04 aprile 2007

Elogio del conservatore

Il filosofo francese attacca i «cultori del nuovo», e i suoi seguaci, in nome delle tradizioni
di Alain Finkielkraut
Screditato da destra e sinistra e il pensiero unico lo ha soppresso
Difendere le eredità contro la democrazia radicale è un programma divenuto inconfessabile. La diffidenza nei confronti del cambiamento non viene ammessa in nessun discorso, sparisce progressivamente dalla sfera privata come da quella politica e intellettuale. Non si trovano più aristocratici e nemmeno borghesi per rivendicare l’osservanza degli usi o celebrare l’opera del tempo. La borghesia attuale è composta quasi esclusivamente da anti-borghesi che preferiscono la passione alla ragione, che dileggiano lo spirito di serietà in nome dello spirito d’avventura, che sacrificano allegramente la durata all’intensità e che hanno ormai da tempo abbandonato il linguaggio arido della virtù per quello, variegato, della pluralità dei valori. L’epoca del «buon padre di famiglia» è tramontata, come d’altronde quella dell’amore eterno. I membri della nuova élite amano «creare, godere, muoversi». Si dicono fieramente «nomadi» perché praticano la navigazione virtuale, perché si servono del telefono portatile e per ben marcare la loro distanza abissale dal modello del gretto e panciuto ignorante. Niente è più odioso, per questi fustigatori della reazione, delle omelie pontificali, niente li spazientisce di più della permanenza o dell’immobilità. «Nuovo» oggi vuol dire «migliore». Più nessuno si appella al «c’è già» contro il «non ancora»; tutti si appellano all’innovazione contro la tradizione. Che si tratti dell’Europa, della scuola, della cultura, dell’impresa o dell’intimità, si vuol sempre far smuovere le cose, dinamizzare le istituzioni e gli uomini. Non è più l’esperienza a essere celebrata nelle nostre società, ma l’effervescenza, l’energia, la foga; e il rispetto per gli Anziani è sostituito dalla celebrazione dei vecchi che hanno saputo rimanere giovani. Una volta, l’ordine si contrapponeva al movimento, mentre ora non esistono che i partiti del movimento. Al momento di entrare nel terzo millennio, tutti vogliono non solo essere moderni, ma anche riservarsi l’esclusività di questo appellativo supremo. «Riforma» è la parola principe del linguaggio politico attuale, e «conservatore» la parolaccia che la sinistra e la destra si sbattono reciprocamente in faccia. Concetto polemico, il conservatorismo non è mai assunto in prima persona: il conservatore è l’altro, quello che ha paura, paura per i privilegi o i benefici acquisiti, paura della libertà, del grande largo, dell’ignoto, della mondializzazione, degli emigrati, della flessibilità, dei cambiamenti necessari. Persino gli ecologisti si situano all’estrema punta della modernità militante. Di Daniel Cohn-Bendit, la figura emblematica del Maggio ‘68, che in Francia è diventato il loro portavoce, e che a ogni occasione sferza il passatismo ridicolo dei suoi concorrenti o dei suoi avversari, un editorialista scrupoloso e sensibile al suo fascino ha scritto: «Egli parla contemporaneo. Pensa contemporaneo. Vive contemporaneo. Respira contemporaneo. Si esprime in una lingua del suo tempo sui problemi del suo tempo, con le parole e le idee del suo tempo». Il verde, in effetti, non è il colore della salvaguardia, il verde è il colore della vita. Oggi tutti i protagonisti del dibattito ideologico sono dei vivi che si trattano reciprocamente da morti e la nostalgia, da qualunque parte provenga, viene considerata sistematicamente come mancanza di coraggio. A Hans Morgenthau, che un giorno, con una certa impazienza, le domandava dove si situasse politicamente, Hannah Arendt diede questa risposta: «Non lo so, non lo so davvero e non l’ho mai saputo. La sinistra pensa che io sia conservatrice e la destra che io sia di sinistra, anticonformista o dio sa cos’altro ancora. E, devo dirlo, la cosa mi è del tutto indifferente». Questo paradosso testimonia, per quanto riguarda la Arendt, della stessa esperienza del XX secolo. Il conservatorismo, si sa, è nato come reazione alla Rivoluzione francese. Come conferma la prima grande querelle sul tema, fra Edmund Burke e Thomas Paine, il conservatore è prima di tutto l’uomo che protesta contro i diritti dell’uomo. Nelle sue Riflessioni sulla Rivoluzione Francese, che pubblicò a caldo, nel 1790, Burke sostiene che il linguaggio dei diritti dell’uomo attenta alle condizioni di una vita umana. La dichiarazione dei diritti fa di coloro che essa pretende di rispettare - cioè gli uomini - degli individui, benché essi siano anzitutto degli eredi e benché lo Stato debba essere concepito come «un’associazione non solo tra i vivi, ma anche tra i vivi e i morti e tutti coloro che nasceranno in futuro». Andando in senso contrario all’orgogliosa ragione dei Lumi, la saggezza conservatrice dà credito ai morti, cioè alla ragione nascosta nei costumi, nelle istituzioni e nelle idee ricevute. All’uomo in generale, il conservatore contrappone singole tradizioni. All’astrazione, l’autorità dell’esperienza. All’individuo chimerico, la realtà effettiva dell’essere sociale. Alle rivendicazioni presenti, la pietas verso il passato. Alla filosofia, infine, la sociologia e la storia. «Uno dei princìpi primi», scrive Burke, «uno dei più importanti fra quelli che consacrano la Repubblica e le sue leggi, è quello di evitare che coloro che ne hanno temporaneamente l’usufrutto si mostrino immemori di quanto hanno ricevuto dagli antenati o di ciò che devono alla loro posterità, e che agiscano come se ne fossero i padroni assoluti . Se si concedesse senza scrupolo la facilità di cambiar regime così tanto e così spesso e in tante maniere quante sono le fluttuazioni nelle mode e nell’immaginario, l’intera catena e la continuità della cosa pubblica ne verrebbero spezzate. Non vi sarebbe più alcun legame tra una generazione e l’altra. Gli uomini avrebbero meno valore delle mosche di un’estate».
«Corriere della sera» del 27 marzo 2007

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