08 settembre 2010

Università e lavoro Non buttiamo il «sapere saggio»

A proposito delle diverse letture sui test
di Giuseppe Dalla Torre
A che serve per un futuro medico sapere chi ha pronunciato la famosa frase: 'Parigi val bene una messa'? Già: a che serve? Per diventare un buon diagnostico, che sappia subito individuare il male ed adottare le terapie necessarie a guarire, è del tutto indifferente sapere che la pronunciò Enrico IV di Navarra, al momento di abiurare il protestantesimo per divenire re di Francia, e non da Napoleone, come pare qualche aspirante medico abbia scritto, rispondendo ad uno dei 'famigerati' quiz per l’accesso alle Facoltà di Medicina.
Nei giorni scorsi è divampato il dibattito sulle modalità di selezione per i corsi di laurea a numero chiuso e l’osservazione prevalente è stata quella dell’inutilità di un sistema nozionistico, a maggior ragione laddove spazia da quesiti nell’ambito dei saperi umanistici a quesiti scientifici, questi sì utili per gli studi universitari soggetti a selezione.
Premesso che, come in ogni cosa umana, per l’accesso in Università non c’è sistema di selezione perfetto; che cioè ogni sistema possibile, per quanto perfettibile, è sempre alla fine insoddisfacente, anche perché non esiste nell’umano una forma unica ed assoluta di intelligenza, ma vi sono molteplicità di espressioni dell’intelligenza, che possono rispondere in maniera diversa alle sollecitazioni esterne.
Premesso ciò, dunque, mi domando: ma è davvero inutile per valutare l’idoneità a seguire gli studi medici, o di architettura, o di ingegneria, o quant’altro, che l’aspirante matricola non confonda Enrico IV con Napoleone, sappia dunque di storia, ma anche di geografia, di politica, di cultura generale, che conosca la realtà odierna anche da come appare nella cronaca quotidiana?
Le polemiche sui quiz, ferma restando ogni critica che alla loro concreta formulazione si possa fare, esprimono chiaramente una tendenza a favore di un sapere utile rispetto ad un sapere saggio, dell’avere rispetto all’essere, che connota il volto della nostra società. Ma vien fatto di domandarsi, ad esempio, se si possa davvero essere buoni medici se si conosce perfettamente fisiologia e patologia dell’animale umano, ma non la sua umanità, che è sensibilità, è coscienza, è spirito, dunque è storia, cultura, è relazione interpersonale. Ci si lamenta sempre più per una medicina de-umanizzata, non calda e solidarizzante col malato, affidata ad una tecnologia raffinata ma fredda, la quale a ben vedere di per sé renderebbe superate anche le conoscenze fisiche o chimiche ritenute - e giustamente - così necessarie per la preparazione del medico; ma non ci si accorge che spingiamo sempre più i futuri professionisti della medicina ad essere solo dei tecnici, per quanto sofisticatissimi.
Si tratta di domande che si possono allargare anche ad altre figure professionali. E qui si pone un’osservazione di fondo: oggi si pretende sempre più dall’Università una formazione immediatamente professionalizzante, una preparazione 'chiavi in mano' per l’accesso nel mondo del lavoro. La preoccupazione di raccordare formazione universitaria e lavoro è giusta; ma bisogna pur sempre ricordare che l’Università non è una scuola professionale; che è chiamata a dare una solida formazione di fondo in un ramo dei saperi, ma tenendo conto della complessità e della correlazione tra i saperi. Un laureato in giurisprudenza non può, e direi non deve, avere una preparazione tale da consentirgli subito di essere magistrato od avvocato. Per diventare un buon professionista del giure dovrà prima avere una buona preparazione culturale di base, idonea anche a fargli operare delle scelte professionali rispondenti alle proprie attitudini.
Poi seguiranno le specializzazioni.
Credo che, oltre alle necessarie riforme dell’Università, sia bene ricominciare a riflettere su che cosa l’Università sia e debba essere.
«Avvenire» dell'8 settembre 2010

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