di Alessandro Gnocchi
Sono le diciotto e ventitré minuti del 23 febbraio 1981. Il Congresso dei deputati spagnoli, a Madrid, sta per eleggere presidente del governo Leopoldo Calvo Sotelo in sostituzione del dimissionario Adolfo Suárez, tuttora facente funzioni dopo un lustro in cui ha smontato pezzo per pezzo la dittatura franchista e rimontato una democrazia. Suaréz e i suoi ministri sono seduti nelle poltrone blu dell’emiciclo. Sulla tribuna degli oratori c’è Victor Carrascal, segretario del Congresso. A questo punto inizia il colpo di Stato guidato dal tenente colonnello Antonio Tejero, deciso a fare della Spagna il paradiso in terra (secondo lui): un’enorme caserma protetta da Dio. A questo punto inizia anche Anatomia di un istante (Guanda, pagg. 462, euro 18,5) straordinario reportage in forma di romanzo di Javier Cercas, già autore del bestseller Soldati di Salamina.
L’istante del titolo è quello successivo alla scena appena descritta. In molti lo ricorderanno, le immagini riprese per puro caso da due telecamere di servizio fecero il giro del mondo. Tejero e i congiurati aprono il fuoco a casaccio. Deputati e ministri si gettano a terra, riparandosi sotto gli scranni. Tutti cedono alla violenza. Tutti meno tre. Adolfo Suárez rimane al suo posto, seduto. Il numero uno dei comunisti, Santiago Carrillo, rimane al suo posto, seduto. Il generale Gutiérrez Mellado, vicepresidente e ministro della Difesa, affronta i militari. Lo si vede di spalle, le mani sui fianchi mentre intima la resa agli insorti. Suárez, Gutiérrez Mellado, Carrillo sono personaggi distanti mille miglia uno dall’altro. Hanno storie e idee diverse, addirittura opposte. La decisione di non piegarsi alle minacce li unisce però in un comune destino, del tutto inaspettato: diventano eroi della democrazia. Secondo Cercas, sono «eroi della ritirata», definizione mutuata da Hans Magnus Enzensberger (ma in fondo già Camus scriveva che l’eroe novecentesco è l’uomo capace di dire «no»). L’eroe classico è un idealista che «raggiunge l’apoteosi imponendo le proprie posizioni». Al contrario, l’eroe della ritirata, roso dal dubbio, le abbandona e le smantella. Suárez è un ex galoppino del franchismo. Un provinciale arrivista, dotato di intuito politico formidabile ma anche un tipo facilmente manovrabile a causa della sua ambizione. Gutiérrez Mellado, molto più vecchio, è un aristocratico, franchista della prima ora, monarchico convinto. Carrillo è a capo del Partito comunista appena legalizzato proprio da Suárez. Politico di razza, viene da una famiglia di rivoluzionari di professione.
Suárez, scelto dal Re perché ritenuto abile ma innocuo, ottiene un risultato clamoroso, che va al di là delle sue intenzioni: in undici mesi sbaracca le istituzioni del Caudillo, con l’applauso dei suoi eredi, convinti di inaugurare la democrazia nel solco della tradizione franchista. Suárez si sposta a sinistra: lui che non ha mai creduto in nulla se non nelle sue probabilità di fare carriera, si appassiona al ruolo di padre della democrazia. Legalizza il Partito comunista, convinto che non si possa rifondare il Paese senza il contributo della sinistra. Piega l’esercito e lo pone sotto il controllo del potere politico. Introduce il divorzio. Quel 23 febbraio 1981 si è ormai inimicato tutti, è un uomo finito.
Gutiérrez Mellado era stato allievo di Franco all’accademia. Aveva fatto la guerra civile per rovesciare la democrazia. E ora, convinto che il franchismo sia finito, partecipa attivamente alla creazione di una nuova democrazia nella sostanza identica a quella che aveva abbattuto. I suoi ex commilitoni lo odiano a morte. Quel 23 febbraio 1981 è anch’egli un uomo finito.
