Ogni 24 aprile almeno un milione di Armeni da tutto il pianeta va a a deporre mazzi di fiori rossi sulla «collina delle rondini», sopra Erevan; è il giorno della memoria dello sterminio di altrettanti Armeni, all'inizio del secolo scorso. Anche se il loro piccolo popolo attende ancora giustizia dal mondo
di Antonia Arslan
Dopo decenni di censure e incomprensione, le vittime della prima strage del ’900 sono tornate ad esistere. Non sono più fantasmi per la coscienza internazionale, ne parla il film dei fratelli Taviani (appena uscito anche negli Usa) e giornali autorevoli insorgono quando l’Onu blocca per ragioni «politicamente corrette» una mostra che cita la loro tragedia
New York, aprile 2007, sede delle Nazioni Unite. È programmata una mostra sul genocidio del Ruanda, uno dei più terribili eventi genocidari del Ventesimo secolo, a cura di un’organizzazione che si occupa di questi temi. Tutto è pronto per l’inaugurazione formale, quando un diplomatico turco va a vedere i pannelli predisposti, e in uno di questi legge un breve accenno, solo una frase, alla tragedia degli armeni: «Dopo la prima guerra mondiale, durante la quale un milione di armeni furono uccisi in Turchia…». Basta questo per scatenare l’immediata furibonda reazione dell’Ambasciata di Turchia, in seguito alla quale Kiyotaka Akasaka, un funzionario dello staff del nuovo segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, si affretta a bloccare la mostra, la cui inaugurazione viene rimandata a data da destinarsi, evidentemente per dare il tempo agli organizzatori di eliminare la frase incriminata, cancellando una volta di più l’emergere, perfino come allusione in un pannello, della temibile «questione armena». La quale peraltro dalla stessa organizzazione dell’Onu è conosciuta benissimo, se non altro perché, per definire il crimine di genocidio, furono proprio le Nazioni Unite ad adottare nel 1948 questo termine, appena coniato dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin, proprio in relazione ai due grandi genocidi della prima metà del secolo scorso: quello del suo popolo, la Shoah, e quello degli armeni, come Lemkin stesso sostenne in diverse occasioni, fra cui in un’eccezionale intervista televisiva del 1949, recentemente riscoperta e ritrasmessa negli Stati Uniti. Purtroppo, a simili oltraggiose discriminazioni gli armeni sono abituati da sempre, da quando, dopo il Trattato di Losanna del 1923, all’immensa tragedia subita si aggiunse, per i superstiti, la beffa del silenzio, e un’indifferenza così totale da rendere le loro voci inascoltate, come quelle di inoffensivi, trasparenti fantasmi, se solo provavano a parlare. Così per decenni essi tacquero, e la loro identità di popol o rimase pubblicamente ignorata, più ancora che negata, soprattutto nei Paesi, come l’Italia, dove i flussi migratori erano stati esigui. Ma in tutto il mondo gli armeni erano tollerati solo se si assimilavano o mimetizzavano: persone umili e adattabili, che per farsi accettare cominciavano a dare nomi occidentali ai loro bambini, a frequentare le chiese di rito latino, crescendo i loro figli all’interno della cultura che li aveva accolti, e di conseguenza spesso perdendo perfino la lingua dei padri, che pure era una lingua con una storia straordinaria, un alfabeto originale, una tradizione scritta culturale e letteraria che risaliva al V secolo d.C. Cosa è cambiato oggigiorno? Come mai oggi i discendenti di quei poveri sopravvissuti portano con orgoglio la loro riscoperta armenità? Com’è che il 13 aprile, pochi giorni dopo l’episodio di censura all’Onu, il New York Times dedicava alla vicenda un editoriale durissimo, in cui stigmatizzava l’inesperienza del nuovo segretario generale e del suo team, quando proprio alle Nazioni Unite si suppone che dovrebbe essere affidata la realizzazione di una legge internazionale sui genocidi? E come mai in un’intervista rilasciata qualche giorno dopo al Corriere della Sera, a una precisa domanda della giornalista sul caso della mostra sospesa, Ban Ki-moon rispondeva con qualche impaccio che era stata «rimandata per problemi tecnici», ma che presto sarebbe stata annunciata la data di apertura, e che affrontare le questioni relative ai genocidi è una questione di principio per le Nazioni Unite? Il fatto è che gli armeni sono tornati ad esistere. La gente sa che ci sono, sa che hanno perso la loro patria antica, i loro campi, le loro case, le loro chiese, la loro cultura. Un popolo di fantasmi ha ritrovato la vita. Nel loro film appena uscito, La Masseria delle Allodole, i fratelli Taviani, sviluppando uno spunto appena accennato nel mio libro, ambientano la scena finale durante i processi di Costantinopoli che stabilirono le respo nsabilità del governo dei Giovani Turchi nell’eccidio della popolazione armena d’Anatolia. E la frase finale che compare sullo schermo è: «Il popolo armeno aspetta ancora giustizia». È una consapevolezza crescente, anche se ancora fragile, che il dolore di quella ferita negata, e ancora aperta, comincia ad essere condiviso. Sottili fili s’intrecciano intorno al mondo, e ogni 24 aprile la data della commemorazione vede insieme agli armeni schierarsi una presenza sempre crescente di persone convinte che credere nella sopravvivenza di questo piccolo popolo vuol dire combattere contro i pregiudizi razziali e religiosi che hanno avvelenato il Novecento: al monumento sulla «Collina delle Rondini» sopra Erevan in quel giorno almeno un milione di persone da tutto il mondo va a deporre mazzi di fiori rossi. Ma più forte di ogni gesto simbolico è per gli armeni sparsi per il vasto mondo la sensazione di non essere più soli, e dimenticati: la percezione del calore dell’umana comprensione li ha finalmente convinti a perdonarsi di essere sopravvissuti.
«Avvenire» del 22 aprile 2007
«Avvenire» del 22 aprile 2007
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