di Nicola Lagioia
Se c'è una cosa che accomuna i nati in Italia dopo il 1970 è l'eccezionalità del contesto, e cioè il fatto di essere cresciuti in quello che – ultimo o penultimo invitato alla tavola delle grandi potenze democratiche – è diventato neanche troppo lentamente un paese del secondo mondo. Bene, l'ho detto: "secondo mondo", e con questo spero di aver contribuito a rompere il tabù di chi ritiene che l'uso di eufemismi quali "difficoltà" o "arretramento" abbia un valore apotropaico, o peggio ancora di chiunque voglia convincerci che seminando il vuoto a rendere dell'euforia fine a se stessa cresca l'albero della cuccagna.
Capisco che sia dura da accettare per coloro che, sospinti dall'onda del vecchio boom sullo scranno di una qualche docenza universitaria, alta dirigenza, segreteria di partito, hanno scambiato col trascorrere degli anni la propria inamovibilità per autorevolezza, e dunque la putrefazione per progresso. È per questo che proprio non me la sento di dare l'onere di chiamare le cose col proprio nome alla generazione dei Tommaso Padoa-Schioppa, l'ex ministro figlio dell'amministratore delegato delle Assicurazioni Generali a cui solo un Edipo non risolto può avere suggerito un giorno la parola: «Bamboccioni».
In questo modo è più facile che le parole "secondo mondo" le possa pronunciare senza troppe crisi isteriche chi, come me, non aveva avuto il tempo di ricavarsi un posto al sole quando il vento ha iniziato a cambiare; chi, tanto per dirne una, ha frequentato un'università che di competitivo aveva ormai solo i bidelli che facevano a gara per chiederti una mancetta di cinquantamila lire dopo averti fotografato durante la sessione di laurea.
Nessuna università italiana tra le prime 100 secondo l'Academic Ranking of World Universities. Settantatreesimo posto alla voce libertà di stampa secondo il rapporto di Freedom House, dietro la repubblica presidenziale del Benin e in coabitazione con Tonga... Non continuerò con le classifiche. Troppe da elencare, troppo univoche, e perfino noiose: era solo per rendere il concetto; allo stesso modo non farò l'avvocato del diavolo che brandisce il vessillo del Pil pro-capite adeguato alla parità dei poteri d'acquisto (un dignitoso ventisettesimo posto nel 2009 secondo il Fmi, dietro Belgio, Francia, Spagna...) perché questi calcoli vivono sotto il ricatto di troppe variabili, e soprattutto perché ad esempio gli Emirati Arabi hanno un reddito pro capite che straccia il Regno Unito ma basterebbe spostarsi sul versante dei diritti umani per non definirli un paese del primo mondo.
Credo sia invece più interessante capire come mai per gli under 40 italiani di oggi un certo realismo richieda pochi sforzi e, contemporaneamente, sia anche la dura lezione appresa nel passaggio dall'adolescenza all'età adulta. La definirei una questione di imprinting: difficile pensare di non vivere in uno dei paesi più corrotti dell'occidente se ti congedi dal liceo poco prima di Tangentopoli; così come è piuttosto complicato credere a uno Stato sovrano se dai il tuo primo esame all'università non quando esplode la bomba sull'autostrada Capaci-Palermo ma 57 giorni dopo, perché se il beneficio del dubbio poteva sopravvivere con molto sforzo alla morte di Falcone, la sua lapide è stata scritta in via d'Amelio. Faticoso, del resto, credere a una politica che favorisca meritocrazia e bene comune se – scontrandoti già da qualche anno col muro di gomma gerontocratico in campo lavorativo – hai assaporato l'insostenibile pesantezza della sospensione democratica in quel di Genova durante il G8 del 2001; e hai faticato a sostenere un déjà-vu degno di Philip Dick quando il ministro dell'Interno di allora, costretto a dimettersi per aver definito «un rompicoglioni» una vittima delle Brigate rosse, si sia ri-dimesso non tanto per l'incredibile circostanza di non sapere chi gli aveva comprato casa ma per l'ancora più incredibile circostanza di essere stato nominato ministro un'altra volta.
Se qualcuno pensa che sto ingrossando l'otre del catastrofismo, sgombro subito il campo.
Nessun catastrofismo, nessuna lamentela che vada oltre lo sforzo di tacitare qualche dolore stagionale. Il contrario, piuttosto: credo cioè che solo una generazione talmente forte da chiamare le cose col proprio nome e abbastanza coraggiosa da provare non la vergogna, ma finalmente l'orgoglio di essere sopravvissuta emotivamente agli ultimi vent'anni, possa aiutarci a ripartire.
