Gli ex Pci, i gulag e il Partito democratico
di Pierluigi Battista
Sciolto ufficialmente sedici anni fa, il Pci rivive come fantasma, ossessione, occasione e pretesto per interminabili ripensamenti. Piero Fassino che annuncia il prossimo solenne omaggio alle vittime italiane del Gulag compie un gesto che solo apparentemente può significare l' immersione nell' archeologia degli orrori del Novecento, un viaggio a ritroso nelle dispute che hanno infiammato le passioni politiche di un tempo ma che ora sono spente, inerti, utili soltanto ad alimentare le diatribe storiografiche. Ricordare i comunisti italiani inghiottiti nel Gulag significa invece alludere al ruolo attivo che il Partito comunista di Togliatti ebbe nel dispotismo staliniano: comunisti massacrati dai comunisti, una storia tragica di delazioni, tradimenti, compagni scomodi soppressi, annichiliti, sacrificati al Moloch totalitario. Fassino non va a Mosca soltanto a commemorare le vittime del Gulag, ma va a ricordare che anche il Pci contribuì alla costruzione del Gulag. Gli storici (o almeno quelli che non si piegavano all' ortodossia della vulgata) lo sapevano già da tempo, ma perché Fassino sente il bisogno incoercibile di ricordarlo proprio adesso, in un' epoca così lontana da quei fatti? Perché alla vigilia della nascita del Partito democratico e dello scioglimento dei Ds, il segretario della Quercia avverte con allarme che la prima mutazione, quella che nell' epopea dell' 89 portò alla chiusura del Pci, alla cancellazione delle sue insegne, del suo nome e della sua identità storico-politica, fu sì drammatica, lacerante ed umanamente gravosa, (quante lacrime copiose rigarono il volto dei dirigenti che si avviavano a diventare postcomunisti) ma non tanto da spezzare tutti i legami con il passato. Chi ha diretto il passaggio dal Pci al Pds e poi ai Ds ha vissuto con un certo cruccio risentito la testarda sollecitazione a fare i conti con la propria storia senza remore ed esitazioni, come se un destino crudele costringesse i figli del comunismo italiano a sottostare ad esami che non finiscono mai e a sentirsi perciò, come amano dire, figli di un dio minore. Ma il complesso del postcomunista non ha perseguitato per prima proprio loro, i figli di un dio minore che hanno trascorso un quindicennio nella ricerca asfissiante di nuove aggregazioni, nuove denominazioni, nuove rifondazioni, in un susseguirsi vorticoso di Cose dal nome incerto ed evanescente, in un interrogarsi quasi maniacale sulla propria identità? Oggi la maggioranza dei Ds guidati da Fassino ha scelto, e ha scelto proprio grazie all' ammirevole ostinazione del suo segretario che tra pochi giorni dovrà sobbarcarsi la fatica ma anche l' onore di un congresso che si preannuncia come una svolta altrettanto dolorosa di quella della Bolognina. Il suo approdo è il Partito democratico, lo scioglimento definitivo dell' eredità postcomunista. Ma con la percezione che è ancora l' altra eredità, quella storicamente schiacciante, insomma l' eredità comunista, a chiedere di essere definitivamente dissolta. La «bulimia del ripensamento» che sembra agitare i dirigenti diessini, così tardivamente intenti a demolire ogni tassello della passata identità (tranne l' icona di Berlinguer, come ha acutamente notato un altro ex per nulla tenero con i suoi «compagni di scuola» come Andrea Romano) sembra proprio la malattia che accompagna questo congedo che si spera definitivo dal passato. Come se lo spettro del Gulag si fosse risvegliato per portare i postcomunisti all' appuntamento del Partito democratico totalmente purificati dalle macchie della loro storia. Anche se forse ci potevano pensare (molto) prima.
«Corriere della sera» dell’11 aprile 2007
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