Per qualcuno ancora oggi «l’unica guerra che può valere la pena di essere combattuta è la guerra civile» ...
di Indro Montanelli
Nel settembre del 1953, sulle pagine del Borghese, Indro Montanelli domandava che le uniformi dei soldati italiani ritornassero a tingersi del vecchio grigioverde delle battaglie del Piave e di Vittorio Veneto, dismettendo il colore cachi che aveva coperto le nostre truppe, tra 1943 e 1945, quando esse affiancarono le armate alleate nella lotta contro i tedeschi. L’antipatia per quel colore, aggiungeva Montanelli, proveniva «dai ricordi di un esercito italiano rimasto senza bandiera, vestito con gli scarti dei magazzini altrui, adibito ai bassi servizi dell’armata di Alexander», che costituiva l’interfaccia dell’«Italia delle segnorine, degli sciuscià, della borsa nera, che ai Patton e ai Rommel contrapponeva, esaltandoli, come eroi nazionali, i disertori, i doppiogiochisti, i contraffattori di sigarette americane».
Persino Montanelli, dunque, del cui ombroso ma robusto patriottismo non è dato dubitare, si dimostrava condizionato dal diffuso pregiudizio che considerava i reparti del Regio Esercito, cobelligeranti insieme a inglesi, americani, neozelandesi, marocchini, poco più che una torma di volenterosi ascari, addetti all’umile e poco rischioso servizio di retrovia. Eppure solo qualche anno prima il giudizio sui nostri militari, impegnati nella guerra di liberazione, era stato ben diverso, se, nell’estate del 1947 il partito contrario alla ratifica del punitivo Trattato di Parigi aveva chiesto, per bocca di Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando, di far pesare, presso i vincitori, il contributo delle nostre armi nella lotta contro i nazisti, ricordando come esso fosse stato almeno pari a quello delle forze della Francia di De Gaulle, che ora sedeva trionfatrice al tavolo della pace. Il farlo, aveva aggiunto Nitti, avrebbe comportato però una precisa volontà politica, che fu assente per la maggioranza dei partiti riuniti nella Costituente i quali, come annotava Giulio Andreotti nel suo diario, «per tema di passar per nazionalisti dimenticano di essere italiani».
In questo modo, il ricordo della guerra militare di liberazione venne rimosso dalla memoria della nazione, a tutto vantaggio di quello della resistenza civile, nonostante la notoria inefficacia dimostrata dalle formazioni partigiane sul campo di battaglia. Soltanto nell’ultimo quindicennio una attenta revisione storiografica, finalmente libera dall’ipoteca resistenziale, ha restituito la verità dei fatti, fornendo un’interpretazione esauriente, scrupolosa, obiettiva, che viene ora completata, grazie al contributo dei migliori specialisti della materia (Aga-Rossi, Rochat, Rusconi, Klinhkhamer), nel numero monografico degli Annali del Dipartimento di Storia dell’Università di Roma2, dedicato appunto alla Resistenza dei militari.
Da questa ricerca collettiva emergono alcune cifre eloquenti, al di là di ogni ulteriore commento. Tra 8 settembre 1943 e 25 aprile 1945, il ricostituito esercito italiano mobilitò circa mezzo milione di uomini, di cui 400mila operativi, inquadrati in sei Gruppi di combattimento e nei superstiti reparti dell’Aeronautica e della Marina, ai quali vanno aggiunti 80mila uomini che operarono attivamente in Italia e fuori d’Italia, conservando, come le divisioni «Venezia» e «Taurinense» in Jugoslavia, proprio vessillo e autonomo comando, e i più di 700mila internati nei lager tedeschi che, nella quasi totalità, rifiutarono di collaborare con le forze germaniche. A fronte di questo consistente apparato di uomini e di mezzi, le milizie partigiane schieravano, nella primavera del 1945, 70mila unità, quando all’approssimarsi della vittoria finale si erano ingrossate di nuove leve provenienti anche da numerosi disertori della Rsi.
