Un libro affronta il paradosso: nel XX secolo, caduti i totalitarismi, si sono ridotte le garanzie individuali
di Angelo Panebianco
Gli ideali classici del liberalismo oscurati dalla politica di massa
Le ragioni della perdita di influenza culturale e politica sperimentata nel XX secolo dal liberalismo classico sono conosciute, almeno per grandi linee. Seguendo Tocqueville, possiamo ricondurle al prevalere di quella «passione per l’uguaglianza» che in tempi democratici, secondo la precocissima analisi del pensatore francese, si impone a scapito della passione per la libertà. Esprimendo in termini diversi la stessa idea, possiamo ricondurla al fatto che la democrazia è incompatibile con lo stato minimo nonché con la razionalità puramente formale delle procedure e delle istituzioni politiche. Con l’interventismo statale che la democrazia porta con sé, come osservò Max Weber, la razionalità formale è sfidata da una razionalità sostanziale ispirata a ideali di giustizia distributiva. Una vistosa conseguenza è rappresentata dalle trasformazioni che investono la sfera del diritto: con la proliferazione, nel linguaggio di Friedrich von Hayek, di leggi-comando o di leggi-provvedimento a scapito delle regole generali « di giusta condotta». In questo modo, le istituzioni che il liberalismo classico reputa proprie della «buona società» (della società libera) diventano, apparentemente, superate, obsolete. Meno comprensibile è invece la circostanza per cui gli eredi della tradizione del liberalismo classico abbiano incontrato così tante difficoltà nella spiegazione analitica dell’insieme di fenomeni che di quella tradizione hanno prodotto il declino. La mia tesi è che queste difficoltà dipendano dal fatto che gli eredi del liberalismo classico solo raramente hanno esaminato con spirito positivo (anziché prescrittivo o normativo) certi mutamenti sociali e politici che hanno allontanato le società occidentali dall’ideale della «società degli individui»: ideale che, da Adam Smith in poi, è stato il fondamento del liberalismo classico. (...) L’affermazione di ideali comunitari connessi all’insorgenza di movimenti sociali e politici di varia natura come effetto dei processi di democratizzazione; lo sviluppo di numerosissime (potenti e meno potenti) organizzazioni complesse che, per effetto della crescente specializzazione e divisione del lavoro, sovrappongono alla società degli individui una società delle organizzazioni. I fenomeni qui sommariamente esaminati contribuiscono a spiegare le ragioni del declino del liberalismo classico, ma contribuiscono a spiegare anche altre cose, molto più importanti. Soprattutto, i motivi per i quali la libertà (nel senso liberale di «libertà negativa») è così compressa e limitata - certo ben più compressa e limitata di quanto auspicavano i liberali classici - nelle nostre società occidentali. La politica come luogo della competizione fra gruppi per l’accaparramento di risorse scarse, il big government, il ruolo dei corporate actors e i rapporti asimmetrici che intrattengono con gli individui, l’importanza e l’incidenza dei miti "comunitari" (la nazione, la classe, l’etnia, eccetera) nella politica di massa, sono tutti fattori che contribuiscono a limitare la libertà degli individui. Al tempo stesso, pur fra alti e bassi, e pur con tante limitazioni (si pensi, ad esempio, a tutte quelle imposte alla libertà economica), la libertà è tuttavia sopravvissuta in Occidente. È comunque sempre lecito chiamare «libere» le società occidentali non appena le si confronti con tutte le altre società, del passato e del presente. Pur nella imperfezione dei mercati, la concorrenza continua a spargere i suoi doni fra gli occidentali, l’asimmetria di potere fra le grandi organizzazioni e gli individui è corretta dalla possibilità di exit, i miti comunitari subiscono la sfida dell’individualismo. Solo in un caso la libertà potrebbe essere travolta: se si materializzasse una minaccia catastrofica (ad esempio, per parlare di pericoli odierni, se si moltiplicassero gli attentati-suicidi e/o l’uso di armi di distruzione di massa sui territori occidentali). In quel caso, la