posto giusto nel momento giusto. Mentre un’esigua minoranza, non più dell’1-2 per cento della popolazione,era animata dal pio desiderio di unificare l’Ita­lia, loro ne avevano l’impellente necessità: strozzati dai debiti, potevano salvarsi solo con l’invasione e il saccheggio del Sud. Lo scrisse nel 1859 il deputato Pier Carlo Bog­gio, braccio destro di Cavour: “O la guerra o la bancarotta”. Fino al 1860, per ben 126 an­ni, i Borbone mai aumentarono le tasse. Nel Regno di Napoli erano le più basse di tutti gli Stati preunitari».
Bruno Vespa mi ha confessato la sua sor­presa nello scoprire solo di recente che nel regno borbonico le imposte erano soltanto cinque, contro le 22 introdotte dai Savoia.
«I soldi del Sud ripianarono il buco del Nord. Al tesoro circolante dell’Italiaunita,il Regno delle Due Sicilie contribuì per il 60 per cento, la Lombardia per l’1 virgola qualcosa, il Pie­monte per il 4. Negli Sta­ti via via annessi all’Ita­lia nascente, appena ar­rivavano i piemontesi spariva la cassa».
E di Giuseppe Garibal­di che cosa pensa?
«Romantico avventurie­ro, di idee forti, sempli­ci, a volte confuse, ma più onesto di altri nel de­nunciare, solo a cose fat­te però, le stragi e le rapi­n­e compiute nel Mezzo­giorno. Qualche proble­ma di salute, per l’artro­si che gli rendeva dolo­roso cavalcare: a Napoli arrivò in treno. Qualche disavventura familiare: la giovane sposa incinta di un altro. Qualche pa­gina oscura nel suo pas­sato sudamericano: la tratta degli schiavi dalla Cina al Perù. Ne hanno fatto un santino. Ma va bene così, ogni nazione ha bisogno dei suoi miti fondanti. Basta sapere chi erano veramente».
E di Camillo Benso conte di Cavour che cosa pensa?
«Grande giocatore, spe­cie nell’imprevisto. Non voleva la conquista del Regno delle Due Sicilie: gli bastavano il Lombar­do- Veneto e i Ducati. Già la Toscana gli pare­va in più. Ma quando l’avventura meridiona­le ebbe inizio, in breve la fece propria, persuase il re, neutralizzò Ga­ribaldi, ammansì chi si opponeva. Qualche suo vizietto sarebbe stato da galera. Come molti padri del Risorgimento, non mise mai piede al Sud: lo conosceva per sentito dire».
La peggiore figura del Risorgimento?
«Il generale Enrico Cialdini, poi deputato e senatore del Regno. Un macellaio che mena­va vanto del numero di meridionali fucilati, delle centinaia di case incendiate, dei paesi rasi al suolo. Prima di diventare eroe pluride­corato del Risorgimento, fu mercenario nel­la Legione straniera in Portogallo e Spagna. Uccideva i suoi simili a pagamento».
Quali sono gli episodi risorgimentali più rivoltanti,che l’hanno fatta ricredere sul­la sua italianità?
«Non si può smettere di essere italiani. Però mi sono dovuto ricredere circa il racconto bello e glorioso sulla nascita del mio Paese che avevo imparato a scuola. Da adolescente fremi d’indignazione per gli indiani stermi­nati sul Sand Creek e da grande scopri che i fratelli d’Italia nel Meridione fecero di peggio. La mitologia risorgimentale cominciò a vacillare quando lessi La conquista del Sud di Carlo Alianello. Vi si narrava la storia di una donna violentata e lasciata morire da 18 bersaglieri, che già le avevano ammazzato il marito. Il figlioletto che assistette alla scena, divenuto adolescente,si vantava d’aver ucci­so per vendetta 18 soldati di re Vittorio Ema­nuele a Custoza. Poi il massacro di Pontelandolfo e Casalduni, 5.000 abitanti il primo, 3.000 il secondo, due delle decine di paesi di­­strutti, con libertà di stupro e di saccheggio lasciata dal Cialdini ai suoi soldati, fucilazio­ni di massa, torture, le abitazioni date alle fiamme con la gente all’interno. E le migliaia di meridionali squagliati nella calce viva a Fe­­nestrelle, una fortezza-lager a una settantina di chilometri da Torino, a 1.200 metri di quota, battuta da venti gelidi, dove la vita media degli internati non superava i tre mesi. Per garantire ulteriore tormento ai pri­gionieri, erano state di­velte le finestre dei dor­mitori. Viva l’Italia!».