Se non determinante, il contributo delle forze militari alla liberazione della Penisola fu comunque importante, in attività logistica e di sorveglianza delle retrovie, ma anche in episodi di guerra guerreggiata, che spesso si conclusero con successo, come accadde per la vittoriosa difesa della Corsica, nella battaglia del Garigliano e delle Romagne, negli scontri di Montelungo e di Monte Marrone, e più sovente si trasformarono nell’olocausto delle nostre truppe, soverchiate dalla preponderanza degli avversari. Di questo sacrificio sul campo dell’onore, in obbedienza al giuramento di fedeltà che legava soldati e ufficiali al legittimo monarca, fa testimonianza la tragica anabasi della divisione «Perugia» che, in Albania, dopo l’armistizio, rifiutò sia di consegnarsi ai tedeschi sia di unirsi ai partigiani, e, lottando accanitamente contro gli uni e contro gli altri, si aprì la strada fino alla costa, dove fu travolta dai più numerosi reparti della Wehrmacht, che passarono immediatamente per le armi i suoi 150 ufficiali.
Un martirio, quello della «Perugia», a cui non toccò poi il risarcimento della memoria, invece generosamente tributato alla divisione «Acqui», massacrata a Cefalonia, dopo alcuni giorni di cruento combattimento, dalle truppe di montagna del generale Lanz, la quale sarebbe divenuta il simbolo di una presunta fusione tra resistenza militare e resistenza civile, accomunate dagli obiettivi della lotta patriottica contro il nazismo. Un’operazione della memoria, questa, di cui fu principale artefice il presidente della Repubblica Ciampi, nel discorso del marzo 2001, da alcuni interpretato come un’interferenza politica della «storiografia del Quirinale». Si disse, allora, che il dramma svoltosi nell’isola greca, nel settembre del 1943, presentava troppe e troppo gravi zone d’ombra, per essere assunto a simbolo dell’unità nazionale, a meno che di quella unità non si volesse fornire ancora una volta una versione del tutto compatibile con la vecchia vulgata resistenziale.
L’episodio di Cefalonia si sviluppò, infatti, sul filo del rasoio dell’insubordinazione. I primi atti d’ostilità contro i tedeschi furono intrapresi contro la volontà del Generale Gandin, comandante del distaccamento italiano, convinto, come i fatti avrebbero tragicamente dimostrato, dell’impossibilità di opporre resistenza, in una situazione geostrategica ormai del tutto compromessa. Al braccio di ferro tra alcuni insubordinati e Gandin, si aggiungevano atti di ingiustificata violenza nei suoi confronti e contro altri ufficiali lealisti, che provocarono una situazione di collasso della catena gerarchica, a cui si tentò di ovviare con la convocazione di una sorta di soviet militare, dal quale sarebbe uscita la fatale decisione del ricorso alle armi. L’intero accaduto, che è stato giustamente definito «una pagina nera della storia militare italiana», conserva però, per l’opinione pubblica di sinistra, il grosso merito di «identificare il soldato di Cefalonia con il partigiano» (così scriveva l’Unità già nel settembre 1945), in colui per il quale, come fu detto da un autorevole intellettuale azionista, «l’unica guerra che può valere la pena di essere combattuta è la guerra civile».
Persino Montanelli, dunque, del cui ombroso ma robusto patriottismo non è dato dubitare, si dimostrava condizionato dal diffuso pregiudizio che considerava i reparti del Regio Esercito, cobelligeranti insieme a inglesi, americani, neozelandesi, marocchini, poco più che una torma di volenterosi ascari, addetti all’umile e poco rischioso servizio di retrovia. Eppure solo qualche anno prima il giudizio sui nostri militari, impegnati nella guerra di liberazione, era stato ben diverso, se, nell’estate del 1947 il partito contrario alla ratifica del punitivo Trattato di Parigi aveva chiesto, per bocca di Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando, di far pesare, presso i vincitori, il contributo delle nostre armi nella lotta contro i nazisti, ricordando come esso fosse stato almeno pari a quello delle forze della Francia di De Gaulle, che ora sedeva trionfatrice al tavolo della pace. Il farlo, aveva aggiunto Nitti, avrebbe comportato però una precisa volontà politica, che fu assente per la maggioranza dei partiti riuniti nella Costituente i quali, come annotava Giulio Andreotti nel suo diario, «per tema di passar per nazionalisti dimenticano di essere italiani».
In questo modo, il ricordo della guerra militare di liberazione venne rimosso dalla memoria della nazione, a tutto vantaggio di quello della resistenza civile, nonostante la notoria inefficacia dimostrata dalle formazioni partigiane sul campo di battaglia. Soltanto nell’ultimo quindicennio una attenta revisione storiografica, finalmente libera dall’ipoteca resistenziale, ha restituito la verità dei fatti, fornendo un’interpretazione esauriente, scrupolosa, obiettiva, che viene ora completata, grazie al contributo dei migliori specialisti della materia (Aga-Rossi, Rochat, Rusconi, Klinhkhamer), nel numero monografico degli Annali del Dipartimento di Storia dell’Università di Roma2, dedicato appunto alla Resistenza dei militari.
