In Italia il ricambio generazionale è particolarmente lento, nella politica come nell’impresa, nelle professioni come nelle università, e perfino nello sport e nello spettacolo
di Diego Motta
Una ricerca della Luiss illumina i meccanismi che bloccano il turn over ai vertici: invece della competenza e della visione strategica sono premiate le relazioni e l'immagine pubblica
Svanite le vecchie scuole di partito, gli attuali luoghi di formazione sono le grandi aziende e la «competizione in campo aperto». Gli sforzi di tanti think tank non corrispondono poi ai risultati
Chi fa parte della «meglio gioventù» italiana che guida il Paese da più di un decennio? Quali sono i requisiti fondamentali per la nostra classe dirigente? E soprattutto: cosa dovrà accadere perché si concretizzi un ricambio generazionale che a molti sembra ormai necessario?Sono passati quindici anni da Tangentopoli, l'ultimo evento capace di sconvolgere i vertici della nomenklatura politica e finanziaria. Ma è davvero un segnale negativo che sia stata un'inchiesta giudiziaria a decapitare società e istituzioni. Prima di rispondere a tali domande, occorre però capire che cos'è oggi la classe dirigente del nostro Paese e a che cosa ci si riferisce quando se ne parla, per delimitarne i confini e comprendere le percezioni diverse che si muovono su questo tema nell'opinione pubblica. In Italia, stando al primo rapporto nazionale in materia presentato dall'università Luiss, sembrano emergere sempre di più dei circoli ristretti di potere, vere «caste» di privilegiati destinati a durare in eterno e a diventare sempre più autoreferenziali. Ce n'è per tutti, dai magistrati ai sindacati, dai docenti universitari ai politici, dalle élite finanziarie e imprenditoriali ai giornalisti, fino ai personaggi dello sport e dello spettacolo.
Le regole non scritte della successione
Il rapporto Luiss ha lavorato su gruppi dirigenti crescenti per numero, da 2mila a 6mila fino a 17mila. Tre mappe differenti che confermano una strutturale difficoltà nel definire confini certi. Dire «quanti» sono i dirigenti che contano davvero è dunque impresa ardua, tanto più che solo 1 dirigente su 4 si sente parte di questo circolo ristretto. Come sostiene il direttore generale della Luiss, Pier Luigi Celli, «oggi abbiamo sempre meno élite e sempre più dirigenti preoccupati di conservare se stessi». Con il risultato che i manager di aziende pubbliche e private italiane con un'età inferiore ai 40 anni si fermano al 5%, mentre i deputati under 44 non vanno oltre il 12%. Nessuna successione in vista, a nche perché non esistono parametri meritocratici. «Ogni padrino - ha sintetizzato una volta il giovane Giuliano da Empoli, professione sociologo - si sceglie uno o più figliocci che, se seguono le regole, saranno un giorno chiamati a succedergli». Si tratta di una tendenza, quella in uso, in forte contrasto con le qualità «ideali» di cui gli italiani vorrebbero fosse permeata la classe dirigente: in testa vi sono valori come la competenza (95,5%) la visione strategica e la capacità di anticipare i problemi (94,3%) il senso morale, la legalità e l'etica (93,7%). Quali sono invece nella realtà le doti che contano? Innanzitutto, intrattenere relazioni importanti (60,6%) tutelare e promuovere interessi specifici e di settore (32,6%) e godere di un'immagine pubblica positiva (28,2%). Essere in grado di fare lobby pesa molto di più che mostrare capacità di leadership e questo resta il limite maggiore del nostro Paese soprattutto in confronto al modello anglosassone.
Chi chiede il turn over
In realtà, a guardare il numero di associazioni, think tank e pensatoi proiettati a ragionare sulla questione generazionale, il ricambio ai posti di comando del sistema Italia dovrebbe essere assicurato. Tra quarantenni ormai pronti a scendere in campo e ottantenni che si dicono decisi finalmente a farsi da parte, la successione sulle poltrone che contano potrebbe tranquillamente appartenere al novero delle formalità. Si prenda l'ultimo caso, in ordine cronologico: il Patto generazionale lanciato dall'ex politico Luca Josi, che ha chiesto di sottoscrivere un appello in cui i firmatari (uomini delle istituzioni, imprenditori, manager, opinion leader) si impegnano formalmente a lasciare (o a non accettare) ruoli di leadership nei rispettivi settori di attività. Quanti degli attuali «potenti» sarebbero disposti a ritirarsi automaticamente al compimento dei 60 anni, termine fissato dal Patto generazionale? Pochissimi, anche se neppure quell'età può essere presa come un valore assoluto. Basti pensare in America al caso di Alan Greenspan, presidente della Fed rimasto in carica per 19 anni, fino alla veneranda età (anche per il mercato del lavoro Usa) di 80 anni. Tornando all'Italia e alla nuova generazione che scalpita, c'è poi il caso di VeDrò, l'associazione di Enrico Letta e Anna Maria Artoni, che raggruppa i 30-40enni provenienti dal mondo dell'impresa e delle istituzioni, dell'accademia e della ricerca, un «laboratorio» che «è la risposta - dicono gli ideatori di VeDrò - a una domanda di partecipazione e intervento espressa da molti giovani protagonisti della vita del Paese». Il punto è che, svanite le vecchie scuole di partito, i nuovi luoghi di formazione, secondo il rapporto Luiss, sono diventati ormai le grandi aziende (70,1%) e la competizione in campo aperto (65%), intesa come momento determinante per acquisire know how e competenze. Più indietro sono invece le associazioni di rappresentanza, come Confindustria e Confcommercio (49,3%) le banche e le assicurazioni (47%). Per ora si muovono più i portatori di interesse che non i diretti interessati e questo gioverà magari al dibattito culturale del Paese, ma certo non al cambiamento effettivo nelle stanze di comando. «È un percorso tutto da costruire», secondo i curatori del rapporto Luiss, che richiede tra le altre cose «la creazione di un linguaggio comune» e «un esercizio di generosità», virtù quest'ultima di cui l'Italia e gli italiani non sono per fortuna mai stati avari.
«Avvenire» del 21 aprile 2007
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