Stringendo poi l'attenzione su quegli under 40 che cercano di raccontare il mondo attraverso le lenti deformanti della letteratura, credo che i buoni segnali sia incapace di coglierli solo chi questa letteratura non ha l'abitudine di frequentarla. Se si guarda alla recente produzione degli scrittori italiani (non solo under 40), è difficile non accorgersi di una grande vitalità; e ciò a dispetto di ritrovarsi in un paese che ha elevato il disprezzo per la cultura quasi a punto d'onore. Cessare di vivere nel primo mondo – seppure dimezzi le opportunità – non è la conditio sine qua non per scrivere libri che lascino il segno: il ventre della Grande depressione partorì i capolavori di Faulkner, dalla Colombia è venuto fuori García Marquez, e alla maschera mortifera di Pinochet si è sottratto uno come Roberto Bolaño. Per quanto insomma soffra quotidianamente come uomo e come cittadino, vivere su un territorio in grado di offrire incredibili incesti di potere, politica e criminalità quali ad esempio le recenti telefonate tra Gennaro Mokbel e l'ex senatore Nicola Di Girolamo... be', tutto questo offre a noi scrittori un punto d'osservazione degno del miglior teatro elisabettiano aggiornato al XXI secolo. Il che pone anche un problema di forme: la nostra non è forse più terra da neorealismo o da neoavanguardia o da post-moderno; è piuttosto una sorta di incubo di Hieronymus Bosch con sottofondo di jingle pubblicitari, una dimensione in cui prima non eravamo mai stati. Ricordate il vecchio apologo di Orson Welles sulla pacifica Svizzera produttrice di orologi a cucù, contrapposta agli intrighi sanguinari dei Borgia da cui sarebbero venuti fuori Michelangelo e Leonardo?
Bene, così come prima non cercavo di essere catastrofico, adesso non voglio gloriarmi delle nostre miserie. Sto cercando piuttosto di dire che solo guardando in faccia la Medusa – il che, nel caso di uno scrittore significa riuscire a opporvi lo specchio di una lingua che la racconti senza restarne pietrificati – sarà possibile, anche fuor di letteratura, trovarsi a un certo punto dall'altra parte del guado. Amare i propri tempi difficili tanto da volerli riscattare: mi pare un ottimo vertiginoso trampolino, per i nostri secondi quarant'anni.
Capisco che sia dura da accettare per coloro che, sospinti dall'onda del vecchio boom sullo scranno di una qualche docenza universitaria, alta dirigenza, segreteria di partito, hanno scambiato col trascorrere degli anni la propria inamovibilità per autorevolezza, e dunque la putrefazione per progresso. È per questo che proprio non me la sento di dare l'onere di chiamare le cose col proprio nome alla generazione dei Tommaso Padoa-Schioppa, l'ex ministro figlio dell'amministratore delegato delle Assicurazioni Generali a cui solo un Edipo non risolto può avere suggerito un giorno la parola: «Bamboccioni».
In questo modo è più facile che le parole "secondo mondo" le possa pronunciare senza troppe crisi isteriche chi, come me, non aveva avuto il tempo di ricavarsi un posto al sole quando il vento ha iniziato a cambiare; chi, tanto per dirne una, ha frequentato un'università che di competitivo aveva ormai solo i bidelli che facevano a gara per chiederti una mancetta di cinquantamila lire dopo averti fotografato durante la sessione di laurea.
Nessuna università italiana tra le prime 100 secondo l'Academic Ranking of World Universities. Settantatreesimo posto alla voce libertà di stampa secondo il rapporto di Freedom House, dietro la repubblica presidenziale del Benin e in coabitazione con Tonga... Non continuerò con le classifiche. Troppe da elencare, troppo univoche, e perfino noiose: era solo per rendere il concetto; allo stesso modo non farò l'avvocato del diavolo che brandisce il vessillo del Pil pro-capite adeguato alla parità dei poteri d'acquisto (un dignitoso ventisettesimo posto nel 2009 secondo il Fmi, dietro Belgio, Francia, Spagna...) perché questi calcoli vivono sotto il ricatto di troppe variabili, e soprattutto perché ad esempio gli Emirati Arabi hanno un reddito pro capite che straccia il Regno Unito ma basterebbe spostarsi sul versante dei diritti umani per non definirli un paese del primo mondo.
