25 ottobre 2010

I grandi traumi si superano inventandosi una nuova vita

Una sola strada: bisogna adattarsi alle diverse situazioni
di Francesco Alberoni
Il benessere, la felicità non durano mai a lungo. Gli antichi quando erano felici temevano «l'invidia degli dei». Ma non è necessario invocare gli dei, spesso basta l'invidia degli uomini. È facile passare dall'applauso alla gogna, dalla gloria all'insulto. Socrate è stato condannato a morte, Scipione all'esilio, Galileo imprigionato, il «creatore» della chimica Lavoisier ghigliottinato fra gli insulti del popolo. Ma il più delle volte il nostro benessere e la nostra felicità non finiscono a causa dell'invidia, ma per un incidente, una grave malattia, un disastro economico. E in tutti i casi il trauma è sempre improvviso, inatteso e noi reagiamo con incredulità. Ci sembra un incubo da cui possiamo svegliarci. Ci sforziamo di continuare la nostra vita normale. E solo lentamente e con angoscia ci rendiamo conto che non è un sogno, ma la realtà.
Per superare il trauma, per continuare a vivere, per ritrovare la serenità c'è solo una strada: accettare la nuova situazione, capirla, adattarsi a essa. È come essere sbarcati in un mondo nuovo e sconosciuto, non possiamo conservare le abitudini di un tempo e farci prendere dal rimpianto del passato. Dobbiamo imparare rapidamente a vivere nel nuovo ambiente, studiarlo, cercare quali sono le opportunità che ci offre, sfruttarle. Questo atteggiamento vale di fronte a una malattia che ti obbliga a fare dellelunghe cure, o che ti lascia debilitato e che ti costringe a cambiare completamente abitudini. Ma vale anche quando perdi un lavoro e devi accettarne un altro, magari più umile. O cambiare radicalmente. Ricordo dei miei amici intellettuali ungheresi che dopo la rivoluzione sono emigrati: qualcuno è rimasto in università, altri si sono messi nel commercio.
I colti ebrei dei Paesi orientali costretti a fuggire dalla miseria, dai pogrom e dalle persecuzioni, arrivati nel Nuovo mondo sono diventati commercianti, banchieri, orefici, scrittori, musicisti, cineasti, hanno creato Hollywood.
Tutto questo vale anche oggi con la globalizzazione, la concorrenza cinese, il vertiginoso sviluppo tecnologico. In poco tempo la società si è trasformata e i vecchi mestieri, le vecchie attività sono scomparsi. La scuola prepara ancora per professioni che non esistono più. In questo territorio ignoto cosa si deve fare? Osservare le gente, vedere cosa le manca, di cosa ha bisogno: lì ci sono opportunità, lì occorrono mestieri nuovi. Non serve andare, perciò, dove vanno tutti, ma dove vanno solo in pochi e dove c'è una forte domanda.
«Corriere della sera» del 25 ottobre 2010

24 ottobre 2010

Sì, viene il tempo della speranza

Secolarizzazione della secolarizzazione
di Francesco D'Agostino
Meriterebbe un premio chi ha inventa­to l’espressione 'secolarizzazione della secolarizzazione'. Questo modo di dire coglie nel segno, perché ci induce a prendere atto di un fatto ormai indubita­bile, anche se non ancora avvertito da tut­ti. La secolarizzazione si sta sgretolando, anzi si è ormai già sgretolata sotto i nostro occhi; si sta svuotando del rigido dogma­tismo che la caratterizzava, quello che vedeva nella laicità antiecclesiale il destino supremo dell’epoca moderna, quello che riteneva la religione un sentimento nobi­le, ma da confinare nell’interiorità personale, quello che faceva assurgere la rivendicazione dell’autonomia individuale a insindacabile principio etico fondamentale. La secolarizzazione si sta finalmente secolarizzando: questo non significa automati­camente che si stia realizzando il 'ritorno di Dio', come qualcuno ha ipotizzato, ma che la si sta smettendo di ripetere che la religione è cosa del passato. Sta ritornan­do con forza la consapevolezza che la ri­cerca di Dio, o più laicamente di un valore assoluto insito nell’uomo e nelle sue espe­rienze, è cosa del passato e assieme del pre­sente e del futuro. La crisi della secolarizzazione è innegabi­le: l’ammettono anche coloro che Gian­carlo Bosetti ha efficacemente chiamato i 'laici furiosi', quelli che sostengono che a questa crisi vanno addebitati il ritorno a guerre di religione, l’esplodere della xe­nofobia, il divampare del fondamentalismo religioso. Fenomeni pesanti e concretissi­mi, però non espressivi di tutta la com­plessità del tempo in cui viviamo, che ac­canto ad essi ne contiene altri, assoluta­mente positivi: basti menzionare, per fare un solo esempio, la crisi dell’individuali­smo libertario e il correlativo dilatarsi del­la comunicazione globale, che va interpre­tata (anche se con qualche ottimismo, lo riconosco) come il ripresentarsi nel nostro tempo delle antiche, ma non per questo antiquate, istanze del giusnaturalismo. La globalizzazione ci induce infatti a pensare che, per quanto diversi siano i sistemi so­ciali, le culture, le credenze, esiste comun­que un solo e oggettivo bene umano e che è non solo dovere, ma interesse di tutti pro­muoverlo.
Se si è convinti che la secolarizzazione si sta secolarizzando, ne segue che bisogna co­minciare a riflettere sul fatto che ciò non può non comportare problemi diversi e i­nediti per i cristiani e in particolare per i cattolici. Bisogna abbandonare le vesti vec­chie e indossarne di nuove. Ad esempio, anche se nel brevissimo periodo la cosa po­trà apparire ancora poco evidente, biso­gnerà prendere atto che alcune battaglie sono state già vinte, nel senso che appar­tengono ormai al passato: si pensi ad e­sempio a quella contro il marxismo e le sue più esasperate forme di secolarismo atei­stico, quali lo stalinismo e il maoismo (i re­sidui cinesi del marxismo, per quante vio­lenze e sofferenze stiano ancora produ­cendo, non hanno alcun futuro, anche se i tempi della storia sono imprevedibili). A­nalogamente vinta è la battaglia contro lo scientismo e in particolare contro il natu­ralismo darwiniano, che non è riuscito a dimostrare la fondatezza delle sue pretese di fornire una spiegazione esauriente del­la realtà, marginalizzando le questioni eti­che e bioetiche. Battaglie nuove ci attendono: la crisi del­l’individualismo deve portarci a riscoprire nella sua profondità il carattere ecclesiale della fede cristiana; le nuove forme globa­li di violenza e di conflitto rendono urgente una rinnovata predicazione che, come ci ha insegnato il Papa, abbia per oggetto la speranza; l’inarrestabile formalizzarsi del discorso giuridico moderno deve indurci a rivitalizzarlo attraverso un’incessante riproposta della solidarietà interpersonale, come valore politico fondamentale. Divie­ne sempre più urgente, in un orizzonte globale, che ad ogni interlocutore i cristiani annuncino Cristo come il Figlio dell’uomo, evitando che Egli venga percepito come il prodotto storico della tradizione occidentale e della sua arroganza. Sarà in grado il cristianesimo di cogliere nella secolarizzazione della secolarizzazione nuove e fino ad oggi impensate possibilità di parlare a­gli uomini dell’incarnazione di Dio?
«Avvenire» del 22 ottobre 2010

Stati vegetativi, nessuno segue le orme di Englaro

Tre anni dopo la clamorosa sentenza della Cassazione sulla vicenda di Eluana, che ribaltò una consolidata giurisprudenza, nessun congiunto di malati in stato vegetativo ha approfittato di questo squarcio nell’ordinamento, né ha seguito Englaro sulla via giudiziaria da lui ostinatamente aperta nel nostro ordinamento. I motivi? A ben vedere, erano già chiari prima della decisione
di Claudio Sartea
È appena trascorso il terzo anniversario della sentenza con cui la Cassazione impresse una svolta alla lunga e tormentata vicenda giudiziaria di Eluana Englaro, da alcuni rappresentata più che altro come la tenace battaglia forense del padre e tutore della donna in stato vegetativo. Comunque la si voglia considerare, si è trattato di una storia tragica e straziante che anche a livello di opinione pubblica e di dibattito politico e culturale lacerò gli animi e contrappose talora aspramente differenti punti di vista. Le istituzioni si affrettarono a rassicurarci impegnandosi ad approvare in tempi rapidissimi un testo di legge che scongiurasse simili drammi, ma a tutt’oggi questo testo non ha visto la luce, e dopo l’approvazione in Senato è da mesi all’attenzione dei deputati della Repubblica. Il trascorrere del tempo non è stato comunque privo di significato: anzi, in un certo senso la lentezza del dibattito parlamentare ha messo in mostra la problematicità di diverse questioni. Nel frattempo è progredito anche il livello delle conoscenze scientifiche, che attraverso gli esperimenti di risonanza magnetica funzionale sulle aree cerebrali, di cui è stato pioniere Adrian Owen con la sua èquipe di Cambridge, hanno confermato sul piano empirico quel che già molti intuivano, vale a dire che le persone in stato vegetativo non solo sono vive e quindi meritevoli del pieno rispetto, sono talora capaci d’intendere e volere, pur senza poterlo manifestare.
Pertanto, lungi dal configurare un accanimento terapeutico, la somministrazione a ognuno di essi delle cure di base è doverosa, mentre per quel che riguarda ulteriori iniziative cliniche, con parole di Owen, «il problema etico è la proporzionalità delle cure, ovvero applicare a un malato terapie commisurate alla prognosi e alle previsioni che si possono fare sul suo stato neurologico futuro». In realtà c’è anche un’altra considerazione che è importante fare, a tre anni dalla sentenza. Non mancarono infatti voci che salutarono quella decisione di Cassazione come l’inaugurazione al massimo livello di una giurisprudenza finalmente innovativa in tema di fine vita. Parve a costoro che con la definizione giudiziaria del caso Englaro fosse finalmente possibile dare libero corso a tutte le opzioni: quelle di chi avrebbe comunque insistito per la tutela a oltranza della vita, ma anche quelle di quanti in base a una diversa valutazione degli stati vegetativi e del rapporto tra tecnica, medicina e umanità, da tempo chiedevano il riconoscimento giuridico dell’interruzione delle cure vitali.
Se questa lettura della vicenda fosse stata corretta, avremmo assistito in questi tre anni al moltiplicarsi di casi, a maggior ragione come conseguenza dell’inerzia prolungata del legislatore. Ma nessuno ha «approfittato» di questa possibilità, nessuno ha poi seguito Englaro sulla via giudiziaria da lui così faticosamente aperta nel nostro ordinamento. Si possono dare diverse spiegazioni del fenomeno: quella che mi sembra più plausibile è che i comuni legami affettivi tuttora spingano quanti avrebbero la possibilità legale di prendere certe decisioni, a fare invece ricorso a tutte le risorse che la scienza e la tecnica mettono a disposizione, per continuare a sperare finché la medicina non si arrenda all’inevitabile, o comunque ravvisi il rischio di una palese incongruenza tra risultati di cura e costi, anche solo umani, del trattamento (e in questo, né più né meno, consiste il cosiddetto «accanimento terapeutico», da condannare sia sul piano etico e legale, che su quello tecnico­medico).
Si fa strada, allora, l’inquietante sensazione che l’assolutezza del cosiddetto «diritto di autodeterminazione», da alcuni sbandierata senza ritegno in quei mesi dolorosi, abbia più che altro un valore ideologico, poco assistito da riscontri sociali: tutt’al più, si può pensare che magari in astratto siano molti a sostenere la priorità delle individuali libere volizioni, ma poi, nel momento del bisogno, si preferisca lasciar fare ai familiari e ai medici, alle persone che ci vogliono bene e a quelle che sanno come prendersi cura di noi. Tenuto conto della notorietà del caso Englaro, rimane davvero modesto il numero di «testamenti biologici» a contenuto eutanasico redatti (senza nessun valore legale, ma pur sempre simbolicamente significativi); ed è difficile non trarne la conclusione che l’esperienza di un triennio ci conferma che a fronteggiare l’orientamento adottato in quella circostanza dalla Cassazione non fosse qualche contro-ideologia più o meno religiosamente ispirata, bensì un comune senso di umanità, in fondo più coerente con l’autentico progresso della medicina e con il senso del diritto come presidio dell’uomo.
«Avvenire» del 27 ottobre 2010