Gianfranco Miglio, ideologo della Lega, mi confidò che era an­cora terrorizzato da certe storie atroci udi­te da bambino, quan­do il nonno gli rac­contava che, giovane bersagliere in Cala­bria, aveva trovato un suo commilitone crocifisso su un ter­mitaio dai briganti.
«Le ha anche racconta­to che cos’aveva fatto quel bersagliere? Era in un Paese invaso senza manco la dichiarazione di guerra. Maria Izzo, la più bella di Pontelan­dolfo, fu legata nuda a un albero, con le gambe divaricate, stuprata a turno dai bersaglieri e poi finita con una baio­nettata nella pancia. A Palermo uccisero sotto tortura un muto dalla nascita perché si rifiuta­va di parlare. Riferirono in Parlamento d’aver fucilato, in un anno, 15.600 meridionali: uno ogni 14 minuti, per die­ci ore al giorno, 365 giorni su 365. Ma il conto delle vittime viene prudentemente stimato in almeno 100.000 da Giordano Bruno Guer­ri. Altri calcoli arrivano a diverse centinaia di migliaia. La Civiltà Cattolica , rivista dei gesuiti, nel 1861 scrisse che furono oltre un milione. La cifra vera non si saprà mai».
Da Terroni :«“Ottentotti”, “irochesi”, “be­duini”, “peggio che Affrica”, “degenera­ti”, “ritardati”, “selvaggi”, “degradati”: così i meridionali vennero definiti, e de­scritti con tratti animaleschi, dai fratelli del Nord scesi a liberarli». Io sono vene­to. Ha idea di quante ce ne hanno dette e ce ne dicono? Razzisti, analfabeti, beoti, ubriaconi, bestemmiatori, evasori fisca­li, sfruttatori di clandestini. Non crede che se cominciamo a tenere questo gene­re di contabilità, non la finiamo più?
«Devono finirla i Bossi, i Calderoli, i Borghe­zio, i Salvini, i Brunetta. Quella degradazio­ne dei meridionali ad animali preparò e giu­stificò il genocidio. Ricordo le parole di un intellettuale di Sarajevo: “Non è stato il fra­casso dei cannoni a uccidere la Jugoslavia. È stato il silenzio. Il silenzio sul linguaggio del­la violenza, prima che sulla violenza”. Un mi­nistro della Repubblica ha minacciato il ri­corso ai fucili. In Italia, adesso. Non a Sa­rajevo, allora».
Lei scrive che Luigi Federico Menabrea, presidente del Consiglio dei ministri del Regno, nel 1868 voleva deportare in Pata­gonia i meridionali sospettati di brigan­taggio. Che cosa dovrebbero dire i veneti deportati per davvero da Benito Mussoli­ni n­elle malariche paludi pontine per bo­nificarle?
«Menabrea voleva deportare i meridionali per sterminarli. I veneti nelle paludi pontine non furono deportati: ebbero lavoro, casa, terra risanata con i soldi di tutti e a danno di quelli che vi morivano di malaria da secoli per trarne pane. Ma vediamo il lato positivo: fra poveri s’incontrarono.E dove il sangue si mischia, nasce la bellezza. La provincia oggi chiamata Latina ha dato all’Italia la più alta concentrazione di miss da calendario per chilometro quadrato. E pure Santa Maria Goretti, che si fece uccidere per difendere la propria femminilità».
Scrive anche: «La Calabria non appartie­ne, geologicamente, al Mezzogiorno, ma al sistema alpino: si staccò con la Corsica dalla regione ligure-provenzale e migrò, sino a incastrarsi fra Sicilia e Pollino». Recrimina persino sull’orografia?
«O è un modo per dire che a Sud vogliono venirci tutti?».
Si dilunga sul caso di Mongiana, che in effetti è impressionante. Però che cosa dimostra? Da Nord a Sud, ogni distretto industriale piange i suoi dinosauri.
