08 settembre 2010

La via del concorso al tempo dei precari

di Claudio Gorlier
C’erano una volta i concorsi nazionali a cattedre per l’insegnamento nelle scuole medie. Ne vinsi uno e iniziai la mia carriera insegnando italiano e storia nelle magistrali. Ma esistono esempi ben più illustri. Augusto Monti, scrittore e leggendario maestro di Gobetti, di Pavese, di Mila al liceo «Massimo D’Azeglio» di Torino, vinto il concorso insegnò, tra l’altro, in Calabria e in Sardegna, le prime cattedre disponibili. Al liceo «Cavour» di Torino insegnarono due celebrati studiosi: Carlo Dionisotti, prima di trasferirsi a Londra, e il grande germanista Ladislao Mittner, prima di ritornare alla sua Venezia, a Ca’ Foscari, dove gli fui collega.
I concorsi sono ormai da anni ibernati. Come spiegavo ai miei studenti all’Università, per bravi e preparati che fossero, dovevano scordarsi ogni speranza di insegnamento: le scuole statali erano ormai travolte dai precari, termine impagabile tra burocratico e politichese. Addio concorsi, anche se mi consentite una supposizione maliziosa, con il decisivo contributo dei sindacati di categoria.
Quali le conseguenze? Una, appunto, riguarda l’inaccessibilità del ruolo, saturato dai precari. Un’altra, che viene ammessa a mezza voce o per allusioni, ma assolutamente fuori dubbio, lo scadimento progressivo della qualità media dei docenti. E’ accaduto di recente che alcune scolaresche italiane, in visita in Inghilterra, abbiano scoperto con disagio e imbarazzo che i loro docenti di lingua, scelti per accompagnarli, non sapevano come cavarsela proprio con la lingua.
Non voglio assolutamente generalizzare, ma mi piacerebbe che, nel divampante e spesso urlato dibattito sulla condizione dei precari, riflettessimo su questo inesorabile paradosso. Già, c’erano una volta i concorsi.
«La Stampa» del 7 settembre 2010

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