23 ottobre 2010

Sognate ancora il posto pubblico? In Europa stanno cambiando idea

Il vento freddo dell’austerità
s. i. a.
Dai colpi di scure inglesi ai tagli francesi, spagnoli, tedeschi e lituani, le manovre anticrisi demoliscono un mito dorato
C’era una volta il posto pubblico: fisso, inamovibile, a volte fannullone, con lo stipendio indicizzato all’inflazione, ferie abbondanti, tredicesime e quattordicesime, pensioni più ricche e prepensionamenti più facili. Era il posto di lavoro sognato da tre generazioni di europei in nome della sicurezza, dello status e dei privilegi derivanti dall’essere “fonctionnaire”, “civil servant”, “regierungsbeamter” o “funcionario público”. Lo “statale”, a differenza del dipendente privato, non solo non era licenziabile: non correva nemmeno il rischio del fallimento del datore di lavoro. Ma da quando la crisi greca ha ricordato all’Europa che anche uno stato può fare bancarotta, il funzionario della Pubblica amministrazione è diventato un po’ più come gli altri. E il mito del posto pubblico non c’è più. Dai britannici liberisti ai francesi statalisti, per ridurre deficit stratosferici e rassicurare i mercati, tutti hanno iniziato a tagliare stipendi, bonus e dimensioni della burocrazia pubblica.

Il record va al britannico David Cameron con i 490 mila “civil servant” cancellati dalla Spending Review. In realtà potrebbero essere di più, dice il Chartered Institute of Personnel and Development: “750 mila entro il 2015/16 se la coalizione rispetterà i suoi piani di spesa di lungo periodo”. Quelli che andranno in pensione non saranno sostituiti, ma gran parte saranno semplicemente licenziati. In Francia Nicolas Sarkozy ha deciso di bloccare gli stipendi e non rimpiazzare la metà dei “functionnaire” che vanno in pensione: dal 2007 sono scomparsi 100 mila posti, nel 2011 ne spariranno altri 31.638. In Portogallo, dopo aver congelato i salari nel 2010, il socialista José Socrates sta per annunciare un’altra mannaia: stipendi ridotti del 5 per cento e stop a promozioni e assunzioni. A inizio mese, il premier spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero ha detto che ci vorranno almeno tre anni affinché i “funcionarios” recuperino il taglio del 5 per cento di stipendio deciso in primavera. In Irlanda, dove i salari sono stati ridotti del 14 per cento, l’accordo tra governo e sindacati per stringere ancora sui funzionari è in bilico.

In Grecia il governo di George Papandreou ha ridotto gli stipendi pubblici, bloccato le assunzioni, aumentato l’età pensionabile e amputato tredicesime e quattordicesime. A inizio mese i precari del ministero della Cultura hanno occupato l’Acropoli contro il mancato rinnovo del contratto, allungando la lista di controllori aerei, portuali e ferrovieri in sciopero da mesi. Il 21 settembre, la Repubblica ceca ha assistito alla più grande manifestazione dalla caduta del comunismo: 40 mila funzionari nelle strade di Praga contro il taglio salariale del 10 per cento. In Ungheria il premier Viktor Orban ha limitato gli acquisti di auto e telefoni di servizio. In Lettonia, gli statali hanno perso in media il 30 per cento di reddito. Nessuno è risparmiato, nemmeno la ricca Germania: Angela Merkel ha annunciato la scomparsa di 15 mila funzionari entro il 2014. L’austerità ha colpito perfino la nuova frontiera del posto pubblico: quella ricca, cosmopolita e ambita dei funzionari dell’Unione europea. Alle prese con ristrettezze di bilancio, la Commissione ricorre a lavoratori interinali e contratti temporanei, rinunciando a rimpolpare le file permanenti dell’Eurocrazia. Dopo aver dimezzato gli aumenti di quest’anno, ora vuole tagliare lo stipendio degli euroburocrati dello 0,4 per cento.

«Il Foglio» del 22 ottobre 2010

18 ottobre 2010

Ecco perché chi ha talento oggi fa fatica a emergere

di Francesco Alberoni
Ci sono dei luoghi in cui, per un certo periodo, fioriscono i geni, in seguito torna la mediocrità. Atene fra il 450 e il 350 ospitava figure come Socrate, Platone e Aristotele, poi nulla. L'Italia ha avuto lo splendore del Rinascimento, poi le occupazioni straniere e la decadenza. Alla fine del secolo a Vienna c'erano Freud, Klimt, Mahler poi il deserto. In Francia negli anni Sessanta e Settanta Sartre, Simon de Beauvoir, Levy Strauss, Barthes. Oggi non c'e più nessuno come loro. In tutta Europa la cultura sembra avvizzita.
Perché? Perché non nascono più persone di genio oppure perché il nuovo ambiente non le aiuta a crescere, ad affermarsi, ma le ostacola e valorizza altri tipi di personaggi? Io credo che sia questa la vera causa. Quand'è che fioriscono i geni? Quando la società ha slancio, ottimismo, fame di futuro e quindi di persone competenti e geniali. Come in Italia nel dopoguerra, quando tutti volevano lasciarsi alle spalle la miseria e creare prosperità. Ed erano pronti a lavorare duramente, a prodigarsi. Gli operai lottavano per diventare piccoli imprenditori, gli studenti facevano a gara per sapere di più. I più bravi erano subito richiesti dalle imprese. In una piccola città come Pavia gli studenti universitari più brillanti erano conosciuti da tutti e ricercati dalle ragazze.
Poi è venuta la globalizzazione e una crisi dei sentimenti morali collettivi. Abbiamo una popolazione invecchiata, una economia stagnante, una scuola scadente, una università satellite di quelle anglosassoni, con studenti che non hanno più la passione del sapere. Fra cui si è radicato il devastante convincimento che chi fa bene, chi si prodiga, chi lavora duramente, chi merita, non verrà ricompensato, non avrà successo. Mentre riuscirà chi è spregiudicato, chi appare in televisione, chi trova protezioni politiche.
Si è diffusa l'idea che siamo in una «società liquida» in cui non conta ciò che hai fatto, non valgono la lealtà, la parola data. Cosa non vera perché se non resistessero questi valori la società smetterebbe di funzionare. E anche nel lavoro vediamo che i giovani preparati, pronti a lavorare e ad adattarsi, lo trovano. Ma con più fatica. Come fa più fatica chi ha grandi doti e si trova in un ambiente culturale che non lo aiuta e non lo capisce. Per riuscire deve avere una grande fede, un grande ideale e una fiducia di fondo nella natura umana per vincere ogni giorno la sfiducia, il cinismo, l'indifferenza di chi lo circonda.
«Corriere della Sera» del 18 ottobre 2010

Filosofi, quei teorici dell'amore erano in realtà dei pasticcioni

Passioni - Viaggio tra i sentimenti dei pensatori
di Armando Torno
Pico della Mirandola rapiva le amanti, Rousseau abbandonava i figli
Gran bel guaio l'amore. Per capire cosa sia, più che poeti o letterati è bene interrogare i filosofi; diffidate però dal seguirne i consigli pratici. Nelle faccende sentimentali furono, nei casi migliori, dei pasticcioni. Questa categoria, per ironia della sorte, sa teorizzare cose meravigliose in materia e le concretizza malamente. Certo, ci sono stati degli sciupafemmine, come Giacomo Casanova (si autoincluse tra i pensatori: «Ho vissuto da filosofo, muoio da cristiano»), ma aveva l'abitudine di comperare case per le conquistate e di offrire ai parenti un pranzo sontuoso: due elementi che avrebbero fatto crollare anche una castità ferrea. È pur vero che Giovanni Pico della Mirandola rapì l'amante, ma il simpatico gesto della mente più fascinosa di ogni epoca finì con una quindicina di morti. Ci volle l'intervento di Lorenzo de' Medici per evitargli il carcere.
Tra i pochi coerenti c'è Arthur Schopenhauer: per lui l'amore va considerato un inganno della natura, indispensabile per perpetuare la specie. I sensi ci imbrogliano, facendoci vedere quello che non esiste; esaltano, turbano, alterano e noi procreiamo. Dopo, si sa, giungono noia e indifferenza o, come già ricordavano i latini, la «tristitia post coitum». I cacciatori di sciocchezze sentimentali possono frugare a volontà nelle opere dell'attento Arthur, ma da esse escono a mani vuote; riescono, caso mai, a trovare qualche frammento nelle lettere o nelle testimonianze dei suoi frequentatori. Conobbe tuttavia diverse signore. Il consigliere governativo Eduard Krüger - conversava con il filosofo negli ultimi anni francofortesi - riferisce che «era stato fidanzato a Firenze con una donna di alto lignaggio, ma che aveva rotto dopo aver appreso che costei era malata di polmoni». In una lettera alla sorella Adele (talmente brutta che non riuscì a trovare marito), Schopenhauer parla di una storia a Venezia; ma nella città lagunare egli frequentò tale Teresa Fuga, con cui ebbe in comune il solo sfogo dei sensi. Costei, nella primavera del 1819, gli invia una lettera per confermargli un incontro. Missiva sgrammaticata sino al comico, che rivela una disinvoltura di costumi: la vispa Teresa chiede ad Arthur di trascorrere un po' di tempo con lei, anche se ha un amico, una relazione con un impresario e degli inglesi che vanno e vengono. Il traffico nella camera di madame ha delle pause e il filosofo potrà trasformare le sue teorie sul sesso in realtà.
Un altro che a Venezia si diede un gran da fare con le signore di larghe vedute morali fu Jean-Jacques Rousseau. Il pensatore che metterà i suoi cinque figli ai trovatelli dopo aver meditato la scelta su Platone, nelle Confessioni ricorda quel che combinò, e relative paure: a seguito di un amplesso con «la Padoana» chiama un medico, il quale lo cheta e gli assicura che è «conformato in modo particolare» e non può «essere facilmente infettato». Forse per non correre rischi di codesto genere, con un suo sodale compera «una bambinetta di undici o dodici anni», con cui però sembra che non abbia consumato («bisognava aspettare che si fosse sviluppata»). Il resto è il caso di risparmiarlo, ma non manca nemmeno una visita alle giovani fanciulle dei Mendicanti, tutte bruttine. Non è il caso di stupirsi. Sull'onda del '68, e delle liberazioni dai vincoli borghesi, Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Michel Foucault, Jack Lang, futuro ministro francese, firmarono una petizione in cui si chiedeva la legalizzazione dei rapporti sessuali con i minori.
Kant, invece, ebbe poca considerazione per donne, innamoramenti e matrimonio (anche per la musica, in verità: amava soprattutto le fanfare); Kierkegaard sublimò il rapporto con la fidanzata e riuscì a non sposarla; Nietzsche sapeva creare il superuomo, annunciare la morte di Dio ma per rispondere ai bisogni della natura si rivolgeva ai bordelli (e sovente non riusciva a placarli nemmeno lì). Gli piacevano «giovani, belle, alte, bionde» ma le dannate non ricambiavano con analogo ardore. Oltre le disavventure con Lou von Salomé - che riuscirà a irretire anche Rilke e Freud - Nietzsche, tra l'altro, per l'uscita della Nascita della tragedia ricevette una lettera da tale Rosalie Nielsen alla quale, per dirla in breve, fissò un appuntamento in un hotel di Friburgo. Entrato in camera, vide «una donna appassita, di una bruttezza ripugnante, vestita a sghimbescio, sudicia». Se la diede a gambe, urlando: «Mostro, mi hai ingannato!».
Si potrebbe continuare con le corna che fece (e subì) Heidegger, con gli antichi cinici che espletavano in pubblico i loro impulsi, con Sant'Agostino che prima della conversione la sapeva lunga e anche con le pensatrici. Ma sono storie infinite. E siccome stiamo presentando una nuova edizione dell'Enciclopedia Filosofica, preferiamo rimandarvi ai volumi in uscita.
«Corriere della Sera» del 18 ottobre 2010