«Mongiana, in Calabria, era la capitale side­rurgica d’Italia e oggi contende alla confinan­te Nardodipace lo scomodo primato di Co­mune più povero d’Italia. I mongianesi, sra­dicati dal loro paese, si sono trovati a lavora­re nelle fonderie del Bresciano: 150 famiglie, circa 500 persone, solo a Lumezzane, che è ormai la vera Mongiana. Dove prima 1.500 operai e tecnici siderurgici specializzati ren­devano autosufficiente l’industria pesante del Regno delle Due Sicilie, adesso non è ri­masto neppure un fabbro. Il più ricco distret­to minerario della penisola fu soppresso dal governo unitario per un grave difetto struttu­rale: si trovava nel posto sbagliato, nel Meri­dione. Il Sud non doveva far concorrenza al Nord nella produzione di merci. E questo fu imposto con le armi e una legislazione squili­brata a danno del Mezzogiorno. La vicenda di Mongiana è esemplare, nell’impossibilità di raccontare tutto. Ma accadde la stessa co­sa con la cantieristica navale, l’industria fer­roviaria, l’agricoltura».
In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, la città di Gaeta vuol chiedere un risarcimento per l’assedio savoiardo del 1861: 500 milioni di euro. Mi ricorda il Veneto, che pretende i danni di guerra dalla Francia per il saccheggio napoleo­nico del 1797: 1.033 miliardi di euro.
«C’è una differenza: al risarcimento di Gae­ta s’impegnò il luogotenente, principe di Ca­rignano, in nome del quale il generale Cialdi­ni, responsabile di quelle macerie, garantì per iscritto: “Il Governo di Sua Maestà prov­v­ederà all’equo e maggiore possibile risarci­mento”. Quando gli amministratori comu­nali andarono per riscuotere, il nuovo luogo­tenente, Luigi Farini, già distintosi con mo­glie e figlia nel patriottico furto dell’argente­ria dei duchi di Parma, consigliò loro di rivol­gersi “alla carità nazionale”».
Lei è arrivato al punto da dichiarare che Giulio Tremonti ruba al Sud per dare al Nord. Forse dimentica che il Veneto ha solo 225 dirigenti regionali mentre la Si­cilia ne ha 2.150. L’855 per cento in più. Che si aggiungono ai 100.000 dipendenti ordinari. Allora le chiedo: chi ruba a chi, se non altro lo stipendio?
«I fondi per le aree sottoutilizzate sono, per legge, all’85 per cento del Sud, e invece sono stati abbondantemente spesi al Nord. I 3,5 miliardi di euro con cui è stata abbuonata l’Ici a tutt’Italia erano quelli destinati alle strade dissestate di Calabria e Sicilia. I citta­dini della Val d’Aosta spendono il 10.195 per cento in più della Lombardia, pro capite, per i dipendenti regionali. Ma è una ragione a statuto speciale, si obietta. Giusto. Pure la Sicilia lo è. Il che non assolve né l’una né l’al­tra. Ma il paragone si fa sempre con l’altra».
Il sociologo Luca Ricolfi in Il sacco del Nord documenta che ogni anno 50 miliar­di­di euro lasciano le regioni settentriona­li diretti al Sud. E lei me lo chiama furto?
«Intanto i conti andrebbero fatti sui 150 an­ni. E poi lo stesso Ricolfi spiega che quei dati, valutati diversamente, portano a conclusio­ni diametralmente opposte. Non tutti sono d’accordo sul metodo scelto da Ricolfi. Va­da a farsi due chiacchiere col professor Gian­franco Viesti, bocconiano che insegna politi­ca economica all’Università di Bari».
S’ode a destra uno squillo di tromba: Ter­roni. A sinistra risponde uno squillo: Vi­va l’Italia! di Aldo Cazzullo. Che l’ha ac­cusata d’aver paragonato i piemontesi ai nazisti solo per vendere più copie.
«Incapace di tanta eleganza, a Cazzullo con­fesso che scrivo nella speranza di essere let­to. E non capisco perché il suo editore spen­da tanti soldi per pubblicizzare Viva l’Italia! se lo scopo è quello di non vendere copie. Il mio libro s’è imposto col passaparola».