Da questa ricerca collettiva emergono alcune cifre eloquenti, al di là di ogni ulteriore commento. Tra 8 settembre 1943 e 25 aprile 1945, il ricostituito esercito italiano mobilitò circa mezzo milione di uomini, di cui 400mila operativi, inquadrati in sei Gruppi di combattimento e nei superstiti reparti dell’Aeronautica e della Marina, ai quali vanno aggiunti 80mila uomini che operarono attivamente in Italia e fuori d’Italia, conservando, come le divisioni «Venezia» e «Taurinense» in Jugoslavia, proprio vessillo e autonomo comando, e i più di 700mila internati nei lager tedeschi che, nella quasi totalità, rifiutarono di collaborare con le forze germaniche. A fronte di questo consistente apparato di uomini e di mezzi, le milizie partigiane schieravano, nella primavera del 1945, 70mila unità, quando all’approssimarsi della vittoria finale si erano ingrossate di nuove leve provenienti anche da numerosi disertori della Rsi.
Se non determinante, il contributo delle forze militari alla liberazione della Penisola fu comunque importante, in attività logistica e di sorveglianza delle retrovie, ma anche in episodi di guerra guerreggiata, che spesso si conclusero con successo, come accadde per la vittoriosa difesa della Corsica, nella battaglia del Garigliano e delle Romagne, negli scontri di Montelungo e di Monte Marrone, e più sovente si trasformarono nell’olocausto delle nostre truppe, soverchiate dalla preponderanza degli avversari. Di questo sacrificio sul campo dell’onore, in obbedienza al giuramento di fedeltà che legava soldati e ufficiali al legittimo monarca, fa testimonianza la tragica anabasi della divisione «Perugia» che, in Albania, dopo l’armistizio, rifiutò sia di consegnarsi ai tedeschi sia di unirsi ai partigiani, e, lottando accanitamente contro gli uni e contro gli altri, si aprì la strada fino alla costa, dove fu travolta dai più numerosi reparti della Wehrmacht, che passarono immediatamente per le armi i suoi 150 ufficiali.
Un martirio, quello della «Perugia», a cui non toccò poi il risarcimento della memoria, invece generosamente tributato alla divisione «Acqui», massacrata a Cefalonia, dopo alcuni giorni di cruento combattimento, dalle truppe di montagna del generale Lanz, la quale sarebbe divenuta il simbolo di una presunta fusione tra resistenza militare e resistenza civile, accomunate dagli obiettivi della lotta patriottica contro il nazismo. Un’operazione della memoria, questa, di cui fu principale artefice il presidente della Repubblica Ciampi, nel discorso del marzo 2001, da alcuni interpretato come un’interferenza politica della «storiografia del Quirinale». Si disse, allora, che il dramma svoltosi nell’isola greca, nel settembre del 1943, presentava troppe e troppo gravi zone d’ombra, per essere assunto a simbolo dell’unità nazionale, a meno che di quella unità non si volesse fornire ancora una volta una versione del tutto compatibile con la vecchia vulgata resistenziale.
L’episodio di Cefalonia si sviluppò, infatti, sul filo del rasoio dell’insubordinazione. I primi atti d’ostilità contro i tedeschi furono intrapresi contro la volontà del Generale Gandin, comandante del distaccamento italiano, convinto, come i fatti avrebbero tragicamente dimostrato, dell’impossibilità di opporre resistenza, in una situazione geostrategica ormai del tutto compromessa. Al braccio di ferro tra alcuni insubordinati e Gandin, si aggiungevano atti di ingiustificata violenza nei suoi confronti e contro altri ufficiali lealisti, che provocarono una situazione di collasso della catena gerarchica, a cui si tentò di ovviare con la convocazione di una sorta di soviet militare, dal quale sarebbe uscita la fatale decisione del ricorso alle armi. L’intero accaduto, che è stato giustamente definito «una pagina nera della storia militare italiana», conserva però, per l’opinione pubblica di sinistra, il grosso merito di «identificare il soldato di Cefalonia con il partigiano» (così scriveva l’Unità già nel settembre 1945), in colui per il quale, come fu detto da un autorevole intellettuale azionista, «l’unica guerra che può valere la pena di essere combattuta è la guerra civile».
«Il Giornale» del 25 aprile 2007
Nessun commento:
Posta un commento