Credo sia invece più interessante capire come mai per gli under 40 italiani di oggi un certo realismo richieda pochi sforzi e, contemporaneamente, sia anche la dura lezione appresa nel passaggio dall'adolescenza all'età adulta. La definirei una questione di imprinting: difficile pensare di non vivere in uno dei paesi più corrotti dell'occidente se ti congedi dal liceo poco prima di Tangentopoli; così come è piuttosto complicato credere a uno Stato sovrano se dai il tuo primo esame all'università non quando esplode la bomba sull'autostrada Capaci-Palermo ma 57 giorni dopo, perché se il beneficio del dubbio poteva sopravvivere con molto sforzo alla morte di Falcone, la sua lapide è stata scritta in via d'Amelio. Faticoso, del resto, credere a una politica che favorisca meritocrazia e bene comune se – scontrandoti già da qualche anno col muro di gomma gerontocratico in campo lavorativo – hai assaporato l'insostenibile pesantezza della sospensione democratica in quel di Genova durante il G8 del 2001; e hai faticato a sostenere un déjà-vu degno di Philip Dick quando il ministro dell'Interno di allora, costretto a dimettersi per aver definito «un rompicoglioni» una vittima delle Brigate rosse, si sia ri-dimesso non tanto per l'incredibile circostanza di non sapere chi gli aveva comprato casa ma per l'ancora più incredibile circostanza di essere stato nominato ministro un'altra volta.
Se qualcuno pensa che sto ingrossando l'otre del catastrofismo, sgombro subito il campo.
Nessun catastrofismo, nessuna lamentela che vada oltre lo sforzo di tacitare qualche dolore stagionale. Il contrario, piuttosto: credo cioè che solo una generazione talmente forte da chiamare le cose col proprio nome e abbastanza coraggiosa da provare non la vergogna, ma finalmente l'orgoglio di essere sopravvissuta emotivamente agli ultimi vent'anni, possa aiutarci a ripartire.
Stringendo poi l'attenzione su quegli under 40 che cercano di raccontare il mondo attraverso le lenti deformanti della letteratura, credo che i buoni segnali sia incapace di coglierli solo chi questa letteratura non ha l'abitudine di frequentarla. Se si guarda alla recente produzione degli scrittori italiani (non solo under 40), è difficile non accorgersi di una grande vitalità; e ciò a dispetto di ritrovarsi in un paese che ha elevato il disprezzo per la cultura quasi a punto d'onore. Cessare di vivere nel primo mondo – seppure dimezzi le opportunità – non è la conditio sine qua non per scrivere libri che lascino il segno: il ventre della Grande depressione partorì i capolavori di Faulkner, dalla Colombia è venuto fuori García Marquez, e alla maschera mortifera di Pinochet si è sottratto uno come Roberto Bolaño. Per quanto insomma soffra quotidianamente come uomo e come cittadino, vivere su un territorio in grado di offrire incredibili incesti di potere, politica e criminalità quali ad esempio le recenti telefonate tra Gennaro Mokbel e l'ex senatore Nicola Di Girolamo... be', tutto questo offre a noi scrittori un punto d'osservazione degno del miglior teatro elisabettiano aggiornato al XXI secolo. Il che pone anche un problema di forme: la nostra non è forse più terra da neorealismo o da neoavanguardia o da post-moderno; è piuttosto una sorta di incubo di Hieronymus Bosch con sottofondo di jingle pubblicitari, una dimensione in cui prima non eravamo mai stati. Ricordate il vecchio apologo di Orson Welles sulla pacifica Svizzera produttrice di orologi a cucù, contrapposta agli intrighi sanguinari dei Borgia da cui sarebbero venuti fuori Michelangelo e Leonardo?
Bene, così come prima non cercavo di essere catastrofico, adesso non voglio gloriarmi delle nostre miserie. Sto cercando piuttosto di dire che solo guardando in faccia la Medusa – il che, nel caso di uno scrittore significa riuscire a opporvi lo specchio di una lingua che la racconti senza restarne pietrificati – sarà possibile, anche fuor di letteratura, trovarsi a un certo punto dall'altra parte del guado. Amare i propri tempi difficili tanto da volerli riscattare: mi pare un ottimo vertiginoso trampolino, per i nostri secondi quarant'anni.
«Il Sole 24 Ore» dell'8 agosto 2010
Nessun commento:
Posta un commento