Non nominare il nome di Marzabotto in­vano, le ha ricordato Cazzullo.
«Che differenza c’è fra Pontelandolfo e Marzabotto? Mettiamola così: il mio edito­re ha nascosto l’esistenza di Terroni, l’edi­tore di Cazzullo ha fatto il contrario. Nessu­no dei due ha ottenuto il risultato sperato».
Anche Ernesto Galli della Loggia e Fran­cesco Merlo hanno maltrattato il suo pamphlet.
«Libera critica in libero Stato: non si può pia­cere a tutti. A me piace non piacere a Galli della Loggia, per esempio. Prima ha parlato di “fantasiose ricostruzioni”. Poi, al pari di Merlo e di qualche altro, ha obiettato che le stragi risorgimentali nel Sud erano note e da considerarsi “normali” in tempo di guerra. A parte che a scuola tuttora non vengono stu­diate, allora scusiamoci con i criminali nazi­sti Herbert Kappler e Walter Reder per l’in­giusta detenzione; critichiamo gli Stati Uniti che hanno inflitto l’ergastolo all’ufficiale americano responsabile dell’eccidio di My Lai in Vietnam; chiediamoci perché si con­danni il massacro dei curdi a opera di Sad­dam Hussein. Insomma, solo l’uccisione in massa dei meridionali è “normale”?».
Sergio Romano sul Corriere della Sera s’è dichiarato infasti­dito dai «lettori meri­dionali che deplora­no i soprusi dei pie­montesi, l’arroganza del Nord, il sacco del Sud, e rimpiangono una specie di età del­l’oro durante la qua­le i Borbone di Napoli avrebbero fatto del lo­ro regno un modello di equità sociale e svi­luppo economico». E vi ha ricordato che, per unanime consen­so­dell’Europa d’allo­ra, «il Regno delle Due Sicilie era uno degli Stati peggio go­vernati da una aristo­crazia retriva, pater­nalista e bigotta».
«Senta, foss’anche tutto vero, e non lo è, questo giustifica invasione, sac­cheggio e strage? Mi pa­re la tipica autoassolu­zione del colonizzatore: ti distruggo e ti derubo, però lo faccio per il tuo bene, neh? Infatti, l’Ita­lia riconoscente depo­ne ogni anno una coro­na d’alloro dinanzi alla lapide che ricorda il co­lonnello vicentino Pier Eleonoro Negri, il carne­fice di Pontelandolfo e Casalduni, e nega ai pae­si ridotti in cenere - ri­masero in piedi solo tre case - persino il rispetto per la memoria».
Lei ha fatto il servizio militare?
«Arruolato, C4 rosso, se non ricordo male: mi dissero che, se fosse scoppiata la guerra, sarei finito in ufficio. I miei polmoni non da­vano affidamento: postumi di Tbc e quattro pacchetti di Gauloises al giorno».
Se scoppiasse una guerra, difenderebbe l’Italia o no?
«Oh, ma che domande sono? Lo chieda a Bos­si e a Calderoli! Io sono un italiano che preten­de la verità critica su com’è nato il suo Paese e la fine della sperequazione e degli insulti a danno del Sud. La questione meridionale non esisteva 150 anni fa, il Consiglio naziona­le delle ricerche ha dimostrato che prodotto lordo e pro capite erano uguali al Nord e al Sud. I meridionali, con un terzo della popolazione, diedero circa la metà dei caduti nelle trincee della prima guerra mondiale».
Silvius Magnago, lo storico leader della Svp, mi disse: «La patria è quella cui si sente di appartenere con il cuore. La mia Heimat è il Tirolo. Heimat, terra natia. Voi italiani non possedete questo concet­to. Non potete capire». Che cosa signifi­ca patria per lei? E qual è la sua Heimat?
«Lo dico nell’esergo del mio libro, con paro­le rubate allo scrittore francese Emmanuel Roblès: patria è “là do­ve vuoi vivere senza su­bire né infliggere umi­liazione” ».
Sarebbe favorevole a un’Italia divisa in cantoni, come la Sviz­zera?
«No. Una frontiera non migliora gli uomini. Al più, può peggiorarli. Ma se la Lega, dopo vent’anni di strappi, re­cidesse l’ultimo filo che tiene ancora unito il Pa­ese, un attimo prima il Sud dovrebbe andarse­ne, contrattando l’usci­ta, per evitare di essere derubato di nuovo».