16 ottobre 2010

Il bambino è malato? Allora la madre surrogata deve abortire

Cronache eterologhe
di Nicoletta Tiliacos
Una coppia di Vancouver ha voluto che la donna da cui aveva affittato l’utero non partorisse il figlio Down
Cronache dal Mondo Nuovo. Dopo aver fatto ricorso all’utero in affitto per avere un figlio, una coppia di Vancouver ha scoperto con l’amniocentesi che il bambino atteso era affetto da sindrome di Down. A quel punto, ha preteso che la “madre surrogata” abortisse. La vicenda è finita sui giornali canadesi solo perché la madre surrogata all’inizio si è rifiutata di dar seguito alla richiesta della coppia. Ne è nato un contenzioso – davvero degno della fantasia di Huxley e del suo “Brave New World” – sul valore dell’accordo privato concluso in precedenza, che garantiva ai committenti la possibilità di rifiutare un figlio malato. I due genitori biologici hanno annunciato che se il bambino fosse nato (ma alla fine l’aborto c’è stato), loro non avrebbero assunto nei suoi confronti nessuna responsabilità. E’ la logica commerciale: c’è una coppia di committenti, c’è una prestatrice d’opera (ufficialmente a titolo di solidarietà, perché le regole canadesi lo richiedono, ma un pagamento c’è: lo chiamano “rimborso spese”), c’è un prodotto che deve rispettare certi standard. Se il prodotto è difettoso, il committente recede, e con lo stesso diritto con cui si noleggia una donna per una gestazione, le si intima di interromperla.
Intervistata dal quotidiano National Post, Juliet Guichon, bioeticista dell’Università di Calgary, avanza dubbi sull’applicazione di “regole commerciali al concepimento di figli”. Sally Rhoads, che con il sito Surrogacy in Canada assiste le coppie che ricorrono all’utero in affitto, pensa invece che “le parti dovrebbero accordarsi fin dall’inizio sul da farsi, e garantirsi di pensarla nello stesso modo sull’aborto”. La contrattualistica procreativa va solo perfezionata. Alcuni stati americani consentono alla coppia committente di portare in tribunale la fornitrice di utero, allo scopo di recuperare il compenso già corrisposto, se questa si ostina a voler partorire un bambino nel frattempo diventato indesiderato. In Canada, in altri tre casi di rottura imprevista del contratto di maternità surrogata (le coppie committenti avevano divorziato mentre le gestazioni erano in corso), le fornitrici di utero hanno deciso di partorire e di tenere con sé i bambini, dei quali sono diventate madri a tutti gli effetti.
Questo accade nel mondo ricco. “E’ etico pagare i poveri del mondo per far loro partorire i nostri bimbi?”, si chiedeva un anno fa Vanity Fair, con un impressionante reportage sulle moderne schiave indiane dell’utero in affitto. I signori Pankert di Tubinga – uno storico dell’arte lui e una direttrice di banca lei – si sono risposti di sì. E visto che la Germania proibisce severamente sia l’eterologa femminile sia l’utero in affitto, si sono rivolti a una delle tante cliniche indiane della fertilità. Sono nati i gemelli Jonas e Philip, frutto di una fornitura di ovociti e di utero in affitto da parte di due diverse donne indiane, al modico prezzo di seimila euro. Ma i bambini, scrive lo Zeit, vivono ancora a Jaipur con il padre, perché non hanno passaporto. Sono tedeschi, dicono le autorità indiane, che consentono ormai tutte le pratiche eterologhe, per coppie e per single, ma non intendono dare la cittadinanza alle centinaia di bambini che ogni anno nascono nel paese grazie a quelle pratiche. Sono indiani, replicano i tedeschi, per i quali vale la nazionalità della donna che ha partorito i gemelli.
«Il Foglio» del 16 ottobre 2010

15 ottobre 2010

L'universo simbolico avviato al macero

Agonia dei classici
di Federico Condello
I corsi di laurea in lettere classiche sono tra le vittime principali del decreto emanato il 22 settembre. A venire minacciati sono dunque i pilastri della formazione umanistica. Dibattere il problema come fosse di destra o di sinistra è sintomo di perversione ideologica. Marx non si è forse formato sui materialisti antichi? Nelson Rockefeller non faceva l'apologia dei latini? Non sono neolatini i primi versi di Rimbaud, o Sebastiane, il primo lungometraggio di Jarman?
Marx e Rockefeller, Luigi XVI e Robespierre, Gramsci e Giovanni Gentile, Shakespeare e Derek Jarman o Leopardi e Rimbaud, sono stati tutti allievi dello stesso genere di scuola? Ed è magari la stessa scuola già frequentata da Virgilio e da Agostino? Ben strana foto di classe. Ma con qualche gusto del paradosso, e con una punta di conservatorismo à la Curtius, si potrebbe facilmente sostenerlo, in nome di una tradizione educativa secolare fondata sugli studia humanitatis: Marx non si è forse formato sui materialisti antichi? Nelson Rockefeller non invitava alle letture latine in originale? Luigi XVI non elogiò lo studiosissimo Robespierre, alunno del Collegio Louis-Le Grand? Non sono neolatini i primi versi di Rimbaud, com'è neolatino Sebastiane, il primo lungometraggio di Jarman? E via citando, in un accumulo di exempla volti a dimostrare l'eterna esemplarità del modello educativo «classico». Niente è noioso, purtroppo, come il ricorrente dibattito sui danni e l'utilità di questo modello: forse nemmeno le terze declinazioni del greco e del latino. Ma il dibattito sarà inevitabile, perché è ancora tempo di riforme, per il sistema universitario nazionale: riforme che questa volta si annunciano radicali; e a repentaglio sono alcuni pilastri della formazione sin qui praticata, dei cui usi o esiti si può discutere, ma che certo non si può serenamente liquidare.

Dementi schieramenti
Scriveva anni fa Ivano Dionigi, oggi Rettore dell'Università di Bologna: «una perversione ideologica ben nota ha identificato i difensori dei classici nei conservatori e i detrattori negli innovatori: come se il latino e il greco fossero di destra, e il computer e l'inglese di sinistra». Alternative appunto risibili, poiché tutto dimostra quanto siano variabili gli effetti dello stesso paradigma pedagogico. Si pensi - diciamo per amor di patria - al nostro Risorgimento: lo studio dell'antico - annota Massimo D'Azeglio - «era ed è uno de' pochi studi possibili sotto il governo de' preti. Ci vorrebbe un bel talento a scoprirvi tendenze sovversive». Ma al giudizio replicavano implicitamente tanti rivoluzionari della sua e della passata generazione: Girolamo Bocalosi, autore del libello Dell'educazione democratica da darsi al popolo italiano nel 1797 si augurava che sulle vie delle città italiane si ponesse «una testa di Bruto nel muro in vece di una Madonna dipinta»; De Sanctis giudicava gli eroi della rivoluzione «figli degli eroi di Plutarco»; Giuseppe Cesare Abba ricordava i «Mille» come «giovani» nutriti di «letteratura classica»; e Giovanni Ruffini, nel 1853, così riassumeva il paradosso: «Cosa strana ma vera! La pubblica educazione in Piemonte era affatto repubblicana! La storia di Grecia e di Roma, l'unica cosa che ci fosse insegnata con molta cura nel collegio, era un vero panegirico del reggimento democratico». Sembra di sentire il Marcuse pre-sessantottino dell'Uomo a una dimensione: «i privilegi culturali esprimevano l'ingiustizia nella sfera della libertà ... ma fornivano pure un regno ben protetto in cui le verità proibite potevano sopravvivere, ben al riparo dalla società che le sopprimeva».
Fuori d'Italia, è quasi superfluo ricordare il classicismo comune a giacobini e anti-giacobini. In tempi più vicini a noi - ancora in Francia, ma in pieno '68 - non si può dimenticare l'operato politico di Edgar Faure, nemico del latino a scuola in quanto «freno alla democratizzazione»; gli replicarono, da destra e da sinistra, apologeti concordi nel fine ma non negli argomenti: gli studi classici andavano difesi e diffusi, sì, ma perché? Perché sono un baluardo contro la propaganda comunista; oppure un antidoto all'«americanizzazione» della cultura; oppure un rimedio preventivo alla creazione di scuole tecniche per proletari e scuole classiche per élites borghesi. Del resto, la riforma Gentile, cui dobbiamo l'indiscusso primato del liceo, e tra i licei del classico, era indirizzata - parole del riformatore - contro «la folla che guasta la scuola classica» e pretende di «dare la scalata alle università»; e il pedagogo fascista Nazzareno Padellaro poteva scrivere che «il latino è antimarxista. È difficile che un uomo vaccinato da un'ode di Orazio possa essere vittima di un'epidemia marxista». Sia pure: ma passati Ventennio e guerra, dalle file del Pci poterono levarsi voci pro e contro gli studi classici, da una parte giudicati patrimonio esclusivo della propaganda fascista, dall'altra difesi quale garanzia contro la forzata riduzione degli studenti proletari a manzoniani «vili meccanici». E se già Gramsci aveva elogiato lo studio del latino e del greco proprio in quanto «lingue morte», se il comunista Paolo Bufalini, il «cardinale rosso», poteva tradurre Orazio senza timore di «vaccini» anti-marxisti, e se il comunista-latinista Concetto Marchesi poteva scrivere che «la cultura umanistica giova a tutti», un liberalsocialista come Guido Calogero si scagliava, tra anni '50 e '60, contro gli «schiavi della Facoltà di Lettere e Filosofia» e contro il «panlatinismo» della scuola media: «In Inghilterra tutti i ragazzi delle scuole bevono ogni mattina, a spese dello Stato, mezzo litro di latte. In Italia, bevono latino».
Eppure la scuola media unica del '62 è figlia dell'articolo 34 della Costituzione, e perciò è gratuita e obbligatoria; ma è nata stracolma di latino e di umanesimo, come la scuola elitaria del Fascismo. Se per secoli gli studi classici si sono difesi in nome delle «origini» e delle «radici» - memorabile il giudizio del Ministro Moratti, anno 2001: il liceo classico è fondamentale perché «è importante la memoria del nostro passato e delle nostre tradizioni» - non è meno vero che dei classici si può elogiare la funzione culturalmente «antagonistica», come sosterrebbero, tra gli altri, Cacciari o Fumaroli; o vi si può vedere come fa Settis in Futuro del classico (Einaudi, 2004), un'«efficace chiave d'accesso alla molteplicità delle culture del mondo contemporaneo»: tesi che ribalta ogni cliché conservatore, perpetuando però i privilegi dell'educazione più tradizionale: in un panorama di culture mobili e meticce, il classico può davvero vantarsi - per parafrasare Orwell - «più diverso degli altri»?

