di Caterina Soffici
Bernhard Bueb ha venduto 200mila copie sostenendo: "I giovani hanno il diritto di essere educati". Reazionario o estremamente moderno? Sarebbe facilmente liquidabile sotto la prima definizione. Se però lo si legge senza lenti ideologiche, le cose cambiano
Reazionario o estremamente moderno? Un libro che si intitola Elogio della disciplina (Rizzoli) sarebbe facilmente liquidabile sotto la prima definizione. Se però lo si legge senza lenti ideologiche, le cose cambiano. Perché si tratta di un pamphlet volutamente provocatorio, che mette il dito nella piaga dell’educazione moderna: ossia la mancanza di educazione. L’autore è il pedagogista tedesco Bernhard Bueb, classe 1938, per trent’anni rettore dell’esclusivo collegio di Salem, uno degli istituti più rinomati ed esclusivi della Germania. Il posto dove le famiglie bene, anche quelle molto radical e molto chic, mandano i propri rampolli, per intenderci.
Bueb, che la Bild Zeitung ha definito «il maestro più severo della Germania», parte da un concetto base: «I giovani hanno diritto alla disciplina». Tema trattato in un articolo apparso sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, che scatenò un acceso dibattito ed è alla base dell’idea di ampliare il discorso in un libro, subito balzato al terzo posto nella classifica dello Spiegel e bestseller da duecentomila copie.
In Germania parlare di disciplina e autorità è molto delicato, perché sono temi che evocano immediatamente i fantasmi del nazismo. E infatti Bueb spiega: «Il nazionalsocialismo ha minato le fondamenta stesse della cultura dell’educazione. I valori e le virtù che costituiscono il cuore della pedagogia patiscono ancora le conseguenze dell’uso improprio che ne fece il nazionalsocialismo: anche la variante tedesca della rivolta giovanile post-sessantotto non è stata altro che una conseguenza della catastrofe in cui il paese era precipitato».
Quindi? Quindi per educare veramente i giovani è necessario scremare gli eccessi autoritari da un lato e dall’altro quelli lassisti antiautoritari retaggio del Sessantotto e di tante teorie e metodi alternativi che hanno promosso un’educazione priva di imposizioni, libera e incondizionata.
Aveva fatto discutere nel 1999 il saggio della psicoterapeuta infantile inglese Asha Philips I no che aiutano a crescere (uscito in Italia per Feltrinelli con prefazione di Giovanni Bollea, che lo definiva «uno dei più bei libri che io abbia letto sull’argomento»). Questo Elogio della disciplina di Bueb è una sua prosecuzione ideale. Basta scorrere i titoli dei capitoli per capire cosa intenda dire: «Occorre ritrovare il coraggio di educare», «La libertà si conquista con la disciplina», «Potere assoluto ai genitori», «La disciplina come terapia», «Non bisogna sempre discutere tutto», «Il disordine è causa di dolore precoce», «per educare con giustizia bisogna essere disposti a punire», «La famiglia non è tutto», «L’uomo è interamente uomo soltanto quando gioca», «Il talento da solo non basta».
Peggio che reazionario, dunque. Punizioni, ordine e disciplina e se ci mettete anche un richiamo ai valori, alla lealtà, all’onestà, all’attenzione verso il prossimo eccetera, ci possiamo aggiungere anche «bigotto». Ma non è così. Perché le tesi di Bueb, scremate da qualche rigidità un po’ troppo teutonica, andrebbero affisse in tutte le scuole italiane.
Andrebbe regalato a quei genitori che hanno menato il professore per un brutto voto al pupillo, al nonno che ha picchiato il preside colpevole di aver sequestrato il cellulare al nipote. Copie gratis anche ai genitori della ragazzina che si fa una canna in classe, a quelli del giovinastro che rolla davanti al prof e poi lo minaccia «se parli ti faccio massacrare», agli autori dei filmini porno in classe.
Tutto ciò che media, sociologi e pensatori di varia natura definiscono «bullismo», andrebbe chiamato con il suo nome vero: mancanza di educazione, ossia carenza, ossia che nessuno educa più. La famiglia da un lato e la scuola dall’altro hanno abdicato al loro ruolo. E questo non c’è bisogno che ce lo venga a dire Bernhard Bueb, il quale però può aiutare a capire come tutto ciò è potuto accadere.
