Fu quello fascista un vero totalitarismo? Secondo Croce e Volpe fu piuttosto una diarchia autoritaria, un compromesso storico tra Mussolini e la monarchia
di Eugenio Di Rienzo
Con il termine di Stato totalitario si indica un sistema politico che, in assenza di forze contrastanti o concorrenti con la sua azione, è in grado di dominare in modo incondizionato e terroristico sugli individui e sulla società. In Italia, questa definizione venne applicata, per la prima volta, alla rivoluzione fascista da Giovanni Amendola, che nel 1923 parlò dello «spirito totalitario» che aveva contraddistinto la sua ascesa al potere. Con il discorso di Mussolini del giugno 1925, in cui il fascismo veniva esaltato per la «sua feroce volontà totalitaria», la dittatura strappava il monopolio di questo termine all’opposizione, offrendo un forte pretesto alla storiografia del secondo dopoguerra per definire lo Stato fascista come uno Stato totalitario, in buona parte analogo al regime sovietico e a quello nazionalsocialista.
Croce invece rifiutava la qualifica di totalitarismo al governo personale di Mussolini, riservandola al solo sistema politico dell’Urss. Dello stesso avviso era anche Gioacchino Volpe che, nella sua Storia del movimento fascista del 1939, preferiva parlare di «Stato forte», contraddistinto dalla «diarchia» tra le prerogative politiche di Vittorio Emanuele III e quelle di Mussolini, nonostante l’istituzione, nel dicembre 1928, del Gran Consiglio del fascismo, a cui furono attribuite molte fondamentali competenze di politica estera e internazionale, fino a quel momento riservate alla corona. Ancora alla fine degli anni Trenta, Volpe sosteneva che l’Italia era retta da un «governo a doppio comando», da una sorta di «matrimonio d’interesse», con «letti rigorosamente separati», tra Duce e Re.
Per tutto il ventennio, il problema della diarchia non ricevette mai una precisa definizione giuridica pienamente favorevole al fascismo, neanche in quegli intellettuali che più si sforzavano di equiparare il cesarismo autoritario di Mussolini al totalitarismo hitleriano. Invano, Ugo Spirito proponeva, nel 1941, l’ipotesi di un «ducismo integrale», nella convinzione che non si potesse concepire un «regime totalitario che ne prescinda». Né aveva trovato accoglienza migliore la proposta di Bottai, nel 1938, che significativamente aveva pensato di tagliare il nodo gordiano dei due poteri concorrenti, concentrando l’assoluta sovranità nella figura del monarca, non più «legato alla lettera di leggi e costituzioni».
Avrebbe tracciato il bilancio di questo fallimento della via italiana al totalitarismo proprio Mussolini, che, al tempo si Salò, definì la Marcia su Roma come un’occasione mancata. Essa non fu sicuramente una «semplice crisi di Governo, un normale cambiamento istituzionale». u sicuramente un’insurrezione «che però non sboccò in una vera e propria rivoluzione, che si ha solo «quando si cambia con la forza non il solo sistema di governo, ma la forma istituzionale dello Stato». Quando, il 31 ottobre del 1922, «le camicie nere marciarono per le vie di Roma, fra il giubilo acclamante del popolo, vi fu un piccolo errore nel determinare l’itinerario: invece di passare davanti al Palazzo del Quirinale, sarebbe stato meglio penetrarvi dentro».
La «svista» di allora, continuava Mussolini, avrebbe determinato la controrivoluzione del 25 luglio 1943. Per tutta la sua durata, infatti, «il fascismo, generoso e romantico come fu nell’ottobre del 1922, ha scontato l’errore di non essere stato totalitario sino alla vetta della piramide e di aver creduto di risolvere il problema con un sistema che, nelle sue applicazioni storiche remote e vicine, ha palesato la sua natura di difficile e temporaneo compromesso». In questo modo, «la Rivoluzione fascista si fermò davanti ad un trono». Quella scelta sbagliata, che parve allora «inevitabile», determinò alla lunga la fine del regime, e permise a Vittorio Emanuele di compiere la sua «vendetta», quando il «complesso fascista» collassò, con il «corso sfortunato delle operazioni militari», che determinò la sconfitta italiana nel secondo conflitto mondiale.
Croce invece rifiutava la qualifica di totalitarismo al governo personale di Mussolini, riservandola al solo sistema politico dell’Urss. Dello stesso avviso era anche Gioacchino Volpe che, nella sua Storia del movimento fascista del 1939, preferiva parlare di «Stato forte», contraddistinto dalla «diarchia» tra le prerogative politiche di Vittorio Emanuele III e quelle di Mussolini, nonostante l’istituzione, nel dicembre 1928, del Gran Consiglio del fascismo, a cui furono attribuite molte fondamentali competenze di politica estera e internazionale, fino a quel momento riservate alla corona. Ancora alla fine degli anni Trenta, Volpe sosteneva che l’Italia era retta da un «governo a doppio comando», da una sorta di «matrimonio d’interesse», con «letti rigorosamente separati», tra Duce e Re.
Per tutto il ventennio, il problema della diarchia non ricevette mai una precisa definizione giuridica pienamente favorevole al fascismo, neanche in quegli intellettuali che più si sforzavano di equiparare il cesarismo autoritario di Mussolini al totalitarismo hitleriano. Invano, Ugo Spirito proponeva, nel 1941, l’ipotesi di un «ducismo integrale», nella convinzione che non si potesse concepire un «regime totalitario che ne prescinda». Né aveva trovato accoglienza migliore la proposta di Bottai, nel 1938, che significativamente aveva pensato di tagliare il nodo gordiano dei due poteri concorrenti, concentrando l’assoluta sovranità nella figura del monarca, non più «legato alla lettera di leggi e costituzioni».
Avrebbe tracciato il bilancio di questo fallimento della via italiana al totalitarismo proprio Mussolini, che, al tempo si Salò, definì la Marcia su Roma come un’occasione mancata. Essa non fu sicuramente una «semplice crisi di Governo, un normale cambiamento istituzionale». u sicuramente un’insurrezione «che però non sboccò in una vera e propria rivoluzione, che si ha solo «quando si cambia con la forza non il solo sistema di governo, ma la forma istituzionale dello Stato». Quando, il 31 ottobre del 1922, «le camicie nere marciarono per le vie di Roma, fra il giubilo acclamante del popolo, vi fu un piccolo errore nel determinare l’itinerario: invece di passare davanti al Palazzo del Quirinale, sarebbe stato meglio penetrarvi dentro».
La «svista» di allora, continuava Mussolini, avrebbe determinato la controrivoluzione del 25 luglio 1943. Per tutta la sua durata, infatti, «il fascismo, generoso e romantico come fu nell’ottobre del 1922, ha scontato l’errore di non essere stato totalitario sino alla vetta della piramide e di aver creduto di risolvere il problema con un sistema che, nelle sue applicazioni storiche remote e vicine, ha palesato la sua natura di difficile e temporaneo compromesso». In questo modo, «la Rivoluzione fascista si fermò davanti ad un trono». Quella scelta sbagliata, che parve allora «inevitabile», determinò alla lunga la fine del regime, e permise a Vittorio Emanuele di compiere la sua «vendetta», quando il «complesso fascista» collassò, con il «corso sfortunato delle operazioni militari», che determinò la sconfitta italiana nel secondo conflitto mondiale.
«Il Giornale» del 18 aprile 2007
Nessun commento:
Posta un commento