Qual è la posta in gioco
Insomma, è bene ammettere che non si potrà mai decidere, una volta per tutte, se gli studi classici siano di destra o di sinistra. Oggi però, al di là di parti e partiti, un drastico mutamento del paradigma educativo pare imminente: ed è difficile non vedervi annunciata una cultura più fragile e sradicata, perché meno connessa a discipline che secoli di pratica non rendono vecchie, bensì sempre aggiornate e sempre vigili. Negli anni '20, Mussolini definiva il progetto Gentile «la più fascista delle riforme»: per dirla con Calogero, «un dittatore altruista, non sapendo il latino, pretendeva che tutti gli altri lo imparassero». Oggi il Presidente del Consiglio difende, con analogo entusiasmo, la riforma Gelmini, le cui sorti appaiono più che mai legate alle sorti del Governo e della Legislatura. Intanto i ricercatori e i docenti tutti si mobilitano, per sollecitare una presa di posizione unanime contro le politiche legislative e finanziarie di un Governo che riforma «a costo zero» e taglia ciecamente il Fondo di Finanziamento Ordinario degli Atenei, in un paese che già si segnala, tra gli stati dell'Ocse, per la scarsa percentuale del Pil investita in ricerca e in istruzione. È la cronaca di questi giorni, ed è nota a tutti. Può essere significativo, in questo quadro, un richiamo alle sorti degli studi umanistici, con tutte le ambiguità politiche che il tema - come si è visto - reca con sé? Lo è senz'altro quale test di una tendenza più generale, che prevede come fine ultimo - plateale e indiscutibile - l'estinzione del sistema universitario vigente: che è sistema pubblico e democratico, in precario equilibrio fra ideali «di massa» e ideali «d'eccellenza», fra laboratorio di ricerca e teaching university; un sistema senz'altro colmo di pecche e bisognoso di riforme, ma non barattabile, in nessun caso, con l'assenza di un'alternativa ugualmente pubblica e democratica. Qui è il punto, e qui è la posta in gioco.
Già negli scorsi mesi, un commentatore autorevole come Asor Rosa ha segnalato, dalle colonne della Repubblica e del manifesto, il rischio di una progressiva scomparsa dell'italianistica, a fronte di una riforma che impone fusioni di Dipartimenti e riordino o rifondazione delle Facoltà. Allarmismo forse eccessivo, perché la razionalizzazione delle strutture esistenti non implica di per sé l'abolizione di singole discipline o insegnamenti. Certo è che nel generale dibattito sul Ddl 1905 e sui tagli di Tremonti rischia di sfuggire una novità rivoluzionaria, che già impegna gli Uffici Didattici di tutta l'Università italiana: l'emanazione del Decreto 17/2010, che il ministro Gelmini ha annunciato, come en passant, nella stessa conferenza stampa del 30 settembre in cui - affiancata dal ministro Tremonti - ha promesso denaro alle Università e concorsi straordinari ai ricercatori. Nelle parole della Gelmini, «il piano di programmazione triennale 2010-2012 prevede la fine dei corsi di laurea inutili». E per convincere l'opinione pubblica che i «corsi di laurea inutili» non mancano, usa citare - sono esempi ormai proverbiali - i corsi in «Benessere del cane e del gatto» o in «Scienze del fiore e del verde». Giova dunque ricordare che tra i caduti - nella misura di un probabile 20%: ma è stima al ribasso - non mancheranno, tra gatti e fiori, curricula canonici come le «Lettere classiche», per tacere di altri indirizzi ritenuti «di nicchia», e cioè rilevanti per identità culturale più che per popolosità numerica, sia in ambito umanistico che in ambito scientifico: corsi di destra o di sinistra? Tagli di destra o di sinistra?

La conoscenza del conosciuto
La questione, come si è visto, è storicamente irresolubile: restano però i tagli, concreti e imminenti. Osservava nel 2002 Giuseppe Pontiggia che «i classici ora sono minacciati da un nemico che non li affronta. Li ignora», e che il rischio non è più «il capovolgimento della gerarchia, ma il suo annullamento a opera dell'omologazione del mercato». Difficile dissentire, perché i tagli in atto rischiano di compromettere, insieme ai privilegi di un'educazione per pochi, l'ideale arduo di una cultura diffusa ma fondata proprio su quei «classici» che furono a lungo «di classe» (secondo l'etimologia chiarita da Aulo Gellio: scriptor classicus, ovvero di 'prima classe', contrapposto a proletarius); rischiano di compromettere, insieme alla più pigra e destrorsa difesa della tradizione, ogni premessa utile alla critica della tradizione. Ricordiamo la definizione di «filologia» fornita da Boeck, grande antichista e sicuro conservatore: «conoscenza del conosciuto». «Conoscere il conosciuto» - al di là di ogni giudizio sul suo uso o abuso - dovrebbe essere competenza preliminare e condivisa: sia che ciò implichi accettarne i dogmi, sia che ciò implichi criticarne, ma a ragion veduta, presupposti e conseguenze. In caso contrario sarà difficile che l'educazione umanistica tradizionale - come auspicava Sanguineti, che conservatore precisamente non era - possa ancora agire «non come testimone del dominio ma come stimolo alla rivolta».
«Il manifesto» del 12 ottobre 2010

"Il Nobel a un liberale? Lo credevo impossibile"

Appena incoronato da Stoccolma, Vargas Llosas racconta: "C'è ancora un dittatore da battere: Castro"
s. i. a.
Mario Vargas Llosa ha confessato il suo pregiudizio sul Nobel per la Letteratura. «Ero convinto che uno scrittore che si dichiara liberale non avesse alcuna opportunità di vincere il Nobel e che non lo avrei mai vinto perché ero troppo controverso», ha ammesso l’autore peruviano in un’intervista al quotidiano francese Le Monde. «Ma mi sbagliavo e ora questo premio può essere un incoraggiamento per quanti in America latina si battono per la libertà politica, economica e culturale».
Vargas Llosa ha ricordato di aver sempre combattuto «l’autoritarismo di destra e di sinistra» e ha affermato che «malgrado gli enormi problemi che ancora affliggono l’America latina, il continente è sulla giusta strada». Anche se non tutti i nodi sono sciolti. «Resta solo una dittatura, Cuba, e alcune semi-dittature come il Venezuela di Chavez o il Nicaragua...», ha osservato. E questo grazie al fatto che «la sinistra ha compiuto una svolta democratica e socialdemocratica, aperta al mercato» e «anche la destra è ora democratica».
Dopo aver ribadito di considerarsi uno scrittore impegnato, a patto di tenere distinte letteratura e propaganda, l’autore peruviano ha spiegato quali sono le sue maggiori influenze: «Verne, Hugo, Dumas. Mi hanno aiutato molto, soprattutto all’epoca del mio esordio. Ho una immensa passione per la letteratura del XIX e dei primi anni del XX secolo. Ho letto e riletto Thomas Mann, in particolare La montagna incantata, I demoni di Dostoevskij, Guerra e pace di Tolstoj, Moby Dick di Melville, Madame Bovary di Flaubert. Questi libri mi hanno accompagnato per tutta la vita. Poi apprezzo molto Faulkner, la cui influenza su di me è stata enorme, così come Malraux».
«Il Giornale» del 15 ottobre 2010

Briganti, patrioti e illusi: prove di guerra civile

Un saggio di Giordano Bruno Guerri ripercorre gli eventi dell'Unità d'Italia per sfatare i luoghi comuni della retorica da anniversario
di Giordano Bruno Guerri
Pubblichiamo l’introduzione del libro di Giordano Bruno Guerri Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio 1860-70 (Mondadori, pagg. 302, euro 20) in uscita martedì prossimo. Un saggio anti-retorico che diventa un’occasione - in questo 150º anniversario dell’Unità d’Italia - per sfatare molti luoghi comuni che orientano il nostro giudizio sul Risorgimento.

Ciò che accadde nel 1861 realizzava il sogno secolare di poeti, politici e intellettuali. L’Italia «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor», invocata da Alessandro Manzoni, non era più un’astrazione. Ma i che modi e con che spirito fu compiuta l’impresa? Quali tragedie e ingiustizie la accompagnarono?
Realizzata dalla classe dirigente piemontese grazie soprattutto all’abilità diplomatica di Cavour e al temperamento incendiario di Garibaldi, l’Unità integrava davvero identità, culture, tradizioni, persino lingue diverse? Oppure si raggiungeva soltanto l’unità politica? «Si è fatta l’Italia, ma non si fanno gli Italiani», recitava la celebre sentenza di Massimo d’Azeglio, con retorica sufficiente a velare un’intenzione che non c’era - almeno non in tutta la classe dirigente - e non ci sarebbe stata. Lo stesso d’Azeglio scrisse, in una lettera privata: «La fusione coi Napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso».
Una parte del nuovo Stato era già «italiana», l’altra non lo era affatto. Occorreva dunque educarla a essere diversa da sé, a costo di snaturarla. Ai primi segni di insofferenza del Sud, nacque subito una contrapposizione rancorosa: «noi» contro «loro». «Noi», i civilizzatori; «loro», i brutali indigeni. «Noi», i portatori di giustizia e legalità; «loro», i briganti. A dividere gli uni e gli altri, c’era una diversità radicale e radicata, non un’inconciliabilità momentanea. Qualcosa di molto simile a un’estraneità, che si finì per aggravare. La storia - a partire dalla Rivoluzione francese - aveva insegnato che, appena si annunciano grandi cambiamenti, dal cuore antico di masse amorfe e analfabete prorompe l’animus di un’opposizione sanguinaria. Per sminuirne la portata, tale opposizione veniva svilita - dagli intellettuali, dai politici e dall’opinione pubblica - a una viscerale manifestazione di rancori e pulsioni irrazionali. Si trattava, invece, di una resistenza ideologica e politica, oltre che sociale. Ma, per liquidarla, i maestri della Rivoluzione francese avevano già capito che il segreto stava nell’accomunare la rivolta al delitto comune. Anche in Italia la ribellione - di reazionari, contadini e clericali - contro lo Stato appena costituito fu etichettata «brigantaggio». Al Sud c’erano banditi veri, criminali comuni, prima, durante e dopo l’Unità. A questi delinquenti vennero equiparati i «briganti», come vennero chiamati i meridionali in lotta per scacciare gli «stranieri» che sbandieravano una fratellanza forzata; dall’altra parte non c’erano parenti, affini, connazionali, bensì un popolo nemico, un invasore brutale e arrogante, venuto da lontano. Nessuna solidarietà, nessuna vicinanza, né culturale, né umana, né politica: i briganti non si sentivano «italiani». I nemici erano usurpatori, colonizzatori arrivati per conquistarli e per cancellare la loro storia, i costumi, i legami e le appartenenze. Due mondi erano in conflitto tra loro. Perché l’uno venisse a patti con l’altro occorreva che il vincitore riconoscesse le differenze e cercasse di cancellarle realizzando una maggiore giustizia sociale. Si preferì l’azione repressiva, determinata a stroncare, soffocare, estirpare. Una logica che alimentò se stessa: la violenza ne generò altra, sempre più crudele. Ufficiali e soldati italiani si sentirono avamposti in pericolo, esploratori in una terra popolata da una razza diversa, percepita come inferiore .
Con la legge Pica, dell’agosto 1863, il governo italiano - in pieno accordo con il Parlamento - impose lo stato d’assedio, annullò le garanzie costituzionali, trasferì il potere ai tribunali militari, adottò la norma della fucilazione e dei lavori forzati, organizzò squadre di volontari che agivano senza controllo, chiuse gli occhi su arbitrii, abusi, crimini, massacri. Mentre accadeva tutto questo, c’era chi vedeva dietro il brigantaggio l’intervento del Papa, chi la longa manus borbonica, e in parte avevano ragione. Ma ne aveva di più chi suggeriva, inascoltato, che la causa principale andasse ricercata nelle oggettive condizioni di minorità sociale e di miseria della plebe meridionale. La verità su cui al Nord tutti concordavano è che, appena nata, l’Italia era già madre di due figli diversi: uno di cui andare fieri, l’altro bisognoso di severe lezioni.
Per gli uomini dei Savoia, i briganti erano l’emblema di quel figliastro malato e depresso, geneticamente tarato. Ma non basta l’approccio razzistico a spiegare l’atteggiamento tenuto nei suoi confronti, c’è dell’altro: potremmo chiamarla la sindrome del «chi ce l’ha fatto fare?». Si spiegano così prima la spietatezza della repressione, poi l’adozione di una politica economica e sociale del tutto inadeguata ai problemi del Mezzogiorno; più tardi la perseveranza con cui quei problemi vennero liquidati come sintomi indelebili di arretratezza e di parassitismo. Il brigantaggio rappresentava il segnale d’allarme di un guasto grave, e non solo per l’ordine pubblico. Il modo in cui fu combattuto sviluppò quella che sarebbe diventata la «delinquenza organizzata», e accrebbe a dismisura la gravità di una questione meridionale destinata a incancrenire la vita politica del Paese perpetuando la contrapposizione Nord-Sud. I contadini saliti sui monti furono - con le sole armi che avevano a disposizione, la disobbedienza e il banditismo - i ribelli di una storia che li aveva ignorati, di un processo che aveva sancito la rimozione della loro cultura e della loro tradizione. Furono la spina nel fianco del potere, almeno per cinque lunghissimi anni. Saranno sconfitti, ma grazie alla loro rivolta, si rafforzò la sensazione che la terra abitata da quel popolo sarebbe stata la «palla al piede» della nazione. «Ci avete voluti, imponendoci la vostra volontà: ora pagate le conseguenze». Ecco cosa sembrava dire il Sud al conquistatore. Tutto ciò rivela gli errori e le colpe di una classe dirigente a cui dobbiamo riconoscere i meriti storici di avere realizzato un processo unitario non più rinviabile. Allo stesso tempo, i padri della patria devono essere giudicati anche sui piedistalli dove, intangibili, li ha collocati la retorica di un Risorgimento popolato solo da piccole vedette lombarde, tamburini sardi e giganti del patriottismo. È una retorica che vuole il nostro Risorgimento fatto solo di eroi, di martiri, di Bene opposto al Male. È una storia alla quale tuttora manca una profonda opera di revisione storiografica .
Perciò il brigantaggio postunitario è stato, lungo il secolo e mezzo di storia nazionale, poco più di una parentesi della quale si sono perse le tracce, quasi un incubo da rimuovere e censurare, una pagina vuota, una tragedia senza narrazione. I briganti scontano, oltre alla sconfitta, anche il destino della damnatio memoriae. A loro, non spetta l’onore delle armi. Gli sconfitti sono scomparsi nella zona d’ombra in cui li ha relegati la cattiva coscienza dei padri della patria. Una guerra in-civile come quella andava dimenticata, rimossa o almeno ridimensionata alla stregua di una semplice, per quanto sanguinaria, operazione di polizia. C’è solo da sperare che, con le prossime celebrazioni dei 150 anni di Unità nazionale, si rinunci almeno in parte al conformismo retorico e patriottardo: aggettivo molto diverso da «patriottico».
«Il Giornale» del 15 ottobre 2010

