di Luca Doninelli
Ho assistito a una nuova messa in scena della Vita di Galileo di Bertolt Brecht, che nel 1963 provocò a Milano, nella versione di Giorgio Strehler, enormi polemiche. Giovani cattolici, agguerriti ma anche molto lucidi, sfidarono allora il prestigio culturale del Piccolo Teatro riconoscendo in quel testo, ma soprattutto in quella versione del testo, un attacco non ai privilegi ecclesiastici del ’500 ma alla Chiesa Cattolica del loro tempo (contro le note di regia dello stesso Brecht, il quale ricorda come la scienza moderna sia «figlia legittima della Chiesa»).
Era l’epoca dei poteri forti. E un potere forte è anche quello che sa camuffare bene la propria forza, perché si sa che il bisogno di esibizione è un segno di fragilità. Era l’epoca in cui la cultura era circondata, nell’opinione pubblica e - credo - anche nella propria stessa opinione, da un’aura di libertà da ogni potere. Un mondo a parte, insomma: talvolta un po’ staccato dalla realtà quotidiana ma - almeno sulla carta - libero, come libero dev’essere lo spirito umano, se si vuole esprimere. La cultura iniziava a schierarsi: contro un potere, a favore di un altro potere. Come in teatro crollava l’illusione naturalistica, così crollava l’illusione di una cultura pura, regno delle anime belle.
La Vita di Galileo si prestava bene a questo gioco. Il dramma - che ruota, ovviamente, intorno alla dimostrazione della teoria copernicana e all’obbligo dell’abiura da parte dell’Inquisizione - fu scritto in Danimarca, patria di molti profughi del regime nazista (come Niels Bohr), fra il ’38 e il ’39, ma subì un’ingente revisione dopo Hiroshima. Brecht è stato poeta e drammaturgo tanto grande quanto marxista. Se nella prima edizione del testo prevale l’idea della scienza come liberazione dell’uomo dall’ignoranza e dalla miseria (causata dall’ignoranza), nella seconda lo scrittore si spinge a riflettere sul cattivo uso che il potere può fare della scienza e sulla necessità di una soluzione politica del problema: a nulla serve la nuova scienza se a tenerne le fila sono i vecchi interessi. La questione passa perciò dalla scienza alla politica. Precipitando così dal piano delle verità dimostrate a quello, ben più scivoloso, dell’arbitrio degli uomini. Una questione non più di scienza, ma di umanesimo.
Nella nuova messa in scena del dramma brechtiano il ruolo di Galileo viene affidato dal regista Antonio Calenda a Franco Branciaroli, grandissimo attore nonché intellettuale dichiaratemente cattolico. Al quale non interessa tanto «cattolicizzare» il Galileo brechtiano quanto porre l’accento sui temi della ragione e della libertà: Galileo, questo il suo dramma, è e rimane «figlio della Chiesa», che gli ha insegnato il senso e l’uso della ragione.
In questo senso - e lo spettacolo lo mostra con chiarezza - non è più questione di «scienza» e «fede» astrattamente intese, ma dei soggetti che le praticano nel concreto. La ragione non sta a priori dall’una o dall’altra parte: sta dalla parte dell’uomo e delle sue esigenze originali, che riguardano tanto la conoscenza del vero quanto il rispetto dei suoi diritti, il suo bisogno di cura, di accoglienza e di amore, la sua necessità di vincere la solitudine. Il problema - oggi più che mai scottante - è se l’uomo è «qualcuno» o se non è «nessuno». «Che cos’è l’uomo, che di lui te ne curi?» dice un salmo. Bisogna capire se abbiamo conservato questo interrogativo o se, tra un dibattito televisivo e l’altro, nel corso degli anni l’abbiamo completamente perso, tanto da provare un invincibile fastidio quando qualcuno ci viene a ricordare ciò che siamo. Nessuna teoria scientifica, nessuna bioingegneria, nessuna ideologia politica possono sostituirsi alla risposta che solo l’io può e deve dare a questa domanda. Ma l’io non è una cosa astratta: cresce in un terreno preciso. E la Chiesa è uno di questi terreni. Dal suo seno - lo dice persino il marxista Brecht - nacque un uomo libero come Galileo. Essa ebbe la grandezza di produrre un uomo come lui, capace di rivoltarsi contro di essa.
