04 gennaio 2011

Che cosa sta facendo internet ai vostri neuroni

di Armando Massarenti
Che cosa passa per la testa di un nativo digitale? I suoi circuiti neuronali sono diversi dai nostri, figli dell'era Gutenberg, cervelli educati alla lettura di libri o (nei casi più frequenti) anestetizzati da 60 anni di televisione? I media ci cambiano le sinapsi fino a farci compiere, di generazione in generazione, veri e propri salti evolutivi? Oppure il cervello rimane, alla fin fine, sempre lo stesso e si adatta plasticamente, nel bene e nel male, alle nuove opportunità offertegli da internet, socialnetwork, videogiochi, smartphone, così come, prima di questi, alla lettura di Guerra e pace?
Partiamo da un microepisodio, raccontato dal guru dei nuovi media Clay Shirky. A proposito, ma quanti ce ne sono di questi guru, e con quanti messaggi diversi! Niente paura. Più o meno gli ingredienti dei loro discorsi sono gli stessi. Cambia il tono, apocalittico in alcuni, entusiastico in altri. Una bimba di 4 anni stava guardando un dvd con i genitori. Di punto in bianco, nel bel mezzo del film, la piccola è saltata giù dal divano ed è corsa dietro al televisore. Il padre ha pensato che volesse verificare se le persone del film fossero realmente nell'apparecchio. Lei frugava tra i cavi dietro il monitor e alla domanda «Che stai facendo?» si sporse da dietro lo schermo e rispose: «Cerco il mouse».
Ecco un'idea che è già ben piantata nella mente di un bambino di oggi: uno schermo senza mouse ha qualcosa di strano. I media che si rivolgono a te senza permetterti di partecipare sono alquanto impertinenti. Una volta che si è aperta a tutti la possibilità di consumare, produrre, risolvere problemi e condividere interattivamente contenuti in rete, è difficile tornare indietro. E il motivo sta scritto nei nostri neuroni. La facilità, la gratuità, le motivazioni altruistiche, il senso di equità, il desiderio di interattività, di partecipazione e confronto – come spiega Shirky in Surplus cognitivo. Creatività e generosità nell'era digitale (Codice) – oltre che essere il vero sale e la nuova opportunità offerta dai socialnetwork, trovano conferma in esperimenti neuroscientifici assai noti che disegnano la natura umana in maniera assai meno egoistica e assai più cooperativa e animata da spirito civico di quanto le teorie dell'homo oeconomicus ci avevano fatto credere.
A proposito di generosità, Shirky avrebbe anche potuto ricordare Giacomo Rizzolatti e i suoi «neuroni specchio», o «neuroni dell'empatia», che si attivano nel nostro cervello quando osserviamo i comportamenti altrui. Un particolare non da poco, dal momento che l'area specchio è implicata nella fruizione di informazioni in immagini e filmati veicolati dal web. Senza contare che Rizzolatti è ancora più importante, come ispiratore dei rapporti tra media, educazione e cervello, per le sue scoperte sulla neuroplasticità. A partire dai suoi studi sulla visione è apparso chiaro che tale plasticità dura per tutta la nostra esistenza, anche se nell'infanzia e nell'adolescenza è più accentuata. Lo conferma una branca nascente delle neuroscienze, la neuroeducazione, per opera di Karl Fischer a Harvard (uno dei curatori di The Educated Brain, Hardbound) e del giapponese Koizumi che sta girando in lungo e in largo il suo paese monitorando i cervelli degli studenti con delle cuffiette non invasive.
Da questi studi emerge che il learning by doing, l'imparare facendo di deweyiana memoria, magari introiettato attraverso i videogiochi, prepara il cervello alla soluzione di problemi via via più complessi, ed è quindi una risorsa preziosa per l'educazione. Lo si vede bene nei test Ocse-Pisa. I ragazzi che fanno uso delle tecnologie informatiche tendono ad avere risultati migliori, non tanto per il vantaggio tecnologico in sé, ma per il tipo di abilità "aperte" che sono in grado di sviluppare. Mentre i 45enni tendono ancora a usare internet come una megaenciclopedia da consultare, a mano a mano che si scende con l'età, l'uso diventa sempre più attivo e interattivo. Ma è solo un dato sociologico. Gli studi sul cervello mostrano che non ci sono scuse che tengano: a nessuna età si è inadatti alle diverse opportunità cognitive emergenti dai nuovi media. Anche i compiti cognitivi svolti per la prima volta in età adulta producono configurazioni neurali nuove, e modificano fisicamente il nostro cervello.