Il mito del Medioevo capitalista

Lo storico Jacques Le Goff contro la crescente tendenza a retrodatare l’inizio della moderna economia di mercato
di Jaques Le Goff
Secondo Karl Polanyi, nella so­cietà occidentale l’economia non possiede una specificità autonoma fino al XVIII secolo. A suo avviso essa è incorporata (embedded) in quello che chiama «la­birinto delle relazioni sociali». Ri­tengo che la sua tesi si applichi alla visione del mondo medievale, che non lascia spazio al concetto di e­conomia, a parte l’accezione di e­conomia domestica ereditata da A­ristotele. In questo saggio ho cerca­to di dimostrare che lo stesso vale per il denaro. Il denaro nel senso qui attribuitogli è una realtà difficile da definire. Albert Rigaudière, che già ho menzionato nell’Introduzione, sostiene a buon diritto che il concetto di denaro sfugge conti­nuamente a chi pretende di rinchiuderlo in una definizione. I prin­cipali dizionari testimoniano que­sta difficoltà a fornire una definizio­ne precisa: «Ogni sorta di moneta e per estensione ciò che rappresenta questa moneta: capitale, fondi, for­tuna, contante, pecunia, rendite, ri­sorse, ricchezza, senza contare i ter­mini colloquiali o popolari, come grana».
L’assenza di un concetto medievale di denaro va messa in relazione con la mancanza non solo di un ambito economico specifico, ma anche di vere teorie economiche – gli storici che attribuiscono un pensiero eco­nomico ai teologi scolastici o agli ordini mendicanti, in particolare ai francescani, commettono un ana­cronismo. In generale, nella mag­gior parte dei settori della vita indi­viduale e collettiva, uomini e donne del Medioevo si comportano in modi che li rendono ai nostri occhi degli estranei e che obbligano gli storici a chiarire il proprio lavoro di ricostruzione alla luce dell’antropo­logia. L’«esotismo del Medioevo» è particolarmente forte in ciò che concerne il denaro. All’idea che tendiamo a farcene og­gi dobbiamo sostituire una realtà medievale caratteriz­zata dalla pluralità delle monete, che in effetti cono­scono una fase di grande varietà e dinamismo relati­vamente a conio, impiego e circolazione. Il fenomeno è difficile da valutare a causa della scarsità di fonti che riportino cifre prima del secolo XIV; spesso non riusciamo nemmeno a capire se le monete citate in una fonte so­no veri pezzi metallici o solo valute di conto.
La diffusione del denaro a partire dal XII secolo, durante quella che Marc Bloch ha chiamato seconda età feudale, coinvolge anche istitu­zioni e pratiche proprie del mondo feudale. La contrapposizione fra denaro e feudalesimo non corri­sponde alla realtà storica. Lo svi­luppo della moneta ha accompa­gnato l’evoluzione della vita sociale medievale nel suo insieme. Per quanto strettamente legato alle città, il denaro è largamente circo­lato nelle campagne. Ha beneficia­to della ripresa del commercio, una delle ragioni che spiegano l’influen­za esercitata in questo campo dal­­l’Italia e dagli italiani anche nell’Eu­ropa settentrionale. L’uso crescente del denaro dipende anche dai ten­tativi di riorganizzazione amministrativa da parte di re e principi, i cui fabbisogni di nuove entrate hanno condotto all’implementa­zione più o meno riuscita di sistemi fiscali basati sull’esazione di con­tante. Se la presenza del denaro nella società è in aumento, nella forma di una molteplicità di mone­te, è soltanto a partire dal Trecento, e sempre in misura limitata, che compaiono metodi di pagamento alternativi all’impiego della mone­ta, come la lettera di cambio o la rendita. D’altro canto, anche se la pratica sembra in diminuzione nel tardo Medioevo, continuano a esi­stere forme di tesaurizzazione non solo in lingotti, ma anche e soprat­tutto in tesori e oreficeria.
È chiaro che parallelamente a una certa promozione sociale e spiri­tuale del mercante l’uso del denaro è stato favorito da una lenta evolu­zione delle idee e dei comporta­menti della Chiesa; si ha l’impressione che essa abbia voluto aiutare gli uomini del Medioevo a salva­guardare nello stesso tempo la bor­sa e la vita, vale a dire la ricchezza terrena e la salvezza eterna. Dal momento che, pur in mancanza di riflessioni specifiche, un ambito co­me quello dell’economia esiste al di fuori della consapevolezza che chierici e laici ne hanno, o meglio non hanno, ribadisco la mia con­vinzione che l’uso del denaro nel Medioevo sia da inserire nell’eco­nomia del dono: la subordinazione delle attività umane alla grazia di Dio riguarda anche il denaro. A tal proposito, mi sembra che l’impiego «laico» del denaro sia stato condi­zionato da due concezioni specifi­camente medievali: l’aspirazione alla giustizia, che si ripercuote nella teoria del giusto prezzo, e l’esigenza spirituale della caritas.
Nel corso del Medioevo la Chiesa ha senza dubbio contribuito a ria­bilitare, a determinate condizioni, i professionisti del denaro favorendo la comparsa di una visione positiva della ricchezza presso la ristretta é­lite dei cosiddetti preumanisti della fine del XIV e del XV secolo. Se il de­naro ha progressivamente cessato di essere maledetto e infernale, per tutto il Medioevo esso è rimasto tuttavia quanto meno sospetto. Mi è sembrato infine necessario preci­sare, sulla scia di importanti storici, che il capitalismo non è nato nel Medioevo e nemmeno si può con­siderare quest’epoca precapitalisti­ca: la penuria di metallo pregiato e la frammentazione dei mercati hanno impedito che si creassero le condizioni adatte. Quella «grande rivoluzione» che Paolo Prodi collo­ca nel Medioevo, a mio parere sba­gliando, si verificò soltanto nei se­coli XVI e XVII. Nel Medioevo né il denaro né il potere economico so­no arrivati a emanciparsi dal siste­ma globale di valori proprio della religione e della società cristiana.
La creatività del Medioevo è altrove.
«Se il denaro ha cessato progressivamente di essere maledetto e infernale, per tutta l’Età di Mezzo esso è rimasto tuttavia quanto meno sospetto»
«Avvenire» del 15 ottobre 2010

Ma i beni artistici sono dello stato o degli Italiani?

di Michele Dolz
Nel 1972 un folle prese a martellate la Pietà di Michelangelo nella Basilica di San Pietro, e il settimanale «Times» scrisse impietosamente: «Visitate l’Italia prima che gli italiani la distruggano». Era un titolo offensivo, anche perché l’autore del gesto era un geologo australiano di nome Laszlo Toth.
Ma commenti del genere, tra lo scandalizzato e l’ironico, si sono ripetuti costantemente. Lo scorso 6 luglio il «New York Times» pubblicava un reportage severo dal titolo: «Mentre Roma si modernizza, il suo passato tranquillamente si sbriciola». Si riferiva principalmente al deterioramento del Colosseo e della Domus Aurea. È appena uscito un libro di Roberto Ippolito dal titolo «Il bel paese maltrattato» (Bompiani, pagine 382, 18 euro) che passa in rassegna una gran quantità di sciagure al patrimonio artistico nazionale negli ultimi due anni.
Veramente impressionante, non c’è differenza tra nord e sud ne tra i vari schieramenti politici al potere. È una metastasi diffusa.
Danni per incuria come statue e rovine coperte da vegetazione e letteralmente dimenticate, oppure infiltrazioni d’acqua che fanno crollare soffitti e compromettono gli affreschi.
Danni causati da speculazioni e abusivismo, come edifici costruiti in aree archeologiche.
Danni dovuti a lentezze amministrative. Danni – e questi sono i più dolorosi – a opera di vandali. Si dirà che l’Italia ha un patrimonio «troppo grosso» che richiede grandi somme di denaro e tante risorse umane. È verissimo. Ci sono 4739 musei pubblici e privati, 62128 archivi pubblici e privati, 59910 beni archeologici e architettonici, 1144 aree naturali e protette.
Sorge spontanea la domanda: questa ricchezza è un peso o una risorsa? Lasciamo che gli esperti trovino il modo di far rendere i beni culturali in termini economici, se ci riescono. Ma qui il punto è un altro. Questa ricchezza è componente non secondaria della nostra identità.
Proviamo a dirlo con un gioco di parole: i tesori artistici non sono dello «Stato» ma della «nazione».
Cioè nostri. Lo Stato amministra e conserva, ma in ultima analisi la proprietà è degli italiani. Serve un cambio ci atteggiamento in tutti noi. Ci sono benemerite associazioni che recuperano siti, trovano fondi privati, segnalano, alzando la voce, ciò che non va.
Quasi sempre sono volontari. No, non va bene la mentalità che tutto quel che c’è dal mio portone in fuori non mi riguarda. Così si arriva a tristissimi gesti: uno che spacca con un martello l’alluce del David di Michelangelo, altri che per puro divertimento staccano pezzi alla fonte del Nettuno in Piazza della Signoria, altri ancora che appongono con lo spray il loro logo sulla facciata del duomo o su statue e affreschi. È tristissimo. Si parla tanto di emergenza educativa. Ebbene, mettiamoci dentro anche questo. Insegnare a vedere il patrimonio come appunto «patrimonio», la nostra ricchezza, il nostro passato, la nostra identità. Vuol dire non danneggiare, almeno; ma si potrà anche dare una mano quando serve per conservare ciò che mi appartiene. Le parrocchie, con il loro lavoro capillare posso svolgere un ruolo importante.
Molto spesso sono le chiese stesse lo scrigno d’arte. E di arte cristiana, che i nostri padri hanno usato per insegnare, per catechizzare, col risultato che la chiesa era veramente di tutti.
«Avvenire» del 15 ottobre 2010