Su quali basi andreb­be ­rifatta l’Unità d’Ita­lia?
«Eque. La forma garanti­sce poco la sostanza: va­da a spiegare ai giovani che la nostra è una Re­pubblica fondata sul la­voro. O che la legge è uguale per tutti. O che le Ferrovie dello Stato assi­curano il servizio in tut­to il Paese: Matera, ame­na località europea, è ignota alle Fs, lì il treno non è mai arrivato».
Fosse lei il presiden­te del Consiglio, che farebbe per ripulire Napoli dai rifiuti?
«Nominerei commissa­rio Vincenzo Cenname, il sindaco che ha fatto di Camigliano, provincia di Caserta, un esempio virtuoso nello smalti­mento, grazie alla raccolta differenziata che copre il 65 per cento del totale. Cenname s’è rifiutato di affidarne la gestione a un ente pro­vinciale, la cui inefficienza è testimoniata dalle immondizie che vengono lasciate nel­le strade per scoraggiare la raccolta differen­ziata a favore degli inceneritori. Per questo Cenname è stato rimosso dal prefetto, quasi fosse a capo d’una Giunta camorrista».
Siamo alla domanda delle cento pistole: i terroni hanno voglia di lavorare sì o no?
«Capisco che la domanda lei deve porla e im­magino che le costi dar voce agli imbecilli. Se fossi maleducato, risponderei: ma mi faccia il piacere! Non lo sono e quindi rispondo: quei 5 milioni di meridionali che stanno nel­le fabbriche del Nord, dall’abruzzese Sergio Marchionne in giù, come li vede? Sfaticati? Quei 20 milioni di emigrati nel mondo, che per la prima volta nella loro storia millenaria presero la via dell’esilio volontario dopo i di­sastri dell’Unità d’Italia, sono andati altrove a far nulla? La mia regione fu l’unica in cui per l’aridità della terra fallì il sistema di pro­duzione dell’impero romano, imperniato sulla villa. Ebbene di quei deserta Apuliae , de­serti di Puglia, la mia gente nel corso dei seco­­li, col sudore della fronte, ha fatto un giardi­no, rubando l’umidità alla notte con i muretti di pietra e piantando 60 milioni di ulivi. Mica co­me Bossi, che non ha la­vorato un giorno in vita sua. Anzi, sa che le dico, senza offesa, eh? Ma mi faccia il piacere!».
Il 52 per cento della popolazione di Terzi­gno, provincia di Na­poli, campa a carico dell’Inps. Sarà mica colpa dell’Inps? «Se mi togli tutto, mi at­tacco a quello che c’è. Assistenza? Assistenza! Non mi piace, ma non ho altra scelta. A Parma, 170.000 abitanti, il mini­stero ha deciso di eroga­re lo stesso i soldi per la metropolitana progetta­ta per 24 milioni di uten­ti, poi ridotti a 8, infine abbandonata, per ver­gogna, spero, nonostan­te lo studio costato 30 milioni di euro. È la città della Parmalat, la peg­gior truffa di tutti i tem­pi. Però la truffa del fal­so invalido scandalizza maggiormente. Be’, a me le truffe danno fasti­dio tutte. Quella del po­vero la capisco di più».
La metà delle cause contro l’Inps si con­centra in sei città del Sud: Foggia, Napoli, Bari, Roma, Lecce e Taranto. A Foggia è pendente circail 15 per cento dell’intero contenzioso nazionale dell’istituto. Tut­ti i 46.000 braccianti iscritti alle liste di Foggia hanno fatto causa all’Inps. Dipen­derà mica dai Savoia.
«Per quanto possa sborsare l’Inps da Terzi­gno a Lecce, non si arriverà mai ai miliardi di euro che ci costano le multe pagate per colpa degli allevatori padani disonesti, grandi elet­tori della Lega. O assolviamo tutti, ed è sba­gliato, o condanniamo quelli che lo merita­no. Con una differenza: la truffa delle quote latte è già accertata. Aspettiamo di vedere co­me finiscono i procedimenti contro l’Inps».