Il «maestro più severo di Germania» non predica, come ci si potrebbe aspettare dalle premesse, il ritorno al «sacrosanto ceffone». Anzi, per lui le punizioni corporali sono mortificanti e non servono a niente. Ma le punizioni, quelle sì, sono sacrosante. «Chi dubita dell’utilità dei castighi sceglie la via del dialogo per aiutare i giovani a diventare assennati, ma influenzare il loro comportamento - e tanto più modificarlo - è impresa al di sopra della forze dei genitori, educatori, e insegnanti». E allora cosa fare? Sentite cosa ha fatto lui: «A Salem fino agli anni Ottanta abbiamo cercato di controllare l’uso di droghe, alcolici e sigarette ricorrendo al dialogo. È stato un fallimento. Con l’avvento di nuovi metodi chimici capaci di rintracciare nelle urine la presenza di droghe, dopo anni travagliati di sforzi infruttuosi abbiamo deciso da un giorno all’altro di introdurre l’esame delle urine: ogni mattina uno studente scelto a caso deve sottoporsi alle analisi e se risulta positivo viene espulso immediatamente. Già all’atto dell’iscrizione genitori e studenti devono sottoscrivere l’accettazione di questa norma. Dopo le prime espulsioni le droghe sono sparite dalla scuola».
Il vero problema, secondo il pedagogista, sta in uno strano concetto di libertà che ha preso piede in tutta Europa. Dice Bueb: «I giovani non vengono più allevati, ma si limitano a crescere da soli. Mentre avere il coraggio di educare significa prima di tutto avere il coraggio di esercitare la disciplina».
La generazione del Sessantotto, secondo Bueb, ha gettato alle ortiche Pierino Porcospino e ha regalato ai figli Pippi Calzelunghe, la meravigliosa creatura letteraria di Astrid Lindgren, che incarna un falso concetto di «libertà assoluta». I giovani confondono la libertà con l’indipendenza e «pensano di essere liberi quando si rifiutano di obbedire a una autorità e dunque si credono liberi da qualunque controllo». Sbagliatissimo, sentenzia Bueb. Perché solo attraverso la disciplina si raggiunge la vera libertà interiore.
Chi cerca nel libro facili formule da applicare al suo caso, rimarrà deluso. Purtroppo non c’è un decalogo: «Le formule - dice - sono il nemico giurato della pedagogia, perché l’applicazione schematica di regole prefissate contraddice l’essenza stessa del processo educativo». L’unica regola che Bueb sembra regalare è la seguente: «L’educazione non è altro che amore ed esempio» (secondo il motto di Friedrich Fröbel, il creatore dei Kindergarten). «Non occorre aggiungere altro».
Resta il dubbio: reazionario o estremamente moderno?
Reazionario o estremamente moderno? Un libro che si intitola Elogio della disciplina (Rizzoli) sarebbe facilmente liquidabile sotto la prima definizione. Se però lo si legge senza lenti ideologiche, le cose cambiano. Perché si tratta di un pamphlet volutamente provocatorio, che mette il dito nella piaga dell’educazione moderna: ossia la mancanza di educazione. L’autore è il pedagogista tedesco Bernhard Bueb, classe 1938, per trent’anni rettore dell’esclusivo collegio di Salem, uno degli istituti più rinomati ed esclusivi della Germania. Il posto dove le famiglie bene, anche quelle molto radical e molto chic, mandano i propri rampolli, per intenderci.
Bueb, che la Bild Zeitung ha definito «il maestro più severo della Germania», parte da un concetto base: «I giovani hanno diritto alla disciplina». Tema trattato in un articolo apparso sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, che scatenò un acceso dibattito ed è alla base dell’idea di ampliare il discorso in un libro, subito balzato al terzo posto nella classifica dello Spiegel e bestseller da duecentomila copie.
In Germania parlare di disciplina e autorità è molto delicato, perché sono temi che evocano immediatamente i fantasmi del nazismo. E infatti Bueb spiega: «Il nazionalsocialismo ha minato le fondamenta stesse della cultura dell’educazione. I valori e le virtù che costituiscono il cuore della pedagogia patiscono ancora le conseguenze dell’uso improprio che ne fece il nazionalsocialismo: anche la variante tedesca della rivolta giovanile post-sessantotto non è stata altro che una conseguenza della catastrofe in cui il paese era precipitato».
Quindi? Quindi per educare veramente i giovani è necessario scremare gli eccessi autoritari da un lato e dall’altro quelli lassisti antiautoritari retaggio del Sessantotto e di tante teorie e metodi alternativi che hanno promosso un’educazione priva di imposizioni, libera e incondizionata.