L'imprudenza ai tempi di Facebook: a rischio faccia, amore e lavoro

Il caso Social network
di Maria Antonietta Calabrò
Un libro sui pericoli della creatura di Zuckerberg
Il film su Facebook The Social Network con Justin Timberlake è stato il film più visto negli Usa nel week end appena trascorso. Costato 50 milioni di dollari ne ha incassati 46 nelle prime due settimane di uscita. E' solo l'ultima notizia che riguarda il social network più popolare del mondo. La settimana scorsa è stata - se così si può dire -the Facebook-newsweek. Le notizie su Facebook l'hanno fatta fatta da padrone. Abbiamo cominciato mercoledì 6 ottobre con il peggior black-out planetario che si ricordi. Sullo schermo compariva la scritta : «The server is temporarily unable to service your request. Please try again later». Qualcuno si era preoccupato di aver preso un virus, o di connessione improvvisamente lenta o fallace. Niente di tutto questo, si trattava semplicemente del secondo black out di Facebook in due giorni e il peggiore degli ultimi quattro anni durato ben due ore e mezza.
Come confermato dalla direzione del social network, per voce del direttore del software engineering, Robert Johnson, l’inaccessibilità del sito è stata causata da «un sistema automatico per verificare i valori di configurazione della cache», non da hackers come era accaduto con Twitter. Più semplicemente l’unico modo che avevano di risolvere il problema era quello di inibire l’accesso agli internauti, e così hanno fatto! Il giorno dopo, l'annuale classifica di Forbes sui Paperon de Paperoni del mondo ha fatto scattare Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, 26 anni, al 35mo posto. Il patrimonio di Mr. Facebook si è quasi triplicato rispetto al 2009. Zuckerberg ha anche superato un’icona dell’industria high tech come Steve Jobs. Il patrimonio di Zuckerberg è stimato in 6,9 miliardi di dollari e si pensa che una prossima futura quotazione di Facebook in borsa potrebbe incrementare ancora di più il valore del social network e di conseguenza quello del suo fondatore. Infine,sempre giovedì scorso , il 7 ottobre, Zuckerberg ha presentato le nuove regole a tutela della riservatezza su Facebook: ogni applicazione dirà quali informazioni personali sta usando. Con un clic si potrà scaricare sul desktop qualunque materiale pubblicato sulla propria bacheca, aprendo nuova possibilità di privacy.
Cosa insegnano le notizie su Facebook che si sono concentrate nella scorsa settimana? Che Facebook è sempre più «il» fenomeno della Rete. E forse non è un caso che tra nove giorni esca in Italia il primo libro che cerca di mettere in guardia gli utenti. L'autore infatti è un'autentica esperta del settore, Marisa Marraffino, (da avvocato e da docente, tiene lezioni al Master in Comunicazione, marketing digitale e pubblicità interattiva dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano), ha seguito diversi casi in cui i comportamenti digitali hanno creato conseguenze legali, sia civili che penali, addirittura per i minori di 14 anni e i loro genitori. Il vademecum «per muoversi in sicurezza su internet» spiega letteralmente «come non perdere il lavoro la faccia e l'amore al tempo di Facebook». 160 pagine che qui anticipiamo in esclusiva per Corriere.it. Un testo reso - se possibile -più attuale dalla sentenza della Suprema Corte di Cassazione (di fine settembre) che ha escluso la responsabilità dei direttori dei giornali on line per diffamazione in seguito a omesso controllo su quanto scritto sulla loro testata.
Questa decisione dei supremi giudici sancisce infatti la responsabilità dei singoli utenti del web. Codice civile e penale «reali» si applicano al mondo di Facebook e condanne e sanzioni sono tutt'altro che virtuali anche per i minori di tredici anni, per danno all'immagine di altre persone, con commenti salaci e foto di cui non è stata autorizzata la riproduzione. Pochi sanno infatti che l'iscrizione a Facebook è un vero e proprio contratto in cui non solo si cedono ai gestori del portale alcune licenze (come quella di gestione di alcuni dati sensibili personali) ma in cui si dichiara di essere personalmente responsabili dei contenuti immessi in rete attraverso il social network. Quindi ragazzi e genitori attenti. Ma attenti anche lavoratori (si può essere licenziati - e' accaduto in Inghilterra ed in Svizzera - per un commento su Facebook ). Inoltre i social network e le chat stanno entrando sempre più nei fascicoli dei tribunali italiani nelle cause di separazioni tra coniugi: anche un tradimento virtuale può portare ad un divorzio reale. Leggere per credere.
Per difendersi dalle insidie di un uso esagerato e sprovveduto della rete, Marisa Marraffino presenta nella forma di leading case tre racconti tratti da storie vere e offre suggerimenti e spunti di riflessione a chi passa le sue giornate su Facebook pensando erroneamente che in fondo il mondo di internet non è sottoposto alle regole della vita concreta. C’è la ragazzina che, all’insaputa di una madre distratta, per scacciare la noia clona con le amiche il profilo del suo cantante preferito, crea un gruppo contro la bidella della scuola e finisce querelata («Quando la noia porta in tribunale»); c’è il quarantenne in crisi che per sentirsi ancora giovane si inventa un profilo fittizio e intreccia nuove amicizie virtuali ma alla lunga finisce per essere scoperto dalla moglie («Amore, addio»); o ancora la dipendente distratta che viene licenziata perché durante l’orario di lavoro usa il computer aziendale per scopi personali e nei giorni di permesso per malattia si svaga con social network e chat («Aiuto, il capo su facebook»). Insomma, istruzioni per l'uso utili a tutti, ed in particolare a genitori ed educatori, affichè Facebook non si trasformi - come scrive la Marraffino - in un moderno paese dei balocchi della favola di Pinocchio, dove tutti ridevano e si divertivano, ma alla fine Lucignolo e il suo amico burattino ebbero un'amara sorpresa.
«Corriere della Sera» del 12 ottobre 2010

12 ottobre 2010

Cercando uno spazio pubblico

di Christian Raimo
Domenica scorsa apro il domenicale e vedo qualcosa di inedito: articoli di Luzzatto, Pedullà, Pacifico, De Majo, Ricuperati, Lagioia. Sono persone con cui ho condiviso dei percorsi, sono intellettuali (storici, critici, scrittori, giornalisti, politici della cultura...) che per anni hanno cercato un terreno di confronto comune che non si è quasi mai dato; trovarli tutti insieme per la prima volta dopo tanto mi ha suscitato una reazione ambivalente. Perché, mi sono chiesto, questa non è la normalità da tempo?
Ma soprattutto: perché, da questo e da pochi altri piccoli esempi che si riconoscono in giro, non si potrebbe finalmente cominciare a rimodellare la forma di uno spazio di dibattito pubblico che sia al tempo stesso politico e culturale, e che non avvenga, come al solito, all'interno di nicchie autocompiaciute o autoconsolatorie?
Sarebbe una questione ovvia, se non fosse che in Italia – difficile non accorgersene – siamo invasi da un vuoto. Sono anni che sento i migliori giornalisti, i più interessanti intellettuali italiani, le persone che hanno a cuore il futuro politico di questo paese dar voce a un'unica geremiade che può assumere di volta in volta forme diverse ma ricorsive: non mi riconosco in un partito che non riesce a trasmettermi uno straccio di senso comunitario, scrivo per questo giornale di cui non condivido il progetto editoriale figuriamoci la linea culturale, lavoro per la rivista x perché almeno mi paga due lire, ho messo su un blog come forma di minima resistenza...
Il vuoto è il disagio, la frustrazione, la mancanza di riconoscimento, l'impossibilità del conflitto, gli anni che passano, una generazione immobile. È l'aver a che fare con un meccanismo che potrebbe essere descritto in questi termini: la scelta che oggi si pone a uno scrittore, a un giornalista, a un intellettuale, a un semplice cittadino è questa: come posso vivere, fare esperienza, produrre arte, agire politicamente, ribellarmi, senza che tutto ciò si esaurisca in un gesto ininfluente? Come posso far sì che la mia attitudine critica, l'impegno civile, l'esperienza politica non sia una forma di intrattenimento, di mero consumo culturale, un passatempo come un altro? È il paradosso di Winston in 1984 di Orwell: come posso agire in modo che il mio intervento in una società che controlla la stessa parametrazione della verità sia credibile prima di tutto a me stesso? Quali parole userò, di quale retorica mi posso fidare? Quale pratica sociale avrà una sua efficacia per me e per gli altri?
Cominciate a riconoscervi? Metteteci anche che c'è un (non)modello relazionale che si è parallelamente imposto: e il paesaggio intorno a noi si è desertificato anche per la mancanza di rapporti personali. Al confronto, si è sostituita l'anti-politica, l'anti-intellettualismo, l'anti-elitismo di varia foggia, le crociate indiscriminate contro vecchi, professori, istituzioni...
E proprio mentre questa grande bolla anossica occupava l'intero orizzonte culturale trasformandolo in un immaginario collettivo nutrito solo di barzellette e recriminazioni, perdevano di corpo anche le ultime strutture residuali dell'umanismo novecentesco: le potenzialità della politica attiva, la credibilità della chiesa, la forza dell'impegno sociale, l'autorevolezza della scuola e delle università, il ruolo in generale di quello che da tre secoli in qua è stata l'opinione pubblica...
Come fare a resistere, ci si chiede. Così: al massimo si prova a occupare di volta in volta un pezzettino di questo vuoto. Scrittori a cui si chiede un'autorevolezza da statisti, case editrici indipendenti che si fanno succedanee nel ruolo che avevano i partiti (come è accaduto per il decreto intercettazioni o per il sostegno pubblico alla cultura), festival della letteratura o del diritto che provano a fare le veci di un'università allo sbando: tentativi apprezzabili, accidentati percorsi collettivi e prometeici sforzi individuali.
Ma, proprio perché estemporanei e isolati, destinati ad avere semplicemente un valore di rifugio; compensatorio, quindi fragile. Fare politica si riduce a cliccare su Facebook per salvare la vita a Sakineh. Per studiare biologia marina può bastare un abbonamento a «Focus». Per farsi finanziare un'inchiesta sulla guerra in Somalia bisogna prima scrivere una decina di servizi sulle sfilate di moda a Addis Abeba...
Che dite? Possiamo finirla di contemplare questo deserto in una sorta di fascinazione apocalissofila e cominciare a pensare a come ricostruire una piccola civiltà culturale? Possiamo raddensare queste energie disperse iniziando a farle circuitare, e poi esplodere? Vi va di dismettere quell'espressione di disincanto che vi si legge negli occhi?