Carrillo ha rinunciato alla rivoluzione in cambio del ritorno nella legalità. Prova la strada dell’eurocomunismo, dando ai compagni la sensazione di volersi staccare da Mosca. Inutile dirlo: anche lui, quel 23 febbraio 1981, è un uomo finito.
Da mesi e mesi circola voce di un golpe imminente. L’economia va a rotoli, il terrorismo separatista impazza, l’esercito è scontento, il Re teme di essere travolto insieme al primo ministro. La volontà unanime dei partiti, inclusi quelli di governo, è liberarsi di Suárez. Senza però passare dalle urne, che potrebbero premiarlo di nuovo. Questo disprezzo per la volontà popolare è la «placenta» del colpo di Stato: una parte dei militari insorti ritiene di realizzare una volontà diffusa. In molti sono sicuri che il Re, per risolvere l’assedio al Congresso, chiamerà il vecchio generale Armada, suo ex segretario, per dar vita a un esecutivo di unità nazionale. Armada, la mente politica del golpe, ha già pronta la lista dei suoi ministri, in cui spicca il socialista Felipe González (all’oscuro di tutto). Per far precipitare la situazione e sequestrare i deputati, viene cooptato Tejero, golpista mancato pochi anni prima, il quale però pensa di partecipare a un altro colpo di Stato, che si concluderà con una giunta militare al comando. L’equivoco sarà chiarito solo nella notte del 23 febbraio e sarà uno dei due motivi del fallimento. L’altro è la ferma opposizione del Re, apparso in tivù per ribadire il sostegno alla democrazia. La mattina del 24 febbraio è tutto finito.
La ricostruzione di Cercas è appassionante. Ma il valore del libro si misura nella capacità di mettere sul piatto, e di trattare a fondo, una quantità impressionante di temi: è possibile arrivare al bene attraverso il male? «Etica politica» è un ossimoro? Giudicare eticamente un politico è giusto o meschino? E ancora: la storia ha la simmetria della fiction, a causa risponde effetto, o è imponderabile? Rinunciare a saldare i conti col passato è un’offesa ai morti o l’unico modo di salvaguardare un futuro di libertà? A quest’ultima domanda, Cercas risponde così: «Non c’è nulla di più abietto che praticare un’etica al solo scopo di avere ragione e, anziché dedicarsi a costruire un futuro improntato alla libertà e alla giustizia, costringersi a ridiscutere gli errori di un passato ingiusto e schiavo con il fine di trarre vantaggi morali e materiali dalle confessioni di colpa altrui». Un libro bellissimo. Peccato non esista un Cercas italiano.
L’istante del titolo è quello successivo alla scena appena descritta. In molti lo ricorderanno, le immagini riprese per puro caso da due telecamere di servizio fecero il giro del mondo. Tejero e i congiurati aprono il fuoco a casaccio. Deputati e ministri si gettano a terra, riparandosi sotto gli scranni. Tutti cedono alla violenza. Tutti meno tre. Adolfo Suárez rimane al suo posto, seduto. Il numero uno dei comunisti, Santiago Carrillo, rimane al suo posto, seduto. Il generale Gutiérrez Mellado, vicepresidente e ministro della Difesa, affronta i militari. Lo si vede di spalle, le mani sui fianchi mentre intima la resa agli insorti. Suárez, Gutiérrez Mellado, Carrillo sono personaggi distanti mille miglia uno dall’altro. Hanno storie e idee diverse, addirittura opposte. La decisione di non piegarsi alle minacce li unisce però in un comune destino, del tutto inaspettato: diventano eroi della democrazia. Secondo Cercas, sono «eroi della ritirata», definizione mutuata da Hans Magnus Enzensberger (ma in fondo già Camus scriveva che l’eroe novecentesco è l’uomo capace di dire «no»). L’eroe classico è un idealista che «raggiunge l’apoteosi imponendo le proprie posizioni». Al contrario, l’eroe della ritirata, roso dal dubbio, le abbandona e le smantella. Suárez è un ex galoppino del franchismo. Un provinciale arrivista, dotato di intuito politico formidabile ma anche un tipo facilmente manovrabile a causa della sua ambizione. Gutiérrez Mellado, molto più vecchio, è un aristocratico, franchista della prima ora, monarchico convinto. Carrillo è a capo del Partito comunista appena legalizzato proprio da Suárez. Politico di razza, viene da una famiglia di rivoluzionari di professione.