Come nota Paolo Ferri in Nativi digitali (in uscita per Bruno Mondadori), è paradossale che oggi la sintesi più completa degli studi su neuroplasticità e "intelligenza digitale", dispersi in vari ambiti del sapere, sia contenuta nel testo dell'"apocalittico" Nicholas Carr, The Shallows: What the Internet Is Doing to Our Brains (in uscita per Cortina), secondo cui internet ci rende sempre più superficiali e inadatti alla lettura approfondita di tipo gutenberghiano. Una tesi condivisa da Frank Schirrmacher in La libertà ritrovata. Come (continuare a) pensare nell'era digitale (Codice), che a sua volta si rifà a Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge di Maryanne Wolf (Vita e pensiero). Durante la lettura i neuroni "rallentanti" posticipano di pochi millesimi di secondo la trasmissione neuronale da altre cellule nervose.
Quanto basta per ordinare le informazioni e creare visioni d'insieme e riflessività utili all'approfondimento e allo sviluppo del pensiero. Che scomparirebbe invece, secondo gli apocalittici, durante il multitasking – l'attitudine a compiere più operazioni contemporaneamente, sollecitata dalla lettura sul web – che attiverebbe solo le parti più primitive del nostro cervello. In internet, scansionando il flusso informativo per rilevarne cambiamenti significativi ed esponendoci a stimoli multipli, perderemmo così la capacità di focalizzare l'attenzione. L'uso della rete in effetti favorisce più lo sviluppo della visione periferica, più adatta a indentificare movimenti e forme, e meno della visione foveale, tipica della lettura di libri stampati.
Ma in realtà – osserva Henry Jenkins in Culture partecipative e competenze digitali (Guerini) – «multitasking e attenzione non dovrebbero essere viste come forze opposte tra loro. Dovremmo, piuttosto, pensare a esse come abilità complementari, entrambe usate dal cervello in modo strategico per affrontare in maniera intelligente i limiti della memoria a breve termine». Nella storia umana, del resto, siamo stati sia «contadini», cui è necessaria un'attenzione focalizzata, sia «cacciatori», capaci di «scansionare un territorio complesso alla ricerca di segni e indizi per capire dove le sue prede siano nascoste». «Per secoli, le istituzioni scolastiche sono state strutturate per creare "contadini"», osserva Jenkins. Oggi, invece, occorre dirigersi Verso un'intelligenza digitale sempre più matura e avvertita, per dirla con Antonio Battro e J. P. Denham (Ledizioni), che offrono una ulteriore chiave di lettura delle nostre capacità di base, la cosiddetta «opzione click».
Perché ci è così naturale premere pulsanti, o aprire e chiudere manopole o circuiti elettrici? Questa "abilità digitale" – di tipo pragmatico, che nulla ha a che vedere con la più astratta matematica binaria che fa funzionare i computer – getta le sue radici nella storia evolutiva dell'uomo, è una risposta ai problemi di sopravvivenza e riproduzione affrontati nel Pleistocene. È un'opzione sì/no che ci è familiarissima fin da quando veniamo allattati. Anche un bambino che non sa né leggere né scrivere può attivare un collegamento ipertestuale e muoversi all'interno degli ipertesti attraverso una semplice serie di click, esplorando ambiti conoscitivi e pratici per mezzo di decisioni elementari.
Ogni ulteriore intelligenza digitale parte da lì. Da una facoltà condivisa con primati e altri animali, da adulti e da bambini che si attaccheranno sempre più volentieri al mouse a scapito del ciucciotto. E che saranno pronti ad usarlo per aprire nuovi mondi, affrontare sfide e inediti problem solving, continuando a rimodellare il proprio cervello per i cent'anni che si aspettano di vivere. Ineffabili, inafferrabili per i nostalgici di inesistenti età dell'oro cognitive, o per i predicatori di imminenti apocalissi.
«Il Sole 24 Ore» del 2 gennaio 2011

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