All'indomani dell'editoriale di Galli della Loggia
Di Eugenia Roccella
Di Eugenia Roccella
L'ennesimo video registrato in una qualunque scuola italiana con il cellulare, e diffuso da You Tube: l'editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera di lunedì parte da qui, riportando fedelmente alcune sconvolgenti battute del dialogo tra un alunno e una professoressa. Il ragazzino gioca consapevolmente a sorpassare ogni limite, sicuro della propria impunità, mentre la docente è schiacciata dall'impotenza e dall'imbarazzo. Questo episodio, come altri, testimonia l'avvenuta dissoluzione di qualunque forma di rispetto nei confronti degli insegnanti, la fine di ogni autorevolezza pedagogica, ma giustamente Galli va oltre, e l'articolo si intitola "Addio ai padri". La soggettività giovanile si forma ormai al di fuori dei canali tradizionali, e il mondo adulto non è più né un modello né un esempio. I ragazzi si fanno da soli i propri canoni di riferimento, attraverso il gruppo di coetanei e le reti di comunicazione (Internet in primo luogo), che costituiscono una sorta di mondo a parte, autonomo e autoreferenziale. Non siamo più in grado di educare, perché non crediamo nemmeno noi al valore di quello che vorremmo trasmettere, e neppure al nostro ruolo di educatori; siamo incerti e intimiditi, sempre pronti a rifugiarci nei mito del dialogo, dell'ascolto e della tolleranza, che da tempo sono sfociati in una slabbrata permissività. Galli parla di padri metaforici, cioè delle responsabilità di un'intera generazione di adulti, incapace di indicare la strada e di proporre con forza la distinzione tra bene e male, desiderio e limite, insegnando ai ragazzi che la vita non si riduce alla ricerca di un'immediata felicità personale, ma è costruzione della coscienza. Potremmo discutere, però, anche di figure più concrete, di modelli maschili, dell'evanescenza sempre più accentuata del ruolo paterno nella vita quotidiana. I temi si intrecciano: è la scuola ad essere arrivata al capolinea, dopo decenni di politiche dissennate, ma è anche la famiglia che è stata presa in contropiede dalla grande mutazione antropologica che è in corso, e in cui ci stiamo infilando con serena incoscienza. L'idea che gli individui siano totalmente arbitri della propria esistenza, dimenticando che nascono e muoiono dentro un tessuto di relazioni di cui si è per sempre responsabili, per esempio, rende il rapporto con i genitori più fragile e meno necessario; il fatto che i figli siano pochi e spesso unici, che ormai la solidarietà generazionale sia a rischio, che abbiamo coniato un nuovo termine, "child-free", per connotare positivamente l'essere privi di figli, certo incide negativamente. Pesa la svalutazione della famiglia, la distruzione dei significati della maternità e della paternità, la cultura del disimpegno affettivo e dell'equivalenza tra desiderio e diritto. Tutto questo, e molto altro, si sa. Viene detto nel privato, nelle preoccupate confidenze tra mamme, nelle conversazioni tra amici, ma difficilmente entra nel dibattito pubblico. La politica fa fatica a rendersi conto che la formazione delle giovani generazioni è un compito fondamentale, e che su questo, prima di tutto, dovrebbe misurare le proprie scelte. Alle famiglie, a cui questo compito tocca prima che a chiunque altro, serve aiuto: un sostegno economico, certamente (per esempio la realizzazione del famoso quoziente familiare), ma soprattutto un sostegno immateriale, che aiuti i genitori a non sentirsi sovrastati da una cultura ostile, vissuta spesso come un vero e proprio assedio.
«Avvenire» del 4 aprile 2007
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