Suárez, scelto dal Re perché ritenuto abile ma innocuo, ottiene un risultato clamoroso, che va al di là delle sue intenzioni: in undici mesi sbaracca le istituzioni del Caudillo, con l’applauso dei suoi eredi, convinti di inaugurare la democrazia nel solco della tradizione franchista. Suárez si sposta a sinistra: lui che non ha mai creduto in nulla se non nelle sue probabilità di fare carriera, si appassiona al ruolo di padre della democrazia. Legalizza il Partito comunista, convinto che non si possa rifondare il Paese senza il contributo della sinistra. Piega l’esercito e lo pone sotto il controllo del potere politico. Introduce il divorzio. Quel 23 febbraio 1981 si è ormai inimicato tutti, è un uomo finito.
Gutiérrez Mellado era stato allievo di Franco all’accademia. Aveva fatto la guerra civile per rovesciare la democrazia. E ora, convinto che il franchismo sia finito, partecipa attivamente alla creazione di una nuova democrazia nella sostanza identica a quella che aveva abbattuto. I suoi ex commilitoni lo odiano a morte. Quel 23 febbraio 1981 è anch’egli un uomo finito.
Carrillo ha rinunciato alla rivoluzione in cambio del ritorno nella legalità. Prova la strada dell’eurocomunismo, dando ai compagni la sensazione di volersi staccare da Mosca. Inutile dirlo: anche lui, quel 23 febbraio 1981, è un uomo finito.
Da mesi e mesi circola voce di un golpe imminente. L’economia va a rotoli, il terrorismo separatista impazza, l’esercito è scontento, il Re teme di essere travolto insieme al primo ministro. La volontà unanime dei partiti, inclusi quelli di governo, è liberarsi di Suárez. Senza però passare dalle urne, che potrebbero premiarlo di nuovo. Questo disprezzo per la volontà popolare è la «placenta» del colpo di Stato: una parte dei militari insorti ritiene di realizzare una volontà diffusa. In molti sono sicuri che il Re, per risolvere l’assedio al Congresso, chiamerà il vecchio generale Armada, suo ex segretario, per dar vita a un esecutivo di unità nazionale. Armada, la mente politica del golpe, ha già pronta la lista dei suoi ministri, in cui spicca il socialista Felipe González (all’oscuro di tutto). Per far precipitare la situazione e sequestrare i deputati, viene cooptato Tejero, golpista mancato pochi anni prima, il quale però pensa di partecipare a un altro colpo di Stato, che si concluderà con una giunta militare al comando. L’equivoco sarà chiarito solo nella notte del 23 febbraio e sarà uno dei due motivi del fallimento. L’altro è la ferma opposizione del Re, apparso in tivù per ribadire il sostegno alla democrazia. La mattina del 24 febbraio è tutto finito.
La ricostruzione di Cercas è appassionante. Ma il valore del libro si misura nella capacità di mettere sul piatto, e di trattare a fondo, una quantità impressionante di temi: è possibile arrivare al bene attraverso il male? «Etica politica» è un ossimoro? Giudicare eticamente un politico è giusto o meschino? E ancora: la storia ha la simmetria della fiction, a causa risponde effetto, o è imponderabile? Rinunciare a saldare i conti col passato è un’offesa ai morti o l’unico modo di salvaguardare un futuro di libertà? A quest’ultima domanda, Cercas risponde così: «Non c’è nulla di più abietto che praticare un’etica al solo scopo di avere ragione e, anziché dedicarsi a costruire un futuro improntato alla libertà e alla giustizia, costringersi a ridiscutere gli errori di un passato ingiusto e schiavo con il fine di trarre vantaggi morali e materiali dalle confessioni di colpa altrui». Un libro bellissimo. Peccato non esista un Cercas italiano.
«Il Giornale» del 2 settembre 2010
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