Aveva fatto discutere nel 1999 il saggio della psicoterapeuta infantile inglese Asha Philips I no che aiutano a crescere (uscito in Italia per Feltrinelli con prefazione di Giovanni Bollea, che lo definiva «uno dei più bei libri che io abbia letto sull’argomento»). Questo Elogio della disciplina di Bueb è una sua prosecuzione ideale. Basta scorrere i titoli dei capitoli per capire cosa intenda dire: «Occorre ritrovare il coraggio di educare», «La libertà si conquista con la disciplina», «Potere assoluto ai genitori», «La disciplina come terapia», «Non bisogna sempre discutere tutto», «Il disordine è causa di dolore precoce», «per educare con giustizia bisogna essere disposti a punire», «La famiglia non è tutto», «L’uomo è interamente uomo soltanto quando gioca», «Il talento da solo non basta».
Peggio che reazionario, dunque. Punizioni, ordine e disciplina e se ci mettete anche un richiamo ai valori, alla lealtà, all’onestà, all’attenzione verso il prossimo eccetera, ci possiamo aggiungere anche «bigotto». Ma non è così. Perché le tesi di Bueb, scremate da qualche rigidità un po’ troppo teutonica, andrebbero affisse in tutte le scuole italiane.
Andrebbe regalato a quei genitori che hanno menato il professore per un brutto voto al pupillo, al nonno che ha picchiato il preside colpevole di aver sequestrato il cellulare al nipote. Copie gratis anche ai genitori della ragazzina che si fa una canna in classe, a quelli del giovinastro che rolla davanti al prof e poi lo minaccia «se parli ti faccio massacrare», agli autori dei filmini porno in classe.
Tutto ciò che media, sociologi e pensatori di varia natura definiscono «bullismo», andrebbe chiamato con il suo nome vero: mancanza di educazione, ossia carenza, ossia che nessuno educa più. La famiglia da un lato e la scuola dall’altro hanno abdicato al loro ruolo. E questo non c’è bisogno che ce lo venga a dire Bernhard Bueb, il quale però può aiutare a capire come tutto ciò è potuto accadere.
Il «maestro più severo di Germania» non predica, come ci si potrebbe aspettare dalle premesse, il ritorno al «sacrosanto ceffone». Anzi, per lui le punizioni corporali sono mortificanti e non servono a niente. Ma le punizioni, quelle sì, sono sacrosante. «Chi dubita dell’utilità dei castighi sceglie la via del dialogo per aiutare i giovani a diventare assennati, ma influenzare il loro comportamento - e tanto più modificarlo - è impresa al di sopra della forze dei genitori, educatori, e insegnanti». E allora cosa fare? Sentite cosa ha fatto lui: «A Salem fino agli anni Ottanta abbiamo cercato di controllare l’uso di droghe, alcolici e sigarette ricorrendo al dialogo. È stato un fallimento. Con l’avvento di nuovi metodi chimici capaci di rintracciare nelle urine la presenza di droghe, dopo anni travagliati di sforzi infruttuosi abbiamo deciso da un giorno all’altro di introdurre l’esame delle urine: ogni mattina uno studente scelto a caso deve sottoporsi alle analisi e se risulta positivo viene espulso immediatamente. Già all’atto dell’iscrizione genitori e studenti devono sottoscrivere l’accettazione di questa norma. Dopo le prime espulsioni le droghe sono sparite dalla scuola».
Il vero problema, secondo il pedagogista, sta in uno strano concetto di libertà che ha preso piede in tutta Europa. Dice Bueb: «I giovani non vengono più allevati, ma si limitano a crescere da soli. Mentre avere il coraggio di educare significa prima di tutto avere il coraggio di esercitare la disciplina».
La generazione del Sessantotto, secondo Bueb, ha gettato alle ortiche Pierino Porcospino e ha regalato ai figli Pippi Calzelunghe, la meravigliosa creatura letteraria di Astrid Lindgren, che incarna un falso concetto di «libertà assoluta». I giovani confondono la libertà con l’indipendenza e «pensano di essere liberi quando si rifiutano di obbedire a una autorità e dunque si credono liberi da qualunque controllo». Sbagliatissimo, sentenzia Bueb. Perché solo attraverso la disciplina si raggiunge la vera libertà interiore.
Chi cerca nel libro facili formule da applicare al suo caso, rimarrà deluso. Purtroppo non c’è un decalogo: «Le formule - dice - sono il nemico giurato della pedagogia, perché l’applicazione schematica di regole prefissate contraddice l’essenza stessa del processo educativo». L’unica regola che Bueb sembra regalare è la seguente: «L’educazione non è altro che amore ed esempio» (secondo il motto di Friedrich Fröbel, il creatore dei Kindergarten). «Non occorre aggiungere altro».
Resta il dubbio: reazionario o estremamente moderno?
«Il Giornale» del 29 marzo 2007
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