«Il Sole 24 Ore» del 3 ottobre 2010
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Facciamo un gioco sul senso del vuoto per la letteratura, per la cultura e per noi
di Cristina Battocletti
Che cos'è il vuoto politico e culturale di cui Christian Raimo parla sulle pagine del domenicale del Sole 24 Ore? Il vuoto è solo nocivo o come la noia può essere una fase di stasi necessaria prima della creatività? Tonino Guerra e Michelangelo Antonioni, quando lavoravano alla sceneggiatura di "La notte" e incappavano in un vuoto di scrittura, si mettevano a giocare seduti nel corridoio della casa romana di Antonioni. Stavano ore sul pavimento di marmo bianco a strisce oblique bianche e nere facendo scivolare un sasso che doveva raggiungere la striscia nera che ciascuno aveva accanto.
Giocando era nata la sceneggiatura. Che cosa c'è di vero nella tesi secondo cui il bisogno fortifica la determinazione delle persone? Come già scrisse Remo Bodei sul domenicale il doppio ideogramma cinese «wei» e «ji», pericolo e rinascita, ricalca l'ambiguità del greco «krisis». L'Italia del Cinquecento saccheggiata dagli eserciti stranieri, raggiunse i vertici della cultura e dell'arte con il Rinascimento. In questo momento storico sono i popoli dell'est e del terzo mondo che lavorano più duramente per creare un futuro per i propri figli. Il vuoto a rendere è uno scambio positivo, economico e ecosostenibile. Sotto vuoto il cibo si conserva. Per Aristotele il vuoto non esisteva "perché la natura aborre il vuoto".
Ecco come la parola vuoto ricorre nella recente letteratura, cinema e arte in generale

Letteratura: "Vuoto d'amore" di Alda Merini (1991). La raccolta di sei poesie dell'artista scomparsa di recente, altro non è che una protesta per lo stato di solitudibe e una richiesta di attenzione e di amore

Musica: Il vuoto di Franco Battiato (2007). Il paroliere siciliano canta: "Inseguo il nostro tempo vuoto di senso, senso di vuoto
E persone quante tante persone un mare di gente nel vuoto"

Cinema: Sguardo nel Vuoto (2007) è un film di Scott Frank, un trhiller sulla memoria, di come il cervello si ribelli al dolore dimenticando.
«Il Sole 24 Ore» del 7 ottobre 2010

11 ottobre 2010

Gli espatriati della scuola

Ragazzi, italiani, insegnanti stranieri
di Ernesto Galli Della Loggia
Nella crisi italiana non c’è solo l’economia. Qua e là affiorano sintomi di altra natura che hanno un significato forse ancora più grave: sintomi di un domani alle porte nel quale ad essere colpiti finiranno per essere la nostra stessa identità collettiva, il senso del nostro stare insieme come Paese. Tra questi uno mi appare più inquietante degli altri: da qualche tempo le élites italiane non mandano più i figli alle scuole italiane. Non sto dicendo che non li mandano più nelle scuole pubbliche, preferendo quelle private. Accade massicciamente anche questo, ma ormai accade che non li mandino più nelle scuole in cui comunque si parla italiano e dove s’impartiscono programmi italiani. Perlomeno nelle grandi città un numero sempre maggiore di persone agiate sceglie per i propri figli scuole francesi, tedesche, o perlopiù anglo-americane. Fino a qualche anno fa il fenomeno riguardava essenzialmente l’università. Chi poteva permetterselo mandava i figli a studiare, o almeno a specializzarsi, fuori d’Italia. Ora invece questa scelta riguarda sempre più spesso anche la scuola superiore e ormai, sembra di capire, la stessa scuola elementare. Cifre non ne conosco, ma ho l’impressione che la cosa coinvolga già migliaia di giovani delle classi superiori. È impossibile non vedere che cosa tutto ciò significhi. È la prova certamente del decadimento del nostro sistema d’istruzione, vittima di un marasma organizzativo e di uno sfilacciamento culturale grazie ai quali hanno avuto sempre più spazio prepotenze corporative di ogni tipo: da quelle dei professori universitari a quelle dei sindacati degli insegnanti. Ma tutto ciò non può impedire di vedere che dietro la diserzione dei giovani figli delle élites dalla scuola del proprio Paese c’è ben altro; e non certo il desiderio di imparare bene una lingua straniera. C’è in generale il progressivo, profondo, sentimento di dissociazione psicologica e spirituale degli italiani dalla dimensione della collettività nazionale. Che si esprime soprattutto nella convinzione che per la propria identità, per il proprio modo di essere e di sentire, per ciò che si è, e dunque per quella dei propri discendenti, la storia, la letteratura, l’arte italiane - per l’appunto ciò che si apprende (o si apprendeva) nella scuola - non hanno più alcun valore particolare. Questa repulsa del nostro passato esprime la convinzione che ormai questo Paese come tale non ha più alcun futuro: intendo un futuro in qualche modo specificamente suo, che porti impressi le caratteristiche, le vocazioni, la storia, il genio, suoi propi, se così posso dire. La convinzione che tutte queste cose, se mai esistono, tuttavia sono ormai fuori gioco, e dunque inutili. Come fuori gioco e inutile appare la nostra lingua; che nel Mondo Nuovo globale, com’è ossessivamente definito, l’Italia in quanto tale non ha più molto da dire. Ecco perché, allora, è meglio cercare di diventare belle o brutte copie degli inglesi o degli americani che restare italiani condannati per sempre alla serie B. In altri tempi si sarebbe detto che proprio, se non soprattutto di queste cose, una classe politica degna del nome dovrebbe preoccuparsi ed occuparsi. Ma erano altri tempi, per l’appunto. Adesso, il solo parlarne suona perfettamente inutile. Certi discorsi e il loro oggetto appaiono destinati irrimediabilmente a finire nel malinconico mare dei ricordi.
«Corriere della Sera» del 9 ottobre 2010

Saremo (tutti) famosi nel villaggio di Facebook

di Francesco Alberoni
Tutti noi desideriamo essere conosciuti, ammirati ed amati. Il bambino vuol essere abbracciato dal papà e dalla mamma, se c’e una recita, essere sul palcoscenico. Gli adolescenti sono pronti a fare ogni sorta di stranezza per apparire. Nel passato gli adulti si accontentavano della notorietà che potevano avere nel loro villaggio o nella loro città. Gli uomini essere salutati con deferenza mentre le donne essere ammirate per la loro bellezza e i loro vestiti. A livello nazionale venivano conosciuti e ammirati solo i re, le regine, i nobili, i grandi politici.
La separazione netta fra chi guarda e chi è guardato continua anche con la radio e il cinema perché si forma un’altra élite, che, nel 1961, ho chiamato l'élite senza potere, formata dai personaggi dello spettacolo, attori, cantanti che diventano l’oggetto dell’interesse, dell’ammirazione e del pettegolezzo collettivo: i divi.
La distinzione fra chi guarda e chi è guardato si è attenuata solo recentemente grazie ai mezzi interattivi. Le radio e le televisioni fanno partecipare alle trasmissioni i loro ascoltatori con domande, ma sono comparse brevi che non danno notorietà. Però il desiderio di apparire è tale che ci sono donne anziane pronte a fare le «velone» cioè a ballare e cantare davanti a un pubblico che ride. Per affermarsi decine di migliaia di ragazze si affollano per un concorso da veline.
Le cose cambiano radicalmente con Internet e la nascita dei blog personali in cui, se partecipi regolarmente puoi diventare noto a quel pubblico. Ma per chi ha bisogno di un gruppo che lo riconosce, lo apprezza, il grande mutamento è dato dalla nascita delle comunità virtuali tipo Facebook, in cui gente di tutte le età e di tutti i ceti si sceglie senza dipendere da conduttori o agenzie di casting. Ciascuno chiama e respinge chi vuole, e nella comunità così formata tutti si scrivono, si raccontano ciò che fanno o desiderano. Poi si scambiano doni, auguri, organizzano feste, viaggi, mostre, letture di libri, campagne contro abusi, o si mobilitano per una giusta causa. Tutti sono protagonisti, non c’e più la separazione fra chi guarda e chi è guardato. Nel gruppo, che può arrivare a migliaia di persone, si crea così un clima di amicizia, di simpatia, di confidenza, di rispetto fiducioso e ciascuno si sente riconosciuto. E' in questo mondo sotterraneo, che nessuno conosce e controlla, che maturano i nuovi rapporti sociali, i nuovi giudizi, i nuovi valori.
«Corriere della Sera» dell'11 ottobre 2010

Mettiamo un limite all’orrore senza fine

di Luigi Mascheroni
Pensavamo che il caso di Sara Scazzi avesse esaurito tutta la propria violenza e il proprio orrore.
Pensavamo che dopo la notizia del ritrovamento del cadavere in diretta televisiva, di fronte a una madre che non poteva comprendere la morte della figlia e incapace di intendere e di scegliere se restare o no in quella trasmissione, dopo la scoperta della verità insostenibile di un omicidio consumato in famiglia, dopo la confessione dell’orco, dopo la riesumazione del cadavere martirizzato della ragazza, dopo la rivelazione della violenza post mortem - dopo tutto questo pensavamo che il fondo del pozzo, fisico e metaforico, fosse stato toccato.
Poi abbiamo saputo anche i particolari dell’orrore, abbiamo letto i verbali dell’interrogatorio dell’assassino, il quale ha confessato di essere addirittura tornato sulla «tomba» di Sara per pregare. Abbiamo assistito sgomenti nelle vie di Avetrana alle grida «a morte, a morte» e nelle strade della Rete a gruppi di sostegno all’assassino. Abbiamo vissuto una lunga e insostenibile rielaborazione televisiva del lutto 24 ore su 24, un canale dopo l’altro, una trasmissione dietro l’altra. Abbiamo accettato come sempre accade in questi casi gli insopportabili applausi alla bara e all’innocenza della vittima. Abbiamo persino accettato, in una ancor meno tollerabile «moviola del dolore», di ascoltare le cugine di Sara intervistate, a cadavere caldo, «in esclusiva a Domenica 5» (!), e dire: siamo contrarie alla pena di morte, nostro padre deve pagare giorno per giorno, lentamente, per quello che ha fatto.
Pensavamo di avere sopportato tutto, per pietà. E invece.
E invece il grado cui è capace di piegarsi l’orrore è superiore alla realtà, al reality, alla stessa irrealtà, cioè l’immaginazione.
Ieri si è saputo che un profilo su Facebook, attribuito a «Sarino Scazzi», aveva come foto il cadavere di una ragazzina bionda, steso su un tavolo di ferro: il corpo di Sara Scazzi fotografato nell’obitorio dell’ospedale Santissima Annunziata di Taranto. A segnalare ai carabinieri la macabra fotografia è stato un frequentatore di Facebook: i militari hanno avuto appena il tempo di visionare la foto - ritenuta «plausibilmente vera» - prima che venisse rimossa.
Alla stessa madre di Sara, Concetta Spagnolo, al momento del riconoscimento della figlia all’ospedale, non è stato mostrato il cadavere a causa delle terribili condizioni di conservazione dopo oltre quaranta giorni di permanenza nella cisterna. «È meglio che lei ricordi sua figlia com’era», le è stato pietosamente consigliato.
Chi può avere immesso nella rete un’immagine così ripugnante? E perché?
La notizia genera il «giallo». Il «giallo» accende la polemica. La polemica spegne ogni umanità. E aggiungere altre parole, azzardare un ennesimo commento, tentare una qualsiasi spiegazione diventa banale, retorico. Se fatto su un giornale, addirittura ipocrita, come non può non suonare ipocrita chiedere silenzio alzando il tono dell’indignazione.
Vera o falsa che sia la fotografia. Pazzo o sciacallo che sia l’autore. Ultima frontiera del voyeurismo necrofilo o macabra beffa che sia l’immagine su Internet. Qualsiasi cosa sia ciò cui ci troviamo di fronte, ormai anche l’ultima barriera morale, fisica, sociale, psicologica, si potrebbe dire antropologica, è crollata. Su queste stesse pagine, il giorno della confessione dell’orco, di fronte a quella che credevamo essere l’ultima pagina di questa storia nera, ci si è domandati, ingenuamente: «Che cosa c’è più di questo?», aggiungendo che il caso di Sara Scazzi è ormai il termine di paragone che accompagnerà la cronaca nera del futuro, un precedente perenne, ma irripetibile per dinamica, follia, depravazione. Sbagliavamo.
L’orrore - come insegna la letteratura, la realtà, la televisione e Internet - non conosce limiti. Ed è per questo che dopo la notizia di ieri non abbiamo il coraggio di chiederci se è immaginabile qualcosa di peggiore dell’affissione, sulla bacheca più letta e frequentata del mondo, della foto del cadavere di una ragazzina strangolata e violentata da morta, mentre le sue cugine, che la piazza accusa di complicità con l’assassino, chiedono in diretta televisiva, in un salotto domenicale, la pena eterna del carcere per il proprio padre.
Non ce lo chiediamo, perché oltre non c’è neppure un nuovo orrore. C’è il baratro del nulla. E noi stiamo allegramente passeggiando sull’orlo.
«Il Giornale» dell'11 ottobre 2010