Chi lamenta l’insistenza della Chiesa su temi che, a suo parere, non dovrebbero riguardarla, dovrebbe considerare quale patrimonio di libertà e di umanità adulta verrebbe meno se le sue parole non potessero più raggiungere l’uomo di oggi.
Era l’epoca dei poteri forti. E un potere forte è anche quello che sa camuffare bene la propria forza, perché si sa che il bisogno di esibizione è un segno di fragilità. Era l’epoca in cui la cultura era circondata, nell’opinione pubblica e - credo - anche nella propria stessa opinione, da un’aura di libertà da ogni potere. Un mondo a parte, insomma: talvolta un po’ staccato dalla realtà quotidiana ma - almeno sulla carta - libero, come libero dev’essere lo spirito umano, se si vuole esprimere. La cultura iniziava a schierarsi: contro un potere, a favore di un altro potere. Come in teatro crollava l’illusione naturalistica, così crollava l’illusione di una cultura pura, regno delle anime belle.
La Vita di Galileo si prestava bene a questo gioco. Il dramma - che ruota, ovviamente, intorno alla dimostrazione della teoria copernicana e all’obbligo dell’abiura da parte dell’Inquisizione - fu scritto in Danimarca, patria di molti profughi del regime nazista (come Niels Bohr), fra il ’38 e il ’39, ma subì un’ingente revisione dopo Hiroshima. Brecht è stato poeta e drammaturgo tanto grande quanto marxista. Se nella prima edizione del testo prevale l’idea della scienza come liberazione dell’uomo dall’ignoranza e dalla miseria (causata dall’ignoranza), nella seconda lo scrittore si spinge a riflettere sul cattivo uso che il potere può fare della scienza e sulla necessità di una soluzione politica del problema: a nulla serve la nuova scienza se a tenerne le fila sono i vecchi interessi. La questione passa perciò dalla scienza alla politica. Precipitando così dal piano delle verità dimostrate a quello, ben più scivoloso, dell’arbitrio degli uomini. Una questione non più di scienza, ma di umanesimo.
Nella nuova messa in scena del dramma brechtiano il ruolo di Galileo viene affidato dal regista Antonio Calenda a Franco Branciaroli, grandissimo attore nonché intellettuale dichiaratemente cattolico. Al quale non interessa tanto «cattolicizzare» il Galileo brechtiano quanto porre l’accento sui temi della ragione e della libertà: Galileo, questo il suo dramma, è e rimane «figlio della Chiesa», che gli ha insegnato il senso e l’uso della ragione.
In questo senso - e lo spettacolo lo mostra con chiarezza - non è più questione di «scienza» e «fede» astrattamente intese, ma dei soggetti che le praticano nel concreto. La ragione non sta a priori dall’una o dall’altra parte: sta dalla parte dell’uomo e delle sue esigenze originali, che riguardano tanto la conoscenza del vero quanto il rispetto dei suoi diritti, il suo bisogno di cura, di accoglienza e di amore, la sua necessità di vincere la solitudine. Il problema - oggi più che mai scottante - è se l’uomo è «qualcuno» o se non è «nessuno». «Che cos’è l’uomo, che di lui te ne curi?» dice un salmo. Bisogna capire se abbiamo conservato questo interrogativo o se, tra un dibattito televisivo e l’altro, nel corso degli anni l’abbiamo completamente perso, tanto da provare un invincibile fastidio quando qualcuno ci viene a ricordare ciò che siamo. Nessuna teoria scientifica, nessuna bioingegneria, nessuna ideologia politica possono sostituirsi alla risposta che solo l’io può e deve dare a questa domanda. Ma l’io non è una cosa astratta: cresce in un terreno preciso. E la Chiesa è uno di questi terreni. Dal suo seno - lo dice persino il marxista Brecht - nacque un uomo libero come Galileo. Essa ebbe la grandezza di produrre un uomo come lui, capace di rivoltarsi contro di essa.
Chi lamenta l’insistenza della Chiesa su temi che, a suo parere, non dovrebbero riguardarla, dovrebbe considerare quale patrimonio di libertà e di umanità adulta verrebbe meno se le sue parole non potessero più raggiungere l’uomo di oggi.
«Il Giornale» del 1 aprile 2007
Nessun commento:
Posta un commento