di Massimo Gramellini
L’analfabetismo religioso degli italiani, certificato da un sondaggio de «Il Giornale», non è sintomo di ateismo ma di ignoranza. Per quanto occorra intendersi: ignorante era mia nonna, che aveva la terza elementare e però guardava «I fratelli Karamazov» alla tele, non essendoci nient’altro, e sapeva ancora distinguere gli Evangelisti dai Magnifici Quattro. L’ignorante moderno è invece un maleducato istituzionale, nel senso che nessuna delle istituzioni deputate a farlo gli insegna più nulla: la famiglia, la scuola, la tv pubblica e tanto meno la Chiesa, che nei secoli bui impediva ai fedeli di accostarsi alle Scritture senza il tramite del prete, mentre oggi sembra aver rinunciato anche a quello. I vescovi non spiegano più lo Spirito Santo o la resurrezione della carne, che ormai persino qualche cattolico fervente ritiene sia una metafora. Discettano di preservativi e famiglie di fatto. E molti parroci sopraffatti dal buonismo - lo ha rilevato Messori - parlano di Gesù come se fosse Veltroni, quando non viceversa.
La Chiesa contemporanea è un impasto di diritti civili e carità. A occuparsi della ragione sociale dell’azienda, il catechismo, è rimasto quel prof vestito di bianco che abita in Vaticano. Ma nemmeno lui che è il vicario di Cristo (e non il successore, come crede il 40% degli intervistati) può compiere il miracolo di rendere meno noiose certe omelie che si ascoltano dai pulpiti. Non c’è mai stata tanta fame di spiritualità in giro. Se però i cuochi continuano a occuparsi d’altro, è naturale che uno finisca per cucinarsela da sé.
La Chiesa contemporanea è un impasto di diritti civili e carità. A occuparsi della ragione sociale dell’azienda, il catechismo, è rimasto quel prof vestito di bianco che abita in Vaticano. Ma nemmeno lui che è il vicario di Cristo (e non il successore, come crede il 40% degli intervistati) può compiere il miracolo di rendere meno noiose certe omelie che si ascoltano dai pulpiti. Non c’è mai stata tanta fame di spiritualità in giro. Se però i cuochi continuano a occuparsi d’altro, è naturale che uno finisca per cucinarsela da sé.
«La Stampa» del 10 aprile 2007
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