Lenin architetto del Terrore

di Paolo Sensini
«Dell’uomo si può fare quel che si vuole! Io voglio che nel pensare e nel reagire le masse russe seguano uno schema comunista!». Con queste parole, pronunciate poco dopo il colpo di mano del 25 ottobre 1917, Vladimir Il’ic Ul’janov – in arte Lenin – si rivolgeva al fisiologo russo Ivan Pavlov per chiedergli se il suo lavoro di scienziato sui riflessi condizionati del cervello potesse aiutare il Partito a «controllare il comportamento umano». Ed è esattamente questa, al di là delle contingenze e dei diversivi tattici del momento, la posta in gioco che la hýbris leninista bramava fin dall’inizio: «raddrizzare il legno storto dell’umanità». Raddrizzarlo nel senso voluto da Lenin (ossia: «Costringeremo il genere umano a essere felice, costi quel che costi!»). Da questo punto di vista l’opera di Sergej Mel’gunov che viene presentata al pubblico italiano dopo quasi novant’anni dalla sua apparizione in lingua russa a Berlino – opera che va letta al tempo stesso come rigetto morale e messa in guardia intellettuale di un socialista deciso a far conoscere per la prima volta al mondo l’«abisso» in cui era sprofondata la Russia dopo la presa del potere dei bolscevichi – rappresenta un’occasione straordinaria per osservare in presa diretta, senza veli e senza distorsioni gli eventi per come si sono svolti, i primi decisivi atti di quell’immane tragedia che ha condizionato la storia europea e mondiale del XX secolo. In Italia questo libro, che è stato il primo a denunciare pubblicamente nel dicembre 1923 la realtà storica in cui si è affermato il potere bolscevico in Russia, non ha mai trovato nessun editore disposto a farne conoscere gli sconvolgenti contenuti. L’opera di Mel’gunov risulta un contributo imprescindibile per chiunque voglia capire a fondo la situazione che si è determinata in Russia negli anni successivi ai «dieci giorni che sconvolsero il mondo». Una delle cose più ardue da far rivivere oggi, di quella convulsa sequenza, risiede per esempio nella «furia rivoluzionaria» che i bolscevichi misero in campo per cancellare fin da subito qualsiasi traccia della cultura preesistente, fosse essa iconografica, ideografica o semplicemente letteraria, quasi a voler marcare col fuoco un «prima» e un «dopo» il loro avvento messianico nella stanza dei bottoni. Bisognava insomma «sparare sugli orologi del tempo alienato» per costituire il «nuovo calendario» della civiltà futura, cosa che appunto proponeva uno dei massimi esponenti del movimento Proletkul’t (acronimo di 'Cultura proletaria') per lumeggiare quale sarebbe stato l’apporto paracletico dei rivoluzionari finalmente giunti al potere: «In nome del nostro domani – si leggeva su un documento ufficiale del gruppo –, metteremo al rogo Raffaello, distruggeremo i musei, schiacceremo i fiori dell’Arte». Ovvio che, con una simile «rivoluzione totale» da portare a compimento, il Partito comunista e i suoi «ingegneri delle anime umane» ('inzenery celoveceskich duš') non si sarebbero più fermati fino a quando gli individui sottoposti al suo imperio non si fossero finalmente trasformati in «rotelle» ('vintiki') impersonali e sostituibili di un «ingranaggio tecnico».
Oppure in una sorta di «robot umani» incapaci di pensiero individuale e perfettamente obbedienti a quel «demone della distruzione e demiurgo della creazione» che fu Lenin. Ma come riuscire ad imporre a un sesto del mondo un simile programma in così breve tempo?
Semplice, con il «Terrore rosso di massa». Un Terrore programmato, brutale e inesorabile che era stato architettato da Lenin molto prima della «rivoluzione», il quale si estese fin da subito all’insieme della popolazione e all’esercito. Il sistema era poi ulteriormente «integrato», come mezzo per indurre chiunque a sottomettersi alla «dittatura del proletario», dalla più completa licenza di saccheggio, rappresaglia e sterminio dei «nemici di classe». Fu dunque sotto il regime di Lenin, e non sotto quello di Stalin, che la Ceka creò un autentico Stato di polizia, e fu sempre Lenin a compiere la mostruosità giuridica di fondere in una sola struttura gli organi che conducevano l’istruttoria, quelli che emettevano i verdetti, spesso alla pena di morte, e infine quelli che eseguivano le condanne. Essa era stata organizzata in modo tale da poter disporre di proprie infrastrutture leviataniche, dai comitati di controllo insediati in ogni fabbrica fino ai «campi di rieducazione mediante il lavoro», nel cui ambito operavano oltre duecentocinquantamila addetti, la cui ferocia e arbitrio senza limiti potevano evocare, mutatis mutandis, gli omologhi opricniki, i detestati scherani di Ivan il Terribile. Durante la guerra civile erano costoro a garantire la sopravvivenza del regime sul cosiddetto «fronte interno», quando ormai il Terrore era la conditio sine qua non del sistema. Un’attività, quella delle «Commissioni istruttorie straordinarie, che costituisce un esempio forse unico nella storia dei popoli civili».
In aggiunta agli illimitati poteri di cui godeva, la Ceka, «il cui lavoro si svolge in condizioni particolarmente difficili», venne dichiarata «infallibile» e fu proibita ogni critica nei suoi riguardi. Nei primi mesi successivi all’Ottobre, attuando le idee di Lenin e sotto la sua personale direzione, si delineò quindi compiutamente uno Stato di tipo nuovo, uno Stato totalitario caratterizzato non dal rigore della legge, ma essenzialmente dall’arbitrio più totale. A tale riguardo un alto funzionario della Ceka, Iosif Unšlicht, nelle sue affettuose memorie su Lenin scritte nel 1934, osservava con malcelato orgoglio: «[Lenin] trattava con implacabile brutalità i gretti membri del partito che deprecavano la spietatezza della Ceka; egli derideva e sbeffeggiava l’“umanità” del mondo capitalista». Se il partito era l’ossatura dell’apparato statale, la Commissione straordinaria ne era la muscolatura. Il partito forniva l’Idea: «tutto è lecito, lavoriamo per la Storia». La Ceka invece, «questa meravigliosa macchina per distruggere l’essere umano», forniva il braccio che attuava l’arbitrio assoluto. È stato assai difficile raffigurarsi quanto avvenuto di fronte a una vulgata storiografica compiacente, fraudolenta, omertosa e quasi sempre mistificante, che aveva come sua precipua missione d’impedire la conoscenza di quel gigantesco esperimento d’ingegneria sociale per ciò che veramente ha rappresentato. Forse, a oggi, il più terrificante e grandioso dell’intera storia dell’umanità.
Omicidi, torture e clima del sospetto non furono eccessi dovuti alla guerra civile, ma piani preordinati per creare il nuovo «homo sovieticus»
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«Dai bolscevichi l’apoteosi dell’omicidio come strumento di dominio»
di Sergej Mel’gunov
Gli storici hanno dato e danno una spiegazione e perfino una giustificazione al Terrore dell’epoca della Rivoluzione francese; i politici trovano una spiegazione anche all’esecrabile realtà contemporanea. Non intendo, in questa sede, spiegare un fenomeno che, prima d’ogni spiegazione, può e deve anzitutto e urgentemente essere stigmatizzato da parte della morale della società, oggi come nel passato, bensì soltanto fornirne una veridica rappresentazione. Lascio ai sociologi e ai moralisti il compito di cercare spiegazioni all’attuale ferocia che dilania il consorzio umano, magari nel retaggio dei tempi andati e nel cruento delirio dell’ultima guerra europea, nella decadenza morale dell’umanità e nello stravolgimento dei fondamenti ideologici e riferimenti ideali della psiche e del pensiero umani. Compete agli psichiatri stabilirne il nesso con le manifestazioni patologiche del secolo; attribuiscano tutto ciò, se credono, all’influsso di una psicosi di massa. Quel che mi preme sopra ogni cosa è ristabilire il quadro reale del passato e del presente tanto travisato sia dal cesello della ricerca storica sia nella valutazione soggettiva, dettata da esigenze pratiche, del politico d’oggi. Non è possibile versare più sangue umano di quanto hanno fatto i bolscevichi; non è possibile immaginare forme più ciniche di quelle in cui s’è concretato il terrore bolscevico. È un sistema che ha trovato i suoi ideologi; è un sistema di metodica attuazione della violenza e dell’arbitrio, è l’apoteosi senza remore dell’omicidio inteso come strumento di dominio alla quale non era mai ancora arrivato nessun potere al mondo. Non si tratta di eccessi, per i quali si può cercare questa o quella spiegazione nella particolare psicosi indotta dalla guerra civile. L’atrocità morale del terrore, la sua azione disgregante sulla psiche umana, consistono più che nei singoli omicidi in sé, o nel loro numero più o meno consistente, proprio nel suo essere elevato a sistema. La debolezza del potere, gli eccessi, perfino la vendetta di classe da un lato e… l’apoteosi del terrore dall’altro sono fenomeni di ordine diverso. Non potremo sentirci a posto con la coscienza fino a quando non sarà eliminato questo cupo e anacronistico Medioevo del XX secolo che abbiamo avuto in sorte di testimoniare. Certamente, sarà la vita stessa a spazzarlo via, ma solo dopo che l’avremo definitivamente superato nelle nostre coscienze, quando la democrazia europea occidentale e in primo luogo i socialisti, accantonati i fantasmi della reazione, si affrancherà veramente dall’incantamento della «testa di Medusa» e le volterà le spalle con orrore; quando i rivoluzionari di ogni tendenza capiranno finalmente che il terrore governativo uccide la rivoluzione e propaga la reazione, che il bolscevismo non è la rivoluzione e che deve cadere con disonore e infamia «tra le maledizioni di tutto il proletariato in lotta per il proprio riscatto». Sono parole del noto capo della socialdemocrazia tedesca Kautsky, uno dei pochi ad aver assunto una posizione così netta e intransigente nei confronti dell’arbitrio e della violenza dei bolscevichi. E bisogna far sì che il mondo capisca e si renda conto dell’orrore di quei mari di sangue che hanno sommerso la coscienza dell’umanità ...
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IL LIBRO
Anticipiamo in queste colonne alcuni stralci dell’introduzione di Paolo Sensini a Il terrore rosso in Russia. 1918-1923 di Sergej Mel’gunov, in uscita per Jaca Book (pagine 336, euro 29,00), e un passo delle riflessioni dello stesso Mel’gunov. Lo storico russo, nato nel 1879, fu attivo in campo politico su posizioni socialiste durante l’ultima fase dell’Impero zarista e i convulsi anni delle rivoluzioni di Marzo e d’Ottobre.
Ripetutamente arrestato dai bolscevichi, condannato a morte ma salvato in extremis dall’intercessione di alcuni influenti amici, fu espulso dall’Urss nel 1922 e riparò a Praga, a Berlino e infine a Parigi. Il terrore rosso in Russia uscì in Germania nel 1923 e fu immediatamente tradotto in tedesco, inglese, francese e spagnolo – non in italiano, almeno fino a oggi. Mel’gunov morì nel 1956.
Nel nostro Paese questo libro, che è stato il primo a denunciare pubblicamente nel dicembre 1923 la realtà storica in cui si è affermato il potere bolscevico in Russia, non ha mai trovato nessun editore disposto a farne conoscere i contenuti
«Avvenire» del 10 ottobre 2010