di Massimo Onofri
Il dibattito sui narratori under 40 che Gabriele Pedullà ha aperto sul «Sole 24 ore», accompagnato dall’intervento di alcuni lettori per così dire professionali, s’è trasformato inevitabilmente, soprattutto sul «Corriere della Sera», in una discussione sulla critica, ricca di sollecitazioni ma non priva di equivoci. Non posso non pensare al grande Giacomo Debenedetti, che scriveva così:«Triste mestiere del critico, che scrive per sé, per servire la propria verità, come tutti gli altri scrittori di questo mondo, e si vede scambiato per un servizio pubblico; peggio ancora per un servizio privato ad uso della vanità di chi crea o del tornaconto di chi stampa». Affermazione che implica due dati semplici, eppure rimossi. Il primo: il critico è, innanzi tutto, un lettore che scrive e proprio per questo sottoposto, mentre scrive, agli imperativi – prosodici e stilistici, morali e ideologici – cui è obbligato ogni altro scrittore, quando lo scrittore è davvero tale. Poco importa che la sua sia una specialissima forma d’immaginazione, l’immaginazione del vero. Il secondo: la «verità» con cui uno «scrittore-lettore» (Cesare Garboli) ha a che fare, riconduce sempre a un geroglifico del destino di chi legge, a un crittogramma della sua esistenza. Perché leggere, altrimenti, se non per intensificare i significati della propria vita? Verità persino banale, se non fosse stata cancellata da vent’anni di teoria della letteratura di marca strutturalistica e semiologica segnando, di fatto, la fine della critica. Ora, non vorrei contraddire Debenedetti: ma il critico, mentre onora la sua personalissima verità di scrittore – anzi: proprio per questo –, finisce per esercitare, volente o nolente, anche un servizio pubblico. Non è cosa di poco conto: la civiltà di ogni società si misura sempre sulla qualità dei suoi servizi pubblici. E ciò vale anche per quella letteraria. Di che servizio si tratta? Di un servizio anche ecologico che, funzionando bene, mantiene il sistema in una condizione di salute. Ecco: non c’è critica che non svolga, contemporaneamente, un ruolo di informazione e di valutazione. Epperò: si tratta d’un ruolo ancora possibile? Un atto di valutazione critica di un libro comporta sempre una sua messa a sistema. E poi: la critica non può essere rapsodica, pena la sua delegittimazione. Nel 1996, in «Dopo la fine» (che ora Donzelli ripropone ampliato) Giulio Ferroni parlava già di «angoscia della quantità». Alfonso Berardinelli, rincarando la dose, ha scritto che nessun canone è, oggi, formulabile. Queste affermazioni poggiano sul presupposto che oggi non sia possibile fare ciò che, fino all’altro ieri, era invece possibile: leggere tutto. Non credo che Emilio Cecchi e Giuseppe Borgese fossero, l’altro ieri, in una condizione diversa dalla nostra. Il problema è comunitario, non individuale. È la comunità che seleziona, non i singoli: ieri come oggi. Ma è proprio la comunità letteraria che si è dissolta. Come testimonia il dibattito di questi giorni, dove molti attori dimostrano di non avere nemmeno letto i libri dei loro interlocutori.
«Avvenire» del 26 agosto 2010
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