naturale avversione del pubblico al rischio e una pressante domanda di sicurezza potrebbero favorire decisioni dei pubblici poteri di natura tale da travolgere gli istituti della libertà. Messo da parte lo scenario più cupo, però, va detto che sorte e prospettive della libertà sono semmai migliorate, non peggiorate, sul finire del XX secolo. Si è assistito, nell’ultimo trentennio di quel secolo, a una rinascita del pensiero liberale che non sembrava minimamente ipotizzabile alla fine della Seconda guerra mondiale, quando il liberalismo era ormai considerato, quasi ovunque, un’anticaglia, una curiosità del passato. L’individualismo ha preso nuovo slancio, nell’ultima parte del XX secolo, nelle società occidentali. I successi delle rivoluzioni di Reagan e Thatcher e, ancor più, gli effetti prodotti dal crollo del comunismo sovietico sono stati importanti concause. Ma altrettanto importanti sono state certe trasformazioni di lungo periodo delle società occidentali. Si pensi alla crisi dei sistemi di welfare state. È stata provocata dalla concomitanza di due fenomeni: da un lato, una diffusione della ricchezza verso il basso della piramide sociale che ha messo milioni di persone, che in epoche precedenti non avrebbero potuto farlo, nella condizione di trovare nel mercato privato del consumo risorse di sostentamento e di welfare; dall’altro lato, una crescita esorbitante dei costi dei servizi statali di assistenza, unita a una costante bassa qualità dei medesimi. Ciò ha messo in moto in molti paesi occidentali (la Gran Bretagna è all’avanguardia in questo processo in Europa) una spinta verso la sostituzione di un modo di consumo privatizzato al modo socializzato proprio dell’epoca d’oro del welfare state. È plausibile immaginare che in futuro questa spinta favorirà anche forme di intervento statale diverse rispetto al passato per contrastare la povertà: ad esempio, la generalizzazione dei voucher schemes, cioè l’introduzione di buoni liberamente spendibili sul mercato dai cittadini meno abbienti, al posto dell’assistenza statale diretta. Giving the poor cash, and leaving them to decide how to spend it, means trusting their wisdom and intelligence and accepting that the outcome of their choices may not take the form of desiderable civic virtues" (ibidem, 87). La "società degli individui", insomma, riprende quota, si fa di nuovo largo entro la politica di massa. Il declino delle vecchie classi sociali e la scomparsa, o la trasformazione, degli antichi partiti di massa prefigurano, nella seconda metà del XX secolo, significativi mutamenti del ruolo degli stati. Se pure restano molto forti i gruppi che vivono di intervento statale, ci sono anche le condizioni per un ruolo meno invasivo dello Stato. E poiché società degli individui non significa « atomizzazione» ma recupero di autonomia personale dal controllo pubblico-statale e maggiore libertà di scelta per molti, la sua rinascita coincide anche con una maggiore vitalità di aggregazioni extrapolitiche, liberamente scelte, di tipo civile, religioso, eccetera. In ogni caso, se è spiegabile il declino del liberalismo classico nella prima parte del XX secolo, è altrettanto spiegabile la sua rivitalizzazione, almeno sul piano culturale, a cavallo fra XX e XXI secolo. Per padroneggiare questi cambiamenti occorrerà però costruire una teoria politica liberale che, salvaguardando i principi del liberalismo, non si risolva nella pura e semplice ripetizione di antiche e venerabili formule. Questa teoria politica dovrà nutrirsi, senza pregiudizi, dei risultati delle scienze sociali del nostro tempo. Così come fecero, con le scienze sociali del loro tempo, i padri fondatori del liberalismo classico.
Democrazia contro libertà: sembra quasi una bestemmia, ma è soltanto il paradosso più sorprendente che emerge dalla raccolta di saggi Libertà e liberali in Europa e in America (editore Guerini, p. 325, 27,50), in cui numerosi studiosi stilano lo stato di salute del liberalismo nel mondo. Della conclusione di Angelo Panebianco pubblichiamo una sintesi.
«Corriere della sera» del 30 marzo 2007
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