C’è poco da aspettare: a Foggia, su 122.000 cause presentate, 25.000 sono state spontaneamente ritirate dagli avvo­cati. Erano state avviate per lo più a no­me di persone morte o inesistenti.
«Ma non è detto che tutte le altre siano im­motivate. Ripeto: aspettiamo».
Non sarà che lei mi diventa il Bossi del Sud?
«Già l’accostamento è offensivo. Io non giu­dico il mio prossimo dalla latitudine e ho sempre lavorato; né ho festeggiato tre volte la laurea, senza mai prenderla. Mi hanno of­­ferto candidature, ma ho ringraziato e rifiu­tato, perché inadatto: sono incensurato, ho pagato la casa con i miei soldi e voglio mori­re giornalista».
Eppure Giordano Bruno Guerri ha scrit­to che Terroni è sostenuto da piccoli ma combattivi gruppi neoborbonici e dal Partito del Sud di Antonio Ciano, assesso­re a Gaeta, e potrebbe diventare il testo sacro di una futura Lega meridionale, contrapposta a quella di Bossi.
«Il libro, una volta uscito, va per la sua stra­da, come i figli. Non puoi dirgli tu dove anda­re. Terroni non è sostenuto: è letto. E chi lo legge ne fa l’uso che vuole, a patto di non attribuirlo a me. Stimo Ciano e seguo con attenzione il Partito del Sud, i Neoborboni­ci, l’Mpa del governatore siciliano Raffaele Lombardo, l’associazione Io resto in Cala­bria di Pippo Callipo, il movimento Io Sud di Adriana Poli Bortone. Ma resto un osservato­re interessato ed esterno. Ero anche amico di Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucci­so dalla camorra con nove colpi di pistola. Ricordo i suoi funerali, con quei fogli tutti uguali attaccati alle saracinesche dei negozi chiusi e ai portoni delle case: “Angelo,il pae­se muore con te”. Oggi per fortuna Pollica va avanti nel suo nome. In una ventina d’anni da sindaco, Angelo aveva arricchito tutti, senza distruggere niente del territorio, vero capitale del paese. Ammiravo il suo corag­gio, la sua fantasia, la sua capacità di trasfor­mare le idee in fatti. Ho pianto accompa­gnandolo al cimitero. Se avesse potuto ve­dermi, si sarebbe messo a ridere».
Per chi vota?
«La prima volta votai Dc per ingenuità, su consiglio d’un amico. Delusione feroce. Poi a sinistra, senza mai avere un partito, cosa che ritengo incompatibile col giornalismo. Infine quasi stabilmente per i repubblicani di La Malfa, padre, ov­viamente. Alle prossi­me elezioni forse non vo­terò, anche se so di fare un regalo ai peggiori».
Non mi pare che la si­nistra, con l’unico presidente del Consi­glio originario di Gal­lipoli, abbia migliora­to la condizione del Sud.
«Massimo D’Alema ha il collegio elettorale a Gallipoli e la moglie pu­gliese. Ma è romano. E poi, ripeto, l’essere di qui o di là non significa nulla. Il meridionali­smo è una dottrina solo italiana, nel mondo. È stata praticata da uomi­ni eccelsi per cultura e moralità,ma è un’inven­zione di italiani del Nord, specie lombardi. Solo dopo una genera­zione sono sorti i meri­dionalisti meridionali. Che mi frega di dove sei? Fammi vedere cosa fai!».
Lei lamenta l’invasio­ne burocratica piemontese del Meridio­ne, però Mario Cervi le ha ricordato che og­gi il Sud amministra col proprio persona­le la macchina buro­cratica e giudiziaria dello Stato nell’Italia intera. E i risultati non sono brillanti. «Tutti, ma proprio tutti gli enti, le banche, le aziende pubbliche o parapubbliche d’Italia sono in mano a settentrionali, in particolare lombardi, a parte un napoletano e tre romani. Vuol dire che se cotanti capi non riesco­no a raggiungere buoni risultati la colpa è dei sottoposti? Se si vince è bravo il generale e se si perde sono cattivi i soldati? Quando dirigevo un giornale, la mia regola era: chiunque abbia sbagliato, la colpa è mia».
«Il Giornale» del 23 gennaio 2011

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