03 settembre 2010

L'ineffabile credere che va oltre il sapere

di Carlo Ossola
Una recentissima inchiesta, pubblicata nel mese di agosto da 'Le Point' e ripresa da 'Paris Match' di questa settimana in un’intervista a Jean d’Ormesson, segnala che la divaricazione tra 'scienza' e 'fede' si allarga in Francia e che solo il 25% dei professori del Collège de France si dichiara credente. Pubblichiamo qui il testo, inedito, di Carlo Ossola in risposta a quell’inchiesta.
«Scio» (da cui «scienza») e «ratio» (da cui «ragione») sono la base dei nostri processi di conoscenza. Nella sua origine latina, la «ratio» non è un fondamento ma una misura, uno strumento di comparazione tra le cose, un mezzo per «metterle in rapporto», per valutare i legami e le proporzioni tra esse e per metterci in condizione di manipolare, in maniera congrua ed efficace, gli oggetti. Ciò che noi sappiamo è quasi soltanto ciò a cui perveniamo con la nostra capacità di misura… È dunque necessario ammettere – poiché «l’uomo è più grande che l’uomo» (Erasmo) – che ciò che va aldilà della nostra misura esista altrettanto quanto ciò che rientra nelle nostre capacità di commisurare. Si tratta di un principio fondamentale della filosofia, da Anselmo di Aosta a Pascal: altrimenti noi saremmo in un pericolo costante di «reificazione» delle nostre conoscenze (ciò che oggi accade con un neopositivismo bisognoso di «localizzare» ogni minima traccia espressiva, emozioni comprese). Tale principio di «vagueness» (Peirce), d’«interminato» (Leopardi) è fecondo poiché ci permette di uscire dal «ritaglio» della «precisione» (come se, per sapere, occorresse 'star dentro' un confine sempre meglio circoscritto) e di liberarci verso l’incommensurabile, l’invisibile, l’incircoscrivibile. È un principio di libertà al quale è impossibile rinunciare senza ridurre l’uomo a una macchina di azioni-reazioni governabili (e, in definitiva, orientabili…) «Credere» è l’espressione più antica, la più semplice e netta, di tale condizione umana: dal suo fondo l’uomo continuamente «deborda», poiché è «incontenibile».
Penso, personalmente, che «credere» costituisca un supplemento di resistenza a tutto ciò che ci spinge a piegarci davanti alle cose così come sono. È un atto politico, che ci permette di pensare e operare per una società più degna, un futuro più abitabile, anche se noi non disponiamo di «alcun potere per misurare» gli effetti e la «redditività» di siffatto agire generosamente libero.
L’assenza di questa speranza fornita dal credere è ciò che umilia il nostro presente, e le nostre comunità, ripiegate – invitate a ripiegarsi – su se stesse.
«Credere» è più esigente che «sapere»: esso ci obbliga a prendere a nostra responsabilità anche ciò che non saremo mai in grado di comprendere o realizzare, e a non dimenticare che il «reale» non è che una piccola porzione del pensabile, dell’immaginabile, di tutto ciò che non ha lasciato traccia.
Credere è: «dar luogo».
«Avvenire» del